Come erano i vini allora?
Erano molto diversi da quelli di adesso. La maggior parte nasceva da una produzione ancora molto primitiva e poco curata, in condizioni igieniche carenti. Erano frutto di macerazioni lunghissime e di lunghe permanenze sulle fecce. I vini erano talmente carichi e pesanti che spesso richiedevano di essere allungati con l’acqua per divenire bevibili. All’epoca il vino era apprezzato soprattutto per il colore, che doveva essere molto intenso e cupo, quasi impenetrabile, anche se il gusto lasciava a desiderare. Chi all’epoca criticava questi vini diceva che “si bevono con gli occhi”.
Come già accennato nei post precedenti, però qualcosa stava cambiando. A partire dal Rinascimento in poi, col recupero dei classici agrari di epoca romana, si diffuse in certi ambienti colti una certa sensibilità per un miglioramento della qualità nella produzione del vino, che fu espressa nei numerosi trattati agrari del tempo. Non tutti questi testi sono altrettanto validi da un punto di vista tecnico: qualsiasi erudito del tempo poteva dilettarsi di scrivere un trattato di agricoltura. Diversi sono quasi solo opere letterarie, che riportano gli scritti di Columella (1) o poco più. Ebbero comunque il merito di diffonderne il sapere. Alcuni sono interessanti perchè descrivono la produzione del tempo del loro territorio. Pochissimi sono realmente innovativi, almeno per alcuni aspetti che poi vedremo.
Ad ogni modo, grazie a tutto questo fermento, iniziò ad emergere un piccolissimo numero di vini che erano prodotti in modo più curato per l’epoca. Questa trasformazione avvenne soprattutto nei territori più dinamici per i commerci del tempo. Il miglioramento produttivo spinse verso la nascita di vini più leggeri rispetto alla media del tempo, più piacevoli alla beva, anche capaci di maggior conservazione. Erano la conseguenza di una produzione fatta con più cura, con macerazioni meno prolungate e con travasi.
Questi vini erano prodotti soprattutto in alcuni territori del nord Italia e della Francia. I vini francesi, in particolare, ebbero una spinta molto importante perchè si ritrovarono al centro delle rotte commerciali più ricche ed importanti dell’epoca. L’epicentro del commercio del vino si era infatti ormai spostato dal Mediterraneo al nord Europa. Sto parlando dei vini di Borgogna, Bordeaux e della Champagne, che vedremo meglio nei prossimi post.
Inoltre, nel Seicento, i progressi nella produzione delle bottiglie e della distillazione portarono alla nascita di nuove tipologie di vino, come gli Champagne ed i vini fortificati. Intanto approfondiamo la produzione dell’epoca.
La produzione del tempo
La maggioranza della produzione dell’epoca era ancora molto primitiva, dalla vigna alla cantina. Le vigne erano trascurate. Erano giusto potate, spesso anche male, o poco più. Fu la riscoperta di Columella a spingere per una gestione migliore. I trattati del tempo citano l’autore romano quasi parola per parola, mescolandoci spesso le superstizioni della loro epoca, come il legame alle fasi lunari o altre credenze. Columella aveva dato una descrizione molto accurata ed avanzata di tutta la trafila dei lavori in vigna, dalla scelta dei terreni alla propagazione delle viti, oltre che i diversi interventi, fino alla vendemmia (leggete per approfondimenti qui, qui, qui ). In particolare, esortava i vignaioli a raccogliere l’uva al momento migliore. L’uso comune dell’epoca era di vendemmiare quando si poteva. Spesso si raccoglieva molto presto, poco dopo che l’uva aveva cambiato colore, per paura dei furti. Columella nel primo secolo d.C., suggeriva di decidere il momento giusto invece con l’assaggio e con l’osservazione del colore dei vinaccioli, un sistema al quale è stata riconosciuta validità scientifica. Nei trattati del Rinascimento e Seicento si aggiungono anche altri sistemi meno funzionanti (qui trovate un approfondimento sull’argomento). Sempre Columella sottolineava l’importanza di selezionare almeno grossolanamente l’uva, scartando quella troppo acerba o ammuffita o marcia, oltre che di togliere le foglie o altri resti vegetali. Soderini (2) consiglia, sempre citando l’agronomo romano, che per avere un vino di alta qualità bisogna togliere anche i raspi: “l’uva spicciola granello a granello”.
L’uva era raccolta dentro a gerle o ceste, a seconda dei territori. La pigiatura poteva avvenire in cantina ma più spesso in passato l’uva era pigiata in vigna. Il pigiato era portato in cantina dentro a botti o altri contenitori e travasato nei tini. L’uva era schiacciata in genere con bastoni o con i piedi, o spremuta con i torchi in legno, come nel Medioevo. Non ci sarà innovazione in questo senso fino all’Ottocento.
Oggi ci sembra banale ma solo travasare il mosto/vino da un contenitore all’altro è stato un grosso problema per tutte le epoche passate, fino all’introduzione Ottocentesca delle prime pompe meccaniche. Era un lavoro molto impegnativo, fatto a mano, con secchi o barili o bigonci (detti “brente” al Nord). Il Soderini descrive alcune rare innovazioni, già testimoniate in epoca romana, di pigiare l’uva al primo piano e far cadere il pigiato per gravità nei tini attraverso uno scivolo in legno che lui chiama “cannone di legno” o attraverso un tubo di cuoio (“calza di cuoio”).
Di media la vinificazione era comunque molto rozza. La qualità del vino veniva spesso ancora legata, come nel Medioevo, alla quantità di spremitura a cui erano sottoposte le uve. I vini che derivavano direttamente dall’uva, con spesso la scelta dei grappoli, erano quelli destinati alle classi dominanti o al commercio. Per i livelli intermedi, si usava un vino derivato dalla seconda spremitura delle vinacce, a cui erano stata aggiunte le uve scartate dai vini più pregiati. Alle classi meno agiate era destinato un vino ottenuto dalla terza spremitura delle vinacce, con l’aggiunta di poca acqua. L’ultimo prodotto era l’acquarello, ottenuto dalle vinacce mescolare ad acqua. Era l’antico “loria” dei Latini, chiamato ancora lorya negli statuti di Asti del XIV sec. Come in epoca antica, si continuavano a produrre i mosti cotti, con diverse concentrazioni: la sapa (concentrata per ebollizione con mele cotogne), il defritto (bollito fino ad una grande densità), il caroeno (ridotto fino a 2/3).
Nel descrivere la vinificazione, nei trattati di allora si usa il termine “bollitura”, Con questa parola si indica sia la fermentazione che la macerazione, senza distinzione. I tempi di “bollitura” indicati sono in genere molto lunghi e, soprattutto, sono uguali per ogni tipo di uva o vino, di media di 20 o 30 giorni. Non c’erano controlli per decidere quando terminare il processo. Non dimentichiamo le condizioni delle cantine: la scarsa pulizia e igiene, le temperature fuori controllo, oltre che la totale mancanza di conoscenza sui lieviti e altri microrganismi, … Possiamo facilmente immaginare che le fermentazioni avvenissero in modo molto difficile in queste condizioni. Duravano a lungo ed avanzavano in modo stentato, con numerosi arresti e ripartenze. Questa situazione porta allo sviluppo di numerosi difetti ed alternazioni nei vini. Il Davanzati (3) ci descrive (con orrore per noi produttori moderni) il vignaiolo che usa una specie di vanga squadrata con cui rimescola e tritura le vinacce ed i raspi nel tino. Poi lascia questa poltiglia in macerazione nel mosto/vino per giorni. Dopo di che, separava il vino (svinatura) e lo mette nelle botti.
Questo modo comune di vinificare iniziò però ad essere criticato dagli autori più innovativi dell’epoca. Fra essi spicca in Italia il bresciano Agostino Gallo (4), il cui trattato (1565-1566) ebbe un’enorme fortuna per secoli nell’Italia del Nord ed in Francia. Secondo lui la durata della “bollitura” non dovrebbe essere sempre uguale, ma cambiare col tipo di uva e di territorio. Scrive infatti: “il bollir dei vini è la maggior questione che sia tra gli agricoltori, perciocché vedendo le tante diversità delle uve, dei paesi, dei terreni impedisce di dare un sol ordine che sia universale”. Secondo lui, l’uso tradizionale di fare “bolliture” standard di venti o trenta giorni porta alla produzione di vini molto pesanti e cattivi, anche se assumono quel colore cupo ed intenso che era associato all’epoca ad un vino importante. Parla di vini fatti con macerazioni brevi, “vini chiaretti” che descrive come molto più piacevoli al gusto. Scrive che a Milano, “che si diletta di ben bere più d’ogni altra nazione”, li fanno “bollire” solo per 3 o 4 giorni, così come ha introdotto “anche re Lodovico in Francia“. Testimonia che questo uso si è diffuso anche nel ducato di Savoia, in Piemonte. Con questo sistema i vini restano “con più bel colore, con miglior sapore e con maggior bontà e che anco si conservano maggiormente”.
Nei territori più votati al commercio questa preferenza per vini con macerazioni brevi andrà in crescendo nel tempo. Culminerà in alcune regioni nella produzione di vini sempre meno colorati per le classi più ricche. L’esempio più noto è la Champagne, col successo fra la fine del Seicento ed il Settecento dei vini cosiddetti “grigi” (vin gris), cioè uve nere vinificate in bianco, per la mancanza di macerazione (“Manière de cultiver la vigne et de faire le vin en Champagne“, 1718, anonimo). Questa pratica è rimasta fino ai giorni nostri, anche se i vini non sono più “grigi” ma assolutamente limpidi, grazie alle tecniche attuali.
Al termine della “bollitura” il vino veniva travasato nelle botti, dove rimaneva fino al momento della vendita o del consumo. In questa fase i vini rimanevano spesso fermi a lungo sulle fecce, una pratica molto diffusa nel passato ma poco qualitativa. In queste condizioni si sviluppano numerose alterazioni. C’è però chi testimonia una produzione con travasi: “i vini romaneschi vogliono esser mutati d’una botte in un’altra tre o quattro volte, altrimenti non si conserverebbero, e per questo mutare scema il vino una botte per ogni 12, come dicono li pratici di questo mestiere”. Ad ogni passaggio naturalmente si perde un po’ di volume.
La ripresa di Columella portò ad introdurre nei trattati anche il concetto dell’importanza del controllo della temperatura durante la vinificazione, che non deve salire troppo. Il Soderini porta l’esempio particolare di una sorta di macerazione a freddo, che era attuata con una botte (contenente il mosto e le vinacce) calata con corde dentro a un pozzo.
Uno dei trattati più importanti dell’epoca per la produzione francese è “Le Théȃtre d’agriculture et mesnage des champs” di Olivier de Serres (5) del 1600. Anch’egli si riferisce ampiamente a Columella. Egli sottolinea l’importanza della vinificazione in contenitori chiusi, di tenere separate le uve per la qualità. Scrive che è meglio cambiare i tempi di macerazione per le diverse tipologie e territori, decidendo con l’esperienza, come scriveva il Gallo. Introduce il concetto di controllo: per capire a che punto è la vinificazione, bisogna spillare spesso il mosto/vino ed assaggiarlo. Il parametro che ritiene più importante per decidere la svinatura è il colore.
Botti, bottiglie e cantine
All’epoca i contenitori del vino erano quasi tutti in legno, dalle botti ai tini, sia per la produzione, conservazione ed il trasporto. Il vino era spillato dalle botti in caraffe o altri contenitori, per essere servito.
I contenitori in legno avevano un’influenza importante sulla qualità del vino, legata alle scarse condizioni igieniche di allora. Era comune che in questi contenitori proliferassero muffe e altre contaminazioni microbiologiche. Inoltre il legno marciva e sviluppava cattivi odori che trasmetteva al vino. Quasi tutti gli autori agrari dell’epoca scrivono, riprendendo ancora Columella, dell’importanza della pulizia per i recipienti del vino e delle cantine. All’epoca però era più facile a dirsi che a farsi. Comunque, per eliminare muffe o altri odori cattivi, ognuno descrive la sua ricetta. Soprattutto consigliano la pulizia con acqua bollente a cui sono aggiunti aromi come la salvia, il rosmarino, fiori di garofano, aceto, …
Per tutti questi motivi la botte vecchia (mal gestita) si è portata dietro a lungo la nomea di cattiva qualità, fin quasi ai nostri giorni. Una nota curiosa: Giovanni Antonio Fineo propose a fine Cinquecento, senza successo, di sostituire i contenitori in legno con anfore invetriate dentro e fuori, per rimediare ai problemi delle frequentissime alterazioni dei vini (ne “Il rimedio infallibile che conserva le quarantine d’anni il vino in ogni paese, senza potersi mai guastare”, Roma 1593). https://it.wikisource.org/wiki/Il_rimedio_infallibile
Le botti erano spalmate di pece per il trasporto ed anch’essa contribuiva in modo importante al gusto del prodotto. Le botti erano anche fragili, perché i cerchi di allora non erano in metallo come oggi ma fatti con i rami flessibili del gelso o del salice, che sono deperibili e non troppo resistenti. Erano quindi frequenti le rotture, con la dispersione del contenuto.
Gli autori del tempo testimoniano che erano usati i legni più disparati, col consiglio che fossero almeno ben stagionati. Non c’era allora una scelta qualitativa del tipo di legno, ma si usavano le essenze disponibili sul territorio come il castagno, il frassino, l’ontano, il carpine, il noce, la quercia e altri. Il castagno era fra i più diffusi in Italia, per la sua grande abbondanza. Solo più tardi (dalla seconda metà del Settecento) si iniziarono a fare valutazioni qualitative sulle tipologie del legno, riscontrando la grande delicatezza della quercia rispetto a tutti gli altri. Infatti la quercia (il rovere) è divenuto il legno per eccellenza per il vino.
Il legno era assolutamente prevalente ma non mancano altri materiali. Andrea Bacci testimonia nel Rinascimento che alcuni vini destinati a “mense eleganti” erano trasportati dalla Toscana in recipienti di vetro o di terracotta, detti “truffe” (o iuste), o nei fiaschi, con piccole imboccature chiuse con tappi di sughero incerato. Egli cita i vini di Porto Ercole, il rosso di Montepulciano, del Piceno e di Cerveteri. Il fiasco toscano è testimoniato fin dal Trecento, rivestito con foglie di stiancia (o scarcia, una pianta di palude) perché non si rompesse durante il trasposto. Oggi il fiasco è praticamente scomparso, ormai svilito nell’immagine nel corso del Novecento. All’epoca era invece un contenitore di lusso. Diventerà diffusissimo solo con l’Ottocento, con la produzione industriale su larga scala delle bottiglie.
Ci sono testimonianze della permanenza di contenitori in terracotta anche in fase di vinificazione soprattutto in Spagna. Erano però viste come eccezioni da citare con curiosità, così come l’uso spagnolo degli otri in pelle. Il Panciroli (6) scrive che i contenitori sono “ordinariamente di legno, se bene in Spagna son di terra, come ancora al tempo dei Romani, e di non minor grandezza e capacità che fossero quelli, dove ancora i barili son differenti dai nostri, e vengono fatti di pelle impeciata, che otri dimandiamo” (Panciroli, “Raccolta breve d’alcune cose più segnalate ch’ebbero gli antichi, e d’alcune altre trovate da moderni …”, 1612). Anche Andrea Bacci descrive le tinajas spagnole, dove i vini erano conservati in contenitori in botti di creta anche per decenni, con sistemi ancora simili a quelli romani. Questa testimonianza si ritrova anche negli appunti di un mercante milanese (“Un mercante di Milano in Europa. Diario di viaggio del primo Cinquecento”, a cura di L. Monga, Milano, 1985). La produzione spagnola dell’epoca venne descritta in patria da Gabriel Alonso d’Herrera (7), nel suo trattato “Obra de agricultura” (1513).
La descrizione di come dovessero essere fatte le cantine si ritrova in diversi autori agrari ma anche di architettura del tempo. D’Herrera scrive che ce ne sono di due tipi, quella sotto e quella sopra terra. Quelle sotterranee o scavate nella pietra sono secondo lui le migliori, perché consentono di avere la temperatura adatta per il vino, fresca tutto l’anno, e non troppo fredda d’inverno. Cita come esempio le cantine di Sutri, vicino a Roma, e quelle in Piemonte di Le Ferrere, vicino a Susa. Quelle sottoterra non devono però essere troppo umide, perché fanno ammuffire i contenitori. Leon Battista Alberti (8) nel “De re aedificatoria” (1443-1452) parla di cantine e scrive che per il vino è necessario che la costruzione sia sotterranea. Analizza gli elementi che possono condizionare il prodotto vinicolo: la temperatura, l’illuminazione, l’influenza dei venti, … Il luogo deve essere stabile, non disturbato da rumori o scuotimenti per il passaggio frequente di carri, inoltre deve essere libero dai miasmi, eccessiva umidità, … Lo stesso scrive il Palladio (9), visto che le alte temperature, dice, i vini “diventeranno deboli e si guasteranno”. Stanno tutti di nuovo citando Columella.
Nel Seicento ci furono dei cambiamenti legati al miglioramento della produzione delle bottiglie di vetro, che iniziarono ad essere un po’ più usate per il vino. Fino ad allora il vetro era impiegato per la produzione di oggetti unici di alto livello, come i pregiati capolavori degli artigiani italiani. Nel Seicento, in Inghilterra, si sviluppò la tecnica industriale di lavorazione del vetro e, verso la fine del secolo, si introdussero miglioramenti che resero le bottiglie sempre più resistenti. Questa produzione si diffuse poi nei paesi più ricchi del nord Europa.
La bottiglia seicentesca per il vino iniziò a diffondersi ma non era comunque ancora un contenitore a buon mercato. Lo diventerà solo con l’espansione dell’industria su larga scala dell’Ottocento. Considerate che la bottiglia spesso costava più del contenuto. Dati il costo ed i rischi nel trasporto, i pochi vini che allora finivano in bottiglia in realtà viaggiavano per lo più ancora nelle botti, spediti poco dopo la fine della vinificazione. I produttori non erano in genere in grado di investire nell’invecchiamento e nell’imbottigliamento. I vini venivano imbottigliati a destinazione dai commercianti di vini di lusso o dai pochi facoltosi consumatori che potevano permetterselo. I primi ad imbottigliare furono i commercianti di vino inglesi, al centro di uno dei mercati più importanti dell’epoca. Il perfezionamento delle bottiglie di vetro permise anche la messa a punto della produzione di vini spumantizzati e l’esplosione commerciale della Champagne (ne parleremo più avanti).
… continua …
Autori citati:
- Columella: Lucio Giunio Moderato Columella, I sec. d.C., ci ha lasciato un’opera, il “De Re Rustica“, considerato il primo vero e proprio trattato agricolo della storia, per completezza e precisione. Ha rappresentato un modello e un riferimento per tutti gli scrittori del settore dall’antichità fino al Settecento.
- Giovanni Vittorio Soderini (Firenze 1526, Volterra 1596), intellettuale e politico toscano, ha lasciato anche una testimonianza della produzione toscana di vino del tempo nel “Trattato della coltivazione delle viti, e del frutto che se ne puô cavare” (1600).
- Bernardo Davanzati Bostichi (Firenze 1529 – 1606) erudito in molti campi, ha descritto l’agricoltura toscana del tempo in la “Coltivazione delle viti e di alcuni arbori” (1579).
- Agostino Gallo (Cardignano 1499-Brescia 1570) è stato uno dei più importanti agronomi italiani del Cinquecento, con la sua opera “Le dieci giornate della vera agricoltura e dei piaceri della villa“, del 1564, in seguito ampliata e pubblicata in tutta Europa. Agostino Gallo descrive la nuova economia agricola della Padania, con la coltura irrigua dai foraggi e lo sviluppo della produzione casearia, l’introduzione del mais e del gelso. Descrive a fondo anche la produzione del vino, facendosi portavoce delle nuove tecniche.
- Olivier de Serres (1539-1619), scrisse quello che è considerato il primo vero trattato di agronomia francese, “Le théâtre d’agriculture et mesnage des champs” pubblicato nel 1600. Cita molto spesso l’opera di Agostino Gallo, senza dichiararlo direttamente. Un aspetto curioso è che descrive come alla sua epoca era ancora molto diffusa in Francia la coltivazione della vite maritata agli alberi.
- Guido Panciroli (Reggio Emilia 1523-Padova 1599) fu un umanista e noto giurista. Si divertì a scrivere questo testo, ” Raccolta breve d’alcune cose più segnalate ch’ebbero gli antichi, e d’alcune altre trovate dai moderni”, in cui racconta alcuni usi e costumi dell’antica Roma e del periodo suo contemporaneo, pubblicato dopo la sua morte.
- Gabriel Alonso de Herrera (1470-1539), ecclesiastico ma figlio di possidenti terrieri, è considerato il massimo esponente di agronomia in Spagna dell’epoca. Il suo testo “Agricoltura Generale” (1513) è rimasto come riferimento in Spagna fino ad inizio Novecento.
- Leon Battista Alberti (Genova 1404-1472) è stato un umanista, artista poliedrico ed un genio del Rinascimento italiano, che viene ricordato soprattutto per il suo contributo all’architettura.
- Andrea Palladio, pseudonimo di Andrea di Pietro della Gondola (Padova 1508-Maser 1580), è stato un grandissimo architetto che ha operato soprattutto nella Repubblica Veneta. Con le sue famose ville, ha creato uno stile architettonico. La sua opera più nota è “I quattro libri dell’architettura” (1570).