Vi è mai capitato di sentire parlare di vinificazione con i raspi? Viceversa, vi siete mai chiesti perché la diraspatura è la pratica prevalente nelle cantine?, Anzi, sapete che in genere si cerca di pulire il mosto da ogni resto vegetale? Ad ogni modo, la diatriba “raspo sì o raspo no” è molto probabilmente vecchia quanto il vino (o quasi).

Nella vinificazione di norma l’uva viene diraspata e poi pigiata, infatti si parla di macchine diraspa-pigiatrici (attenzione a non invertire!). La vinificazione con i raspi consiste invece nella vinificazione del grappolo intero, senza diraspatura, che viene leggermente o per nulla pigiato. Un altro sistema invece prevede che l’uva venga prima diraspata e pigiata, poi sono aggiunti i raspi nella vasca di fermentazione. Qual è la scelta migliore? O meglio, quali vantaggi e svantaggi comportano queste due pratiche?

Inevitabilmente, stando a bagno nel mosto/vino, i raspi interagiscono con esso. Posso rilasciare delle sostanze che contengono o, viceversa, assorbirne altre. Di cosa è fatto un raspo? Provate a succhiarne un pezzo e sentirete senza difficoltà che è tannico, leggermente acido e che ha un gusto erbaceo. Il raspo contiene acqua e diverse sostanze fra cui alcuni acidi organici (il tartarico e soprattutto il racemico), molti tannini, ecc. Con la lignificazione, diminuisce soprattutto la componente acida.

Nella tradizione si possono trovare entrambi i casi di vinificazione. Spesso la scelta era frutto del caso, delle pratiche tramandate localmente o conseguenza delle tecniche di pigiatura utilizzate. C’era però già una riflessione su quale sistema fosse migliore. Infatti, se andiamo a leggere i trattati viticoli di tutte le epoche, dal romano Columella fino ai nostri giorni, l’opinione più comune era che la vinificazione senza raspi fosse migliore per ottenere vini fini ed eleganti, per via dei gusti amari ed erbacei portati dai raspi. L’impiego di questi era invece considerato utile per vini da vigne giovani o per migliorare quelli un po’ scarsi, comunque per vini con minori pretese di qualità. Vedremo il perché di tali affermazioni. Oggi abbiamo anche i dati di numerose ricerche scientifiche che hanno messo a confronto la vinificazione con i raspi rispetto a quella senza.

Proviamo quindi a capire quali sono i vantaggi e gli svantaggi generali della vinificazione con i raspi rispetto a quella senza. Eccovi un breve riepilogo dello stato dell’arte. Iniziamo con gli effetti secondari, per arrivare a quelli più importanti. I dati analitici che riporto sono presi dall’articolo di M. Blackford et al., “A Review on Stems Composition and Their Impact on Wine Quality” (Una rassegna delle ricerche sulla composizione dei raspi e del loro impatto sulla qualità del vino”), Molecules. 2021 Mar; 26(5): 1240.

Migliora la fermentazione?

Un primo effetto positivo spesso ricordato nella vinificazione con i raspi è che si ha una fermentazione migliore. Dalle prove fatte, è infatti possibile verificare un andamento generale un poco più favorevole. Si pensa che questo effetto possa essere dovuto alla quantità aggiuntiva di lieviti che i raspi portano sulla loro superfice, oltre per la capacità di intrappolare fra le loro asperità una certa quantità di aria che favorisce la vitalità dei microorganismi. Inoltre, la massa dei raspi sembra limitare un po’ gli sbalzi termici durante la fermentazione, il che favorisce la sopravvivenza dei lieviti fermentatori.

Tuttavia, si è visto che la maggiore presenza di ossigeno favorisce anche lo sviluppo di microorganismi indesiderati. La conseguenza più evidente è che si ha in genere un’acidità volatile più elevata. Inoltre, in presenza di uve non proprio perfette, con un po’ di muffa, la vinificazione con i raspi sembra accentuare la gravità degli effetti sul vino, la cosidetta alterazione ossidasica (anche se non è chiaro il perché).

L’effetto diluente e adsorbente

I raspi a bagno nel mosto/vino possono rilasciare dell’acqua, con un effetto diluente sugli altri componenti del vino. L’acqua rilasciata è in realtà minima sulla massa del mosto. Che sia questo o per altri motivi, nelle ricerche fatte si evidenziano delle differenze nella composizione del mosto/vino, alcune minime ed altre più importanti. Vediamo quali.

Nella vinificazione con i raspi rispetto a quella senza, si è misurato un lieve aumento del pH (nei vari studi varia dall’1% al 9%) ed una diminuzione dell’acidità (2%-15%), non sempre però confermata in tutti gli studi e per tutte le varietà. La variazione dell’acidità potrebbe dipendere dalla diluizione ma non solo. Si pensa che ci sia anche un’azione sui fenomeni che inducono la precipitazione dell’acido tartarico. Infatti, i raspi incrementano la presenza di sali (soprattutto potassio, ma anche calcio e fosforo), che si legano al tartrato e ne favoriscono la precipitazione. In alcuni studi si sono viste lievi variazioni anche di altri acidi.

Si sente spesso dire che la vinificazione col raspo abbia l’effetto (oggi considerato positivo) di abbassare il contenuto alcolico del vino. C’è chi lo ha correlato sempre alla diluizione, ma anche ad un possibile effetto di adsorbimento delle molecole di etanolo da parte della struttura del raspo. Tuttavia, dagli studi fatti, non si sono visti risultati così eclatanti: in alcuni casi la variazione è nulla, in altri lieve (varia dal 1% al 8%). Credo che abbia molto più senso lavorare bene in vigna per avere equilibri produttivi adeguati.

I raspi sembrano invece avere un effetto sulla diminuzione del colore del vino (rosso), più o meno evidenti a seconda delle varietà. Diminuiscono le antocianine dal 1% al 22%, così come l’intensità del colore (dal 7% al 33%), In particolare, si accentuano i riflessi giallastri in invecchiamento. Anche qui le ipotesi sulla causa sono diverse, forse sommate fra di loro: la diluizione, l’adsorbimento del colore e le variazioni del pH.

Gli effetti più marcati: aromi e tannini

I raspi rilasciano degli aromi che non sono proprio fra quelli più gradevoli. Le analisi chimiche confermano l’aumento soprattutto dei composti pirazinici, che danno note vegetali. Gli studi sugli aromi non sono facili. Come ho già scritto in precedenza, anche se si analizza la presenza e la concentrazione delle molecole aromatiche di una miscela complessa come il vino, non è poi comunque semplice prevederne la percezione olfattiva. Dall’analisi sensoriale, i vini vinificati con i raspi sembrano avere toni meno fruttati (frutta fresca), mentre aumentano le sensazioni di frutta cotta, di erbaceo e di spezie. C’è chi parla di maggiore complessità, ma rimane il dubbio sulla piacevolezza, che comunque è un elemento sempre molto personale.

L’effetto sul gusto del vino sembra invece essere più definito. Negli studi fatti si è visto che la vinificazione con i raspi aumenta la sensazione di astringenza e di amaro nei vini. Infatti, arriviamo finalmente all’evento più rilevante di tutti nella vinificazione con i raspi: il rilascio di una maggior quantità di polifenoli totali, in particolare dei tannini. Il rilascio dei tannini non è sempre uguale ma comunque importante, dal 20% al 80% a seconda del vitigno, della temperatura e della durata della macerazione. L’incidenza dei tannini del raspo è inversa alla durata della macerazione: più essa è lunga, più diventano preponderanti i tannini delle bucce. Se la macerazione è breve invece, i tannini del raspo diventano (logicamente) i più importanti nel vino. Siamo quindi arrivati a capire il motivo principale per cui si considerava utile in passato, in certi casi, la vinificazione con i raspi: soprattutto, il rilascio di tannini nei vini rossi.

I tannini dell’uva si trovano soprattutto nella buccia dell’acino e sono rilasciati nel vino nel corso della macerazione. A volte però il tannino manca, perché si usano uve di scarsa qualità (per i motivi più disparati: perché coltivate in luoghi non vocati, coltivate male, per annate poco favorevoli, vendemmie fatte al momento sbagliato, ecc.), oppure perché si usano vitigni che ne sono naturalmente poveri. Storicamente, dalle testimonianze dall’epoca romana fino ai nostri giorni, si sono sempre cercati dei sistemi per aggiungere tannini ai vini che ne sono sprovvisti. Fin dall’antichità si era però anche capito che i tannini vegetali non sono tutti uguali. Usare un tipo piuttosto che l’altro comporta una notevole differenza finale di gusto nel vino. Nel raspo sono presenti molti tannini di un certo tipo chimico (catechinico) simile a quelli dei vinaccioli e di tutte le altre parti verdi della pianta. Rispetto a quelli “nobili” della buccia dell’uva, sono più ruvidi in bocca, molto più erbacei ed amarognoli. Inoltre, hanno una tendenza ossidativa molto più spiccata.

Galle di quercia, causate da imenotteri della famiglia dei Cinipidi

In passato, il tannino considerato migliore da aggiungere al vino era quello delle galle delle querce. Se passeggiate vicino a questi alberi, potrete facilmente vedere strane escrescenze su diverse parti della pianta (rami, fusto, ecc.). La galla si forma a seguito dell’aggressione di un parassita per proliferazione incontrollata dei tessuti cellulari. La pianta reagisce accumulando in quel punto delle sostanze di difesa, i tannini appunto. L’uso dei tannini delle galle è antichissimo e continua ancora oggi, anche se ormai si usano prodotti purificati che possono avere anche costi molto elevati. Invece, i raspi erano considerati sistemi più alla buona per aggiungere tannini. A volte si usavano anche le foglie, con effetti nel vino decisamente ancora meno eleganti. Questi sistemi erano comunque tollerati e consigliati per la grande massa dei vini senza troppe pretese.

Abbiamo però bisogno oggi di aggiungere tannino al vino? Eccoci alla domanda fondamentale! In una produzione artigianale, grazie alle conoscenze odierne, in un territorio vocato alla vite, è necessario “aggiustare” i vini quando sono frutto di un lavoro poco curato o inesperto in vigna e in cantina. Secondo noi, l’aggiunta di tannino, qualunque sia la sua origine, rimane qualcosa di estraneo alla produzione di un vino di territorio. Non credo che ci sia concettualmente molta differenza se viene fatto con i raspi o con un tannino di quercia purificato.

Roy Lichtenstein, 1972, “Blue grapes”

Vita di cantina: dallo sgranellare a mano fino alle macchine diraspatrici

Con l’evoluzione delle pratiche di cantina dell’Ottocento, non solo non si volevano i raspi in fermentazione, ma neppure nella fase di pigiatura. La diraspatura iniziò a diventare una pratica qualitativa descritta nei testi di viticoltura, effettuata nelle (allora poche) cantine che cercavano di produrre vini più ricercati. In seguito è diventata sempre più comune.

La diraspatura era fatta facendo roteare un tridente in una tinozza riempita a metà con l’uva (illustrazione d’epoca).

Un sistema antico molto grossolano per la diraspatura, antenato (almeno nel concetto) delle macchine moderne, era quello di far roteare in una cesta di uva un bastone ramificato. Nelle aziende più evolute si preferiva un sistema più laborioso ma delicato, cioè quello di staccare gli acini a mano. Si diceva “sgranellare”. Per ovvi motivi, si riservavano queste cure costose ai pochi vini di alto valore.

Tavolo di diraspatura ottocentesco a graticcio (illustrazione d’epoca)

Le prime macchine meccaniche, prima solo pigiatrici, poi anche diraspa-pigiatrici, furono a lungo viste con sospetto per l’azione troppo distruttiva sul grappolo. Quelle che usiamo oggi sono frutto di una notevole evoluzione che, nel tempo, ha spinto sempre più verso la capacità di agire in modo delicato, riuscendo a staccare accuratamente le bacche dal raspo senza strappare o tagliuzzare i pedicelli e le altre parti verdi. Le macchine odierne hanno anche la capacità di pigiare molto poco l’acino stesso.

Nella produzione del vino bianco, dove il gusto è molto più delicato ed il vino si altera molto più facilmente, diventa ancora più rilevante la necessità di non portarsi inutilmente gusti amari ed astringenti, oltre che tannini facilmente ossidabili. Molti vignaioli artigiani, come noi, non pressano il grappolo intero nella vinificazione in bianco, ma prima praticano la diraspatura. Dopo di che, per essere assolutamente sicuri di eliminare tutti i pezzettini di foglie o raspi o altro, viene fatta anche la pulizia del mosto per sedimentazione spontanea. Basta lasciare il mosto una notte al fresco della cantina per far sì che i torbidi precipitano sul fondo della vasca. Il mosto viene quindi prelavato dall’alto, senza smuovere il fondo, e trasferito in un nuovo contenitore per la fermentazione.

In definitiva, avrete capito che noi non vinifichiamo con i raspi e anche il motivo. Il vino per noi si fa con l’uva, con i suoi equilibri unici che nascono in vigne vocate, grazie anche a tanto lavoro per ogni singola pianta. I raspi apportano qualcosa di estraneo al frutto, neppure tanto piacevole, che preferiamo non avere. Oltre tutto, abbiamo un territorio che dona già tanto ai nostri vini, sia come gusto che come aromi, non vediamo nessuna necessità di aggiungere qualsiasi cosa. Ciò non toglie che in altri situazioni non si possa ritenere utile l’apporto dei raspi per i propri vini, dando più peso ai vantaggi piuttosto che agli svantaggi.

I raspi sono comunque importanti nel ciclo aziendale, non sono solo scarti: dopo la diraspatura li mettiamo nella nostra stazione di compostaggio, dove contribuiscono a formare un compost vegetale perfetto per la concimazione delle vigne.

Per approfondire:

Riberaux-Gayon et al. “Trattato di scienza e tecnica enologica”, ed. AEB Brescia, 1980.

M. Blackford et al., “A Review on Stems Composition and Their Impact on Wine Quality”, Molecules. 2021 Mar; 26(5): 1240.

NB: alcune immagine le ho trovate sul web: sono disposta a rimuoverle nel caso qualcuno avesse a risentirne dell’uso.

Le illustrazioni d’epoca vengono da libri antichi della nostra biblioteca sul vino.