di Attilio Scienza
Dioniso è forse il più importante tra le divinità terrestri e ctonie del mondo antico. Il dio che riassume in sé tutta la vita vegetale della natura racchiusa in quel potente binomio vite/vita. Alla figura del dio del vino si ricollega il più ricco complesso mitico, espresso attraverso un’iconografia varia e multiforme, a testimonianza delle sue molteplici sfaccettature.
Un’immagine bipolare in tutti sensi, a volte vigorosa e virile, altre volte curvilinea ed effeminata, come per il Dioniso riccioluto, splendente di gioventù e potentemente seduttivo ma ugualmente fonte d’ispirazione e di pregnante vitalismo spirituale. Dioniso solenne e barbuto è una figura generosa e benefica, che elargisce la felicità e l’oblio dagli affanni e (lathikedes) dalle pene dell’animo. Allo stesso tempo è un tiranno, terribile istigatore di estrema violenza, come per lo smembramento di Penteo, definito con le parole di Euripide: “molto terribile nella pienezza del potere “
Effettivamente, possiamo asserire che l’uomo ha ricevuto con il vino un dono di grande gioia, ma anche di grande tormento. E questo dono divino possiamo descriverlo essenzialmente come un dono di ambiguità e di ambivalenza. Karl Kerenyì descrive l’infusione di energia vitale che può diventare fonte di morte con queste parole “Con la sua crescita silenziosa e raccolta diffonde la massima quiete e con il succo risveglia la massima irrequietezza che rende la vita così incandescente ed esaltata da procurare l’assoluto opposto della vita: la morte.”
Il vino, metafora ed essenza di una millenaria cultura, ha giocato un ruolo centrale nella storia e nell’evoluzione del piacere, nella doppia veste di Persona e Demone. La Persona unisce territorio e tempio, per vanificare paure arcaiche e volontà di dominio, infondendo coraggio e esaltando virtù. Gli aspetti misterici e estatici del culto dionisiaco evocano però anche le forze prepotenti dell’inconscio, trascinando con la danza orgiastica al rituale omofagico e, in preda al entusiasmòs, alla feroce degustazione di carne e sangue palpitante, il Demone.
Sono molteplici e complesse le ragioni della centralità del vino nel mondo antico dalle sue remote apparizioni alla sua poliedrica funzione simbolica. Va però ricordato che un ruolo decisivo è stato svolto dalla natura psicoattiva del vino. Infatti, all’epoca il vino era l’unica sostanza psicotropica ingeribile conosciuta. Era noto per la sua proprietà di indurre nell’uomo modificazioni dello stato di coscienza ordinaria a favore di esperienze straordinarie. Era un medium con cui conseguire uno stato di trance, oltre che per avere un contatto diretto con la divinità. Non a caso in Mesopotamia il vino aveva l’appellativo di “bevanda sacra“. Si era consapevoli che portasse ad una condizione psichica peculiare, classificata dai greci con l’icastico termine entheos: il dio dentro. È nella Grecia antica che giunge a compimento un processo di spiritualizzazione del nettare divino, nella forma estrema espressa nelle feste come le dionisie, baccanali, le anthesterie, dove erano ammesse ubriachezza sfrenata, danze deliranti, ritmi vorticosi che aprivano la via per la conoscenza e l’unione con il trascendente, naturalmente anche con le estreme conseguenze.
La bevanda di Dioniso era anche strumento di conoscenza di sé e di sé con gli altri nelle scuole di speculazione filosofiche socratiche e platoniche. Era elevato a strumento isagogico, capace di introdurre alla comprensione della Verità. L’ebbrezza era ritenuta l’anticamera obbligatoria a quello stato di eccezionalità psichica nota come alterazione, ovvero alter \ ratio.
Per delineare il rapporto col vino nella società greca, bisogna però distinguere tra l’ubriachezza da vino puro e quello bevuto, come di consuetudine, diluito. Sul bere puro, Erodoto ci racconta che Cleomene I di Sparta impazzì a causa del bere eccessivo. Secondo l’autore, frequentando gli Sciti, aveva imparato a bere vino puro e dopo non poté più farne a meno. Per questo gli Spartani, quando volevano indicare l’eccesso nel bere, lo chiamavano bere alla maniera scitica. Il bere scitico divenne poi sinonimo del bere assoluto. Nelle Questioni Conviviali Plutarco sottolinea il fatto che il vino puro produce un vero e proprio sconvolgimento psichico e la perdita totale della ragione. Bere vino puro non era comunque solo questo: Alessandro Magno usava bere vino puro. Ulpiano scrive, facendosi versare il vino puro: “mesci ragazzo diecimila tazze in onore di dei e dee.” Infatti il vino puro era riservato a Dionysos. Il nobile simposio apriva sempre con aktratos, il vino puro prerogativa del dio, poi proseguiva con kratos, il vino mescolato all’acqua, riservato agli uomini.
Solitamente, il vino era infatti degustato nella forma diluita con acqua. Sulle proporzioni della diluizione troviamo diverse indicazioni, come quella riferita da Anacreonte, ovvero 1/3 vino e 2/3 acqua. Spesso scartata come pericolosa era la soluzione 1\2 e 1\2. Il famoso medico dell’antichità Mnesiteo diceva che Dioniso è il vero grande medico. Il vino da buonumore a chi lo beve di giorno con moderazione e, continua, va bevuto diluito con acqua. Se è allungato metà e metà, può far diventare pazzi. Se bevuto puro paralizza il corpo. “Per voi tutti Io sono Dioniso cinque e due”, viene annunciato in “Donne e Lemno”, dove vengono menzionate anche altre proporzioni.
Platone ricorda che il dono del vino non è senza rischio. Nel primo libro delle leggi dice: “ma riguardo all’ubriachezza, come vi si abbandonino Lidi, Persiani, Iberi, Traci allo stesso modo che voi Spartani ve ne astenete del tutto. Sciti e traci bevono vino assolutamente puro e le donne al pari di tutti gli uomini lo spargono su tutte le vesti e hanno la convinzione che questa sia una consuetudine da ricchi”. Nel sesto libro osserva che “bere fino a ubriacarsi non conviene in nessuna altra circostanza che nelle feste in onore del dio”.
Nel mondo greco c’è però anche un’altra visione, che lega il vino all’amicizia, alla conversazione, alla filosofia e alla musica e vede nell’ebbrezza misurata un comportamento armonioso e controllato. Questo mirabile insieme fa del symposiòn greco, nella sua forma più elevata, una manifestazione etica, religiosa e intellettuale. L’etica del vino era il cuore del contesto del simposio, il centro della vita comunitaria per eccellenza, con una precisa valenza politico sociale. Il sublime equilibrio del modello del symposiòn è la cornice per considerare due frammenti dell’opera di Alceo.
“Vino, ragazzo mio, è verità”
“Il vino è mezzo per sbirciare l’uomo”.
Il primo dei due frammenti, nella sua immediatezza, attesta quasi sicuramente la prima comparsa in letteratura del famoso detto “in vino veritas”. Il vino dunque può svelare l’uomo; è capace di portare alla luce ciò che è più nascoso e permette di entrare nel suo intimo. Una definizione simile si ritrova in Eschilo: “vino specchio dell’anima”.
Il secondo frammento invece è ricco di sfumature, legate al termine dioptron, ovvero quello strumento che serve per guardare attraverso una sorta di finestra aperta sul pensiero e sul sentimento.
Siamo in preda delle nostre emozioni ma, senza emozioni, non potremmo partecipare alle vicende della nostra vita in relazione con quella degli altri. Senza di esse non possiamo apprezzare le informazioni che ci vengono dall’arte, dalla società e dalla scienza. Le emozioni sono legate agli organi di senso (vista, udito, tatto, gusto) a tal punto da chiederci se è possibile apprezzare un’opera d’arte o un brano musicale o degustare un buon vino in assenza di emozioni. Ci si chiede se esse siano l’espressione di puri e semplici meccanismi di adattamento comportamentale o invece il risultato di “costruzioni”, ovvero una sintesi che integra ed amalgama sensazioni sensoriali, tracce mnestiche, micro comportamenti, routine gestuale, aspettative. L’emozione non è allora solo fondata su percezioni fisico-psichiche ma esige delle connessioni con l’immaginazione, intesa come risultato della compatibilità tra la mente ed il mondo esterno, il cosiddetto “senso comune”. L’emozione del gusto è prodotta dall’esercizio dell’immaginazione. Nel codice manageriale, nell’economia delle esperienze, la produzione del plusvalore è strettamente legata alle cosiddette “esperienze emozionali” ed alla sfera dell’immaginario attraverso la produzione di artefatti ad alta componente simbolica L’empatia, l’immedesimazione, è la capacità di riconoscere e di identificarsi con quello che un’altra persona sta pensando o provando e di reagire con uno stato emotivo simile, provare un’emozione assieme.
Nei comportamenti collettivi di una degustazione moderna si scorge l’antico rituale simbolico contenuto nel simposio greco e nella messa cristiana, che può essere definito come “principio di incorporazione”. Il consumatore d’oggi si pone inconsapevolmente due problemi importanti e sostanzialmente nuovi: quello relativo alla distruzione dell’alimento o del vino nella sua forma materiale e quello della trasmutazione nei tessuti del proprio corpo. Questi due aspetti, inerenti all’atto del nutrirsi, erano risolti nel mondo classico attraverso i riti dionisiaci, col dio che muore due volte, prima col dilaniamento dell’uva nella pigiatura, seguita dalla rinascita dovuta alla fermentazione, e poi nell’atto del bere. Nel cristianesimo si risolvono con la morte e la resurrezione del Cristo. Dopo il tentativo della separazione cartesiana dello spirito dal corpo, torna questo concetto di ricongiungimento fra l’esterno (l’alimento) con l’interno, la forza vitale. Lo spirito si ricongiunge alla terra.
Jung, nella fenomenologia della messa, riconosce nel “mangiare il dio” il significato di “syn-ballein” (da cui il termine “simbolo”), lo stare assieme, l’alchimia per trasformare la materia grezza del vino in una nuova realtà psichica, la sottomissione della realtà biologica all’esigenza spirituale che rafforza il legame sociale. Nel lontano passato il vino era al centro delle varie manifestazioni delle società occidentali come i festeggiamenti per le nascite, i matrimoni, nei riti di passaggio, fino all’inumazione dei morti. Ora è in atto un fenomeno di de-simbolizzazione che testimonia il progressivo allontanamento dell’uomo moderno dalle suggestioni del mito.
Quali le conseguenze sulla sociologia dei consumi del vino?
Nel simposio greco come nel consumo del vino in compagnia dei giorni nostri, dove un vino è accompagnato da un buon argomento condiviso dalla tavolata, è difficile che l’aura evocativa porti all’ubriachezza. Essa nasce dal bere dei giovani che si vogliono ubriacare rapidamente. Non è tanto il bere a stomaco vuoto ma il bere a cervello vuoto.
Se Dioniso è il dio della morte e della vita, si può utilizzare la dualità ctonio/epi-ctonio nella rappresentazione delle diverse tipologie di vino. Khtohon significa “terra” in greco, termine che si ritrova nella parola autoctono, che vuol dire “originario di quella terra”. Nella mitologia greca si distinguono divinità ctonie (Gaia, Ade, Demeter, etc) dalle divinità epi-ctonie (creatrici della terra) come Urano, Zeus, Atena, ecc. Qual è il loro rapporto con il vino? Non ci sono dubbi che il vino è ctonio, un prodotto della terra, con le radici profonde ed è conservato nella terra, nelle profondità delle cantine e nelle anfore, fatte di terracotta. I greci antichi versavano a terra le prime gocce di vino nel rituale della libagione del simposio, per placare le divinità ctonie.
Vi anche un’altra dualità, quella dionisiaco/apollinea, riportata ai nostri tempi da Nietzsche. Dionisio è il dio del vino, dell’eccesso, colui che beve vino puro. Per questo è detto acratophoro, in quanto non versa il vino nel cratere per la diluizione con l’acqua, come era la prassi simposiaca. Identifica il vino carnoso, forte, alcolico, strutturato. All’opposto abbiamo il vino della temperanza, dell’elevazione spirituale del banchetto greco, che non era una riunione di ubriachi, ma un momento di discussione, di narrazione di canto. Quale è allora il personaggio che deve essere invocato? Senza alcun dubbio Apollo, Phebus, il dispensatore di luce, che rappresenta il piacere del bere come un momento per lo spirito non solamente della carne e non legato all’ebbrezza.