Sulla maggiore calamità della viticoltura: la fillossera (parte 5°)
E l’Italia?
Finora si è parlato solo della Francia (qui, qui, qui e qui) in quanto fu il primo paese ad essere attaccato dalla fillossera e il primo a reagire nella ricerca della causa della malattia e delle soluzioni.
Nel libretto “La fillossera – Le sue invasioni”, 1879 – da La Gazzetta delle Campagna, leggiamo che l’Italia in quel momento non era ancora stata infettata ma c’era l’invito ad essere pronti: già si è propagata in mezza Europa.
L’autore esprime la speranza (che sappiamo vana) che la nostra terra possa non essere colpita da tale male. Secondo lui l’Italia ha il vantaggio di avere vigne con sesti d’impianto molto ampi, con singoli ceppi molto più forti e vigorosi. Egli spera che questo sia utile a limitare il contagio, in quanto si era già appurato che l’insetto si sposta con difficoltà quando la distanza fra le viti è ampia. Inoltre, le vigne italiane sono spesso interrotte da canali, torrenti e altre colture, situazione che potrebbe ritardare la propagazione del male. L’invito però è quello di stare allerta, di sorvegliare coscienziosamente per cogliere i primi segni delle piante infette, bruciandole subito ed usando gli insetticidi nella terra intorno. L’importante è anche bloccare tutti i movimenti ed importazioni di materiali vegetali che possano propagare l’insetto.
L’autore presenta anche i diversi sistemi di difesa già attuati in Francia, sottolineando l’incredibile resistenza del parassita e la difficoltà a trovare rimedi che non fossero solo palliativi. Racconta che in Svizzera e Austria furono bruciate tutte le viti di vigneti infetti, rivoltato il terreno e scosso con la dinamite, seminato poi con tabacco, ricino, canapa e piretro e poi sovesciati. Dopo 5-6 anni si ritrovò di nuovo la presenza della fillossera.
I rimedi considerati migliori sembrano essere tre, come si deduce dell’esperienza francese: la solforazione del terreno, l’allagamento e l’uso della viti americane. Quest’ultimo è un rimedio radicale, a sostegno del quale l’autore ricorda le recenti scoperte del prof. Foëx. Lo studioso francese aveva infatti provato senza ombra di dubbio la resistenza delle viti americane alla fillossera. Secondo lo scienziato, questa resistenza è dovuta ad una maggiore legnosità delle radici, che sembrano così avere una minore permeabilità di tessuto. La loro resistenza sembra essere una proprietà intima ed immutabile di esse, quindi sicura e non transitoria.
L’autore termina così il suo scritto. Tuttavia fu proprio nello stesso anno (1879) che ci fu la prima osservazione in Italia della fillossera, in una località vicino a Lecco.
Quindi la terribile bestia arrivò anche da noi.
Facciamo quindi un salto in avanti. Sedici anni dopo, il prof. Ferdinando Vallardi descrive lo stato drammatico di una infezione ormai già dilagata in “Le viti americane e la viticoltura moderna” (Casa Editrice Dott. Francesco Vallardi, 1895). Racconta che, da verifiche fatte nel dicembre 1894, ben 27 provincie italiane avevano già visto la comparsa della fillossera. L’infezione aveva già distrutto oltre centomila ettari e altri settantacinquemila erano prossimi alla distruzione. La regione più colpita era la Sicilia, poi la Sardegna, la Calabria, l’Isola d’Elba, Liguria, Lombardia (Lecco e Bergamo) e Piemonte (Pallanza).
Cosa fare se i danni si fossero allargati oltre? Vallardi sostiene che col sistema preservativo (il solfuro di carbonio) si copre solo la ritirata, cioè si contengono un po’ i danni ma non si risolve nulla. I viticoltori non devono indugiare ancora ma iniziare la ricostruzione con le viti innestate su piede americano. Quelli che non sono stati ancora colpiti devono invece essere pronti per il futuro. Egli argomenta la sua tesi riportando che la Francia, prima della fillossera, produceva dai 60 ai 70 milioni di ettolitri l’anno di vino. Nel 1887 è scesa a 25 milioni. Nel 1893 è già risalita a 50 milioni grazie alla ricostruzione dei vigneti con le viti innestate. Scrive: “Imitiamo dunque i nostri vicini, e i loro studi e le loro osservazioni ci siano di guida ….”.
Vallardi racconta che i vitigni americani già si coltivavano in Italia prima della fillossera e forse proprio da lì viene il micidiale insetto. Il York’s Madeira è coltivato da oltre 50 anni in Lombardia, scrive. L’Isabella a Varese fu piantata in abbondanza dopo il problema dell’oidio. Tuttavia la fillossera è arrivata in Italia un po’ più tardi e quindi ci si può già appoggiare sull’esperienza dei francesi. Vallardi racconta che il governo italiano è partito subito con la distribuzione di viti americane ai produttori delle zone colpite. Inoltre ha acquistato nuovi ibridi creati in Francia per sottoporli agli studi. Infine sono attive campagne governative per la diffusione della conoscenza attraverso conferenze, regalando attrezzi e copie di testi (come “Istruzione popolare sull’innesto della vite” del prof. Cavazza) per spingere i viticultori a costruirsi anche dei piccoli vivai interni.
Vallardi dimostra quindi col suo scritto di essere un “americanista” convinto. Non è il solo, in quegli anni si trovano infatti altre opere che spiegano dettagliatamente le varietà americane e come innestarle. Ad esempio, nella nostra biblioteca abbiamo anche l’opera del Vannuccini, del 1896: è un manuale pratico, per insegnare le tecniche dell’innesto.
Eppure l’esperienza non insegna: in Italia si ripetè lo stesso dibattito inferocito che c’era stato tempo prima in Francia. Si sprecarono soldi e risorse e si ritardò la ricostruzione.
Una testimonianza in questo senso si trova in una raccolta dei supplementi mensili del 1899 del Giornale di Agricoltura, dal titolo “Le viti americane e la fillossera”. La linea del giornale mostra chiaramente questo percorso. Nei primi numeri sembra sposare più fervidamente la posizione “sulforista”. Pur dedicando anche spazio alla descrizione degli avanzamenti nello studio dei portinnesti americani, ne prende inizialmente le distanze. Nelle prime pubblicazioni addirittura scrive che il titolo non sia fuorviante, loro non sono “americanisti”, non appartengono alla piccola schiera di chi vede solo nelle viti americane il rimedio a questo male. Loro credono che possano esistere altri mezzi. L’autore sottolinea che la ricostruzione delle vigne d’Italia sarebbe un’opera lenta e richiederebbe anche grandi capitali che non abbiamo. Alcune pagine dopo però prevalgono sentimenti ambivalenti. Da una lato la speranza che basti l’insetticida per salvare le viti è dura a spegnersi. Dall’altro emerge sempre più l’amara consapevolezza di dover accettare la difficile e costosa ricostruzione delle vigne d’Italia.
A Dicembre dell 1899 compare anche una descrizione della situazione del momento: un settimo dei vigneti italiani sono invasi dall’insetto. C’è anche l’elenco dei Comuni. Per curiosità ho cercato la nostra zona: c’è anche Castagneto, con tutti i comuni circostanti.
La polemica divenne anche aspra. Il Giornale accusa che mancano i capitali per far fronte al disastro, mancano le cognizioni tecniche. I proprietari non ancora colpiti si sentono immuni, non se ne preoccupano e non prendono provvedimenti. Il Governo distrugge i vigneti infestati con mezzi inadeguati. Il prof. Sannino sta spingendo per l’importazione diretta di viti americane già testate e selezionate in Francia ma il Governo, con la paura di diffondere materiale infetto, ne ritarda l’importazione. Ha importato i semi, ma le viti generate dovrebbero essere tutte studiate e selezionate prima di poterle usare: è un lavoro molto lungo. I vitigni americani e i loro ibridi coltivati in Italia non danno garanzia di vera resistenza: prima di investirci tempo e denaro bisognerebbe che ci fosse più ricerca e sperimentazione. Quelli già studiati in Francia non sono mai stati sperimentati per capire come si comportano nei territori viticoli italiani. Il problema è che sono studi che richiederebbero anni prima di dare delle risposte sicure e precise, mentre non ce n’è il tempo! La conclusione comunque è desolante: non siamo pronti ad affrontare la ricostruzione.
Il Giornale riporta poi però anche le polemiche sul sistema conservativo, quello chimico, che ormai dimostrava tutti i suoi limiti: l’applicazione dell’insetticida sembra non dare grandi risultati o per lo meno non durevoli. C’è chi dice che deve essere abbandonato, c’è chi dice che viene solo applicato male. Si inizia a pensare che sia solo uno spreco di soldi. Compare sul giornale, ad esempio, la polemica circa il ritardo dell’intervento in Valmadonna (Alessandria), dove non si è ancora intervenuti col solfuro di carbonio, dopo il diffondersi della malattia. C’è chi dice che è meglio ormai lasciar fare alla fillossera, che si spreca denaro, tanto non cambia nulla. L’On. Ottavi scrive che non intervenire in Valmadonna significa riconoscere che i lavori fatti finora siano stati mal eseguiti e il denaro buttato. Si abbia allora il coraggio di dichiararlo e di abbandonare questa zona alla distruzione….
Sicuramente furono anni difficili e di grandi polemiche. La lotta per migliorare la viticoltura in Italia e traghettarla oltre il problema della fillossera fu molto dura, forse più che in altri paesi. Il mondo agrario italiano era molto conservatore, molto chiuso ed arretrato rispetto ad altri. La ricostruzione in Italia infatti fu molto più lunga che altrove.
Negli anni ’30 infatti si parla ancora dei problemi della fillossera, come testimonia lo scritto del prof. Grandori (“La fillossera” – di R. Grandori, Ramo Editoriale degli Agricoltori, Roma, 1937).
Grandori ripercorre la storia della fillossera e della lunga ricerca di metodi per combatterla. “Era un vanto dei nostri padri e nonni possedere ceppi secolari“, dice. Ormai sono quasi tutti scomparsi, sostituiti dai giovani impianti di viti innestate per colpa del terribile insetto. Grandori ricorda come nei primi quindici anni il Governo italiano abbia sovvenzionato il metodo del solfuro di carbonio. Questo però arginava un po’ il problema ma non era risolutivo perché non riusciva a raggiungere ed eliminare tutti gli individui terricoli. Ormai il sistema, scrive l’autore, è abbandonato ed usato saltuariamente solo da alcuni Enti o privati. L’autore accenna anche all’allagamento, ma dice che anch’esso è ormai abbandonato. Ormai l’unica soluzione accertata sono le piante innestate (bimembri). L’aspetto negativo, ormai costatabile dopo che sono passati decenni dai primi impianti fatti, è che si perde in longevità. La vita delle viti diventa massima di 30-40 anni, contro i ceppi centenari del passato. Tuttavia, sostiene, è un danno sopportabile rispetto al rischio della scomparsa della viticoltura.
Eppure, ancora quasi alla fine degli anni ’30, Grandori deve ammonire i produttori italiani. Sono passati tanti anni eppure ancora oggi (egli scrive) solo i viticultori che hanno già avuto a che fare con questa malattia la conoscono in tutta la sua gravità. Secondo lui non è ammissibile che nei territori dove non è ancora giunta si continui ad ignorarla, considerandola una minaccia lontana. L’autore cita l’ammonimento che Giovanni Battista Grassi* fece ad inzio secolo: “Non occorre essere profeti né figli di profeti per preconizzare che la Fillossera non arresterà la sua marcia se non quando avrà distrutto l’ultimo piede di vite europea”.
*Grande medico italiano, noto per gli studi sulla malaria, ma che si occupò nei primi anni del Novecento anche della fillossera.
Eppure anche l’Italia completerà la ricostruzione.
Come ricorda lo stesso Grandori, la vittoria contro la fillossera non ha portato giubilo. Il costo pagato è stato elevatissimo!
Ma è veramente finita? Ne siamo così sicuri? (…. continua)