Dopo aver parlato di fermentazione in generale, soprattutto sul ruolo dei lieviti (qui e qui), vi invito in un piccolo viaggio nella storia, alla scoperta di cosa si pensava nel passato a proposito di questo cruciale passaggio e come si è arrivati a comprenderlo.
La fermentazione è utilizzata dall’uomo da almeno 10.000 anni nella sua alimentazione, dal vino alla birra, dal pane allo yogurt, al formaggio… Tuttavia per millenni l’umanità lo ha fatto in modo inconsapevole, senza sapere cosa succedesse e perché, a parte il risultato finale.
La parola è antica, deriva dal latino fermentum, dalla radice del verbo fervere che significa muoversi, bollire. Nasce dall’osservazione di quanto succede in modo chiaramente visibile durante il processo: il pane lievita, si gonfia e si espande, il vino (o la birra) bolle.
Ma cosa pensavano nel passato di questo fenomeno?
Se cerchiamo dei riferimenti nei testi agrari , dall’antichità all’Ottocento, non si parla o non ci si chiede granché sul perché e come succede. Piuttosto si trovano indicazioni di lavoro pratico, utili a favorire il processo. Questo è naturale: i testi agrari nel passato erano per lo più rivolti ai lavoratori delle campagne di un certo rango, in particolare ai fattori. Nelle epoche più antiche si ignora del tutto il problema (almeno, per quanto ci è dato sapere). Nei testi del Sette-Ottocento si liquida la faccenda con la frasetta: “(il mosto) bolle per sua natura“. Quindi, succede e basta, non stiamo a chiederci il perchè! Queste domande erano lasciate più ai filosofi e poi agli scienziati, che però incontreremo più tardi.
Uno dei testi agrari più dettagliati dell’antichità è il De re rustica di Columella (65 d.C.), in italiano “Sull’agricoltura“, che raccoglie la summa di tutte le conoscenze agricole romane (qui riassunte con quelle etrusche). E’ un testo così ben fatto e preciso da essere considerato dagli esperti il primo vero e proprio trattato agronomico della storia. Fu così importante da rimanere come principale riferimento per l’agronomia fino al Settecento!
Lucio Giunio Moderato Columella è vissuto nel 1° secolo dopo Cristo, originario di Cadice (l’attuale Spagna). Dopo una prima carriera militare in Siria, si ritirò alla vita agraria nelle sue tenute nel centro Italia. Racconta di essere stato influenzato nel suo interesse per l’agricoltura dallo zio, Marco Columella, che egli descrive come uomo astuto e grande fattore. Quindi i suoi scritti non sono solo un’opera letteraria (come altri testi sull’agricoltura dell’epoca) ma derivano dell’esperienza diretta, oltre che da una mente curiosa e che appare già molto scientifica.
Columella ama molto la vita agricola che ritiene moralmente più sana di quella di città, come racconta nella sua opera. Secondo lui l’agricoltore deve gestire direttamente la proprio azienda e deve avere un’ottima preparazione sul suo lavoro, basato sullo studio di testi validi. Mostra una particolare sensibilità (rispetto ai suoi tempi) sull’uso di manodopera servile. Secondo lui gli schiavi che lavorano nei campi devono essere trattati con umanità e famigliarità, oltre che consultarli sui lavori agricoli.
Nelle parti dell’opera dedicati alla vinificazione (molto più ristrette dello spazio offerto alla parte dei lavori in vigna) , scopriamo che anche Columella sorvola elegantemente su quanto succede nell’intima oscurità del dolium in fermentazione (il dolium è il vaso in terracotta in cui facevano la vinificazione). Eppure dà molti consigli sensati (alla luce delle nostre conoscenze odierne) su come lavorare per far sì che il tutto vada a buon fine. In particolare insiste sulla necessità di assoluta pulizia della cantina e degli attrezzi di lavoro, soprattutto dei contenitori dove verrà messo il mosto e il vino. Oggi infatti sappiamo che l’igiene è il primo requisito fondamentale per produrre un buon vino, per evitare d’inquinarlo con certi microrganismi responsabili di tanti gravi problemi, dall’acetificazione ai cattivi odori alla torbidità, ecc.
Columella ricorda (come fa anche oggi ogni buon cantiniere) che la preparazione alla vendemmia deve iniziare almeno un mese prima, con l’accurata pulizia di ogni attrezzo. Ricorda anche che il torchio deve essere pulito per bene dopo ogni uso. “La cantina si mondi da ogni sterco, profumandola con buoni odori, così che non sia offesa da odore puzzolente o agro. …” (i testi sono tratti dall’edizione del 1564, tradotta dal latino da Pietro Lauro Modonese).
I dolia (vasi in terracotta in cui avveniva la vinificazione), interrati e no, devono essere puliti e preparati raschiando lo strato interno di pece dell’anno precedente, dopo averlo ammorbidito col calore, e poi accuratamente impeciati di nuovo.
I consigli che seguono riguardano soprattutto indicazioni di “condimenti” da aggiungere al vino (resina, acqua di mare, ecc.) per la conservazione del vino. Ricordiamo che comunque i vini dell’antichità erano ben diversi da quelli odierni. I problemi di vinificazione facevano sì che presentassero gusti che oggi consideriamo difetti. L’uso comune di servirli miscelati con acqua, aromi, spezie, miele e tanto altro serviva appunto a coprire e correggere questi problemi inevitabili.
Sappiamo da fonti più letterali che nel periodo antico era cosa comune attirare la buona sorte sulla vendemmia con riti augurali. In particolare venivano celebrati i Vinalia Rustica, il 19 agosto, riti di buon auspicio per la prossima vendemmia (molto simili alle benedizioni delle vigne e dei campi che i nostri preti facevano fino a non molto tempo fa). Cicerone, nel “De Devinatione” cita le “auguratio vineta“, pratiche augurali che fa risalire all’augure Atto Navio dell’epoca di Tarquinio Prisco.
Non possiamo fare a meno d’immaginare che anche la delicata fase della fermentazione avesse la sua parte di rituali. Eppure Columella non si spreca molto in questo senso, accennando solo rapidamente al sacrificio dovuto a Libero e a Libera, ai quali vanno consacrati i vasi della vendemmia. Per lui, che da come scrive sembra un agronomo curioso e molto razionale, è più importante che “non ci si scosti mentre che dura la vendemmia dal torcolo o dalla cantina, in modo che si faccia il mosto netto e puro…”.
Se passiamo al Medioevo la situazione non cambia molto. Come già nel tardo impero, non abbiamo più i vasi in terracotta ma nelle cantine predomina il legno. Tuttavia il modo di fare il vino è praticamente lo stesso, a volte anche con tecniche più scadenti, soprattutto nell’Alto Medioevo.
I grandi testi di agronomia medioevale sono soprattutto quelli della cultura araba. Fra l’VIII e il XIV secolo vi è una grande attenzione all’agricoltura: contiamo circa una cinquantina di opere dedicate a questo ambito. Queste opere fioriscono un po’ in tutte le terre allora sotto l’influenza araba, in particolare al-Andalus, l’attuale Andalusia, che in quel periodo vive un periodo d’oro. Per la cultura araba dell’epoca l’agricoltura è una professione che richiede un sapere specifico. In alcuni testi andalusi si parla dell’agricoltura come un mestiere (san’ a), ma anche come una scienza (‘ilm) ed un’arte (fann). Nell’opera di al-Tignārī (“Libro dello splendore del giardino e del diletto della mente“) vi è scritto: “chiunque ne abbia l’attitudine ha il dovere di dedicarsi all’apprendimento della scienza di cui ha bisogno per esercitare il proprio mestiere. Coloro che sono privi di tale attitudine, devono invece ricorrere al consiglio dei sapienti per tutto ciò che riguarda le loro colture o i prodotti di altri mestieri” . Sembra scritto per i nostri giorni!
Purtroppo questi testi non ci parlano di vino, in quanto siamo già in epoca musulmana. Dedicano però ampie parti alla coltivazione dell’uva, soprattutto per il consumo fresco o essiccato. Le fonti a cui attingono sono diverse a seconda delle opere: alcune traggono ispirazione da testi romani classici (Plinio e Columella soprattutto), altri dai bizantini oppure della Mesopotamia. Tuttavia sappiamo, da fonti storiche e letterarie, che la produzione dei territori viticoli era continuata anche dopo il passaggio sotto il dominio arabo. Per lo più (ed ufficialmente) era svolta da comunità di altre religioni e una piccola parte per soli fini farmaceutici. In realtà vi era anche una produzione di persone di religione musulmana. L’importante era che non fosse ostentata. Le tecniche di vinificazione ci sono arrivate comunque (più o meno) per altre vie, ma senza troppi particolari che ci diano indizi sul nostro tema di fondo, la fermentazione. Su questo capitolo molto interessante, torneremo a parlare in un prossimo post.
Tornando in Occidente, l’unico testo agrario di una certa rilevanza è il “Ruralium Commodorum Libri XII” del bolognese Pietro De Crescenzi (1305), basato per molte parti sugli scritti latini, Columella in testa. Anche De Crescenzi descrive molto bene le fasi precedenti la vinificazione, come la decisione dell’epoca della vendemmia e l’importanza della pulizia della cantina, e poi di quelle successive (la conservazione). Non accenna alla fermentazione in sé, se non per spiegare come cercare di togliere i difetti dovuti ad alterazioni.
In generale abbonda di consigli empirici, a volte sensati per noi (qualche volta no). Nelle fasi più difficili, come le alterazioni del vino, che sembrano andare oltre la possibile comprensione umana dell’epoca giungendo terribili come eventi fatali ineluttabili, risvegliano in lui echi che sconfinano più nell’aspetto magico e superstizioso. Queste parti ci serviranno come appiglio per affrontare il capitolo delle superstizioni legate alla vinificazione, che erano sicuramente già presenti nel mondo agrario romano e rimarranno per secoli fino quasi ai nostri giorni. Non è che il Medioevo sia stato un periodo più buio, per molti versi, di tanti altri!
Ma perché il vino si altera? Così l’autore lo spiega, in modo un po’ oscuro:” Avviene al vino per l’acquosità sua corruttibile nella vite e o nel vaso, che egli si corrompi e si guasti per varie cagioni adoperate in esso per lo strano caldo. Se si cavasse un poco di feccia o di vino che avesse la feccia, si metta nel vaso senza aprirlo, si convertirebbe in muffa. La quale infetta il vino. Oltre a ciò ogni altro vino che vi si ponga si guasta. E se di questo vino se ne mette in un doglio buono e si mischia con altro vino, lo infetta e lo converte nella sua corrotta natura.” Noi sappiamo che le alterazioni vengono dai microrganismi presenti nel vaso vinario, per ossidazioni o, sulle fecce, anche per fenomeni riduttivi. L’autore, ovviamente senza sapere perché , intuisce che è qualcosa che succede all’interno, non viene da fuori, e che la permanenza sulla fecce ha un suo ruolo. Sono importanti anche le sue considerazioni sul fatto di non infettare un buon vino con uno andato a male.
Ancora: “Inoltre, il vin saldo e potente e massimamente dolce e grosso, messo in tempo caldo in vaso non pieno e non chiuso di sopra, svapora il caldo e lo umido del vino, e resta il freddo e il secco che si converte in acetosità”. Lo spunto acetico, che sappiamo derivare soprattutto dall’azione dei batteri acetici, per l’autore è un fenomeno fisico (e vago). Tuttavia intuisce correttamente la pericolosità d’incorrere in tale inconveniente se si lascia un contenitore scolmo e aperto (causando il contatto con l’ossigeno, che sappiamo agevolare lo sviluppo dei batteri acetici), suggerendo le modalità di lavoro migliori.
“Il vino dà la volta (il girato? E’ un’alterazione batterica del vino molto frequente nel passato) e si corrompe più facilmente al tramontare delle Pleiadi, nel solstizio d’estate, nel caldo del Cane, quando c’è troppo caldo o troppo gelo, durante le grandi piogge, nei troppi venti, per i terremoti, per i tuoni, quando fioriscono le rose o le vigne”. Praticamente l’alterazione del vino può avvenire ad ogni evento particolare che “turbi” in qualche modo la vinificazione. Alcuni aspetti fra quelli elencati sono sicuramente veri: i cambiamenti repentini di temperatura possono influenzare quanto succede nelle botti. Un po’ meno altri eventi.
Questa credenza riguardo al fatto che certi eventi possano turbare la vinificazione si trovano in numerose culture contadine del passato, in diverse parti del mondo (sia per il vino che per la birra). La fantasia popolare ha contribuito alla nascita di una ricca ed ampia casistica, mescolando intuizioni di fatti reali (meglio evitare gli sbalzi di temperature) a fantasie più o meno colorite. Alla base c’è l’idea che sta avvenendo qualcosa (si vede, si sente!) ma è incomprensibile. L’istinto porta alla reverenza: forse, se non succede nulla di disturbante, tutto può andare bene… Cosa succede, chi agisce? Spiriti, demoni, entità magiche? Qualcosa sta lavorando, non bisogna far rumore, si deve camminare piano, si deve bisbigliare, non bisogna bussare sui tini o sulle botti, non devono esserci rumori forti, correnti d’aria per porte o finestre aperte, … Ogni territorio ha le sue storie a proposito. La superstizione genera anche avvertimenti terribili per evitare che qualcuno abbia comportamenti inappropriati: se si bussa su un tino o una botte, rendendo così il vino cattivo, il malcapitato rischia di perdere il dito o la mano. Si credeva anche che la cantina dovesse essere tenuta ben chiusa per evitare che spiriti malefici o streghe o gatti neri potessero influenzare negativamente il processo. Tante altre situazioni potevano portare male, come le donne con le mestruazioni, che non dovevano avvicinarsi ai tini. Secondo alcune culture contadine l’andamento della vinificazione diventava anche un segno premonitore dei destini della famiglia. Se andava poco bene erano in arrivo dispiaceri, se c’erano alterazioni gravi si potevano avere anche disgrazie.
Ritornando però a de Crescenzi, quali sono i rimedi per le alterazioni del vino? Qui c’è un elenco molto lungo. Alcune pratiche descritte per prevenire i problemi (o risolverli in fasi iniziali) sono adeguate, come le sfecciature o il tenere i vasi ben colmi e chiusi. Quando il danno è fatto (e anche oggi è pressoché impossibile rimediare) l’autore elenca invece interventi un po’ più fantasiosi, come intrugli di vario genere da aggiungere al vino, basati su erbe o altro. Di certo questi non cambiavano il destino del vino, come suggerisce l’autore ma, forse, erano più utili per coprire cattivi odori o sapori (nell’epoca medievale, come in quella antica, era d’uso comune la correzione dei vini con spezie, erbe o miele o altro). Si suggerisce anche l’uso di piante dalle virtù magiche, come la vitalba che, se messe alla base o sopra la botte, dovrebbero impedire al vino di alterarsi. Il più curioso è una sorta di rito propiziatorio legato alla sfera religiosa: si deve mettere nel vaso vinario una mela con all’interno un foglietto arrotolato con questa scritta: “GVSTATE ET VIDETE QVONIAM CHRISTVS SVAVIS EST DOMINVS”.
Delle credenze citate da De Crescenzo, la più diffusa, la più affascinante e fra le più dure a morire, è quella che lega il vino alle fasi lunari. Infatti, secondo l’autore, la vendemmia deve essere fatta in fase di luna calante, mentre i travasi con luna crescente, altrimenti il vino si fa aceto. Ad esempio, ben 500 anni dopo ritroviamo le stesse credenze, come denuncia nel suo “Trattato completo di agricoltura” (1855) Gaetano Cantoni : “Secondo alcuni la luna avrebbe pure influenza sulla fermentazione dei concimi, e per conseguenza i letamaj dovrebbero piuttosto essere voltati negli ultimi giorni della luna, perché in quest’epoca si disperderebbe minor quantità di principj utili, e resterebbe ordinati per la fermentazione, favorita dai primi quarti della luna successiva. La stessa cosa accadrebbe ella fermentazione vinosa, sul qual proposito corre il proverbio che il vino fatto in due lune a stento o mai si rischiara“. Questo pensiero è rimasto fino quasi ai nostri giorni nella cultura contadina (e non solo).
Queste credenze derivano dal pensiero magico che gli antropologi hanno chiamato “magia simpatica”. Uno dei suoi principi più importanti è quello della similitudine. Si basa su una banale associazione mentale per cui il simile chiama il simile oppure dove qualcosa che simboleggia una data azione ha influenza su di essa. In questa concezione la luna che cresce si lega a tutte quelle azioni o situazioni in cui c’è qualcosa che cresce o deve svilupparsi o muoversi. Invece la luna calante assume un legame con tutto quello che cala, che deve arrestarsi o morire. Quindi tutte le fasi di raccolta agricola che comportano il taglio, la morte della pianta o lo schiacciamento (come per l’uva), devono essere fatte in luna calante. Invece un’azione come il travaso, di movimento, va fatto in luna crescente.
Non c’è comunque necessità di andare troppo lontano nel tempo, queste credenze sono ancora vive oggi. Il pensiero magico è subdolo e potente. A volte non si riesce ad evitare neppure tramite la cultura o secoli di ricerche e scoperte scientifiche. La domanda che sorge spontanea è: come mai queste credenze sono sopravvissute così a lungo?
Dobbiamo pensare, come descritto nel testo medievale, che nella produzione di vino i rituali magici-scaramantici non vengono mai fatti da soli. Sono accompagnati sempre da buone pratiche empiriche che possono portare comunque ad esiti positivi. Qui però l’umanità si divide in due strade. Le persone più dotate di una mente razionale tendono a pensare che sia stato il buon lavoro a portare a buoni risultati e si concentrano su quello. Da questa impostazione mentale nei secoli è nata la scienza. Altre persone invece sono portate a focalizzare la loro attenzione più sul fatto che la magia abbia funzionato. Un altro pensiero ricorrente è quello che ci fa dire “Tanto male non fa”! E così queste credenze si perpetuano nei secoli.
E con le nostre conoscenze degli ultimi secoli? Sembra assurdo ma per alcuni può essere più facile comprendere e dare un senso alle semplici correlazioni mentali richieste della similitudine magica piuttosto che capire i concetti chimici o fisici alla base di certe buone pratiche di lavoro. E poi, la considerazione più importante di tutte: queste storie ci piacciono!
Sono belle, poetiche, usano immagini e parole evocative, sono favole affascinanti e seducenti. Anche per questo nei secoli hanno conquistato e continuano tutt’oggi, diventando anche potenti armi del marketing moderno.
Finita questa digressione nelle superstizioni che circondavano la vinificazione, arriviamo all’era degli alchimisti. Scopriamo così che qui iniziano a comparire le prime vere e proprie interpretazioni della fermentazione.