Se pensate di averne già abbastanza (qui, qui e qui), considerate che non siamo arrivati alla parte peggiore: quella delle malattie fungine.
I funghi sono la rogna peggiore per il vignaiolo: possono compromettere in modo molto serio la produzione dell’uva (anche se dipende molto dal proprio ambiente climatico e dall’andamento stagionale). Inoltre, se può essere (relativamente) semplice trovare sistemi alternativi per insetti ed acari, per i funghi il discorso si fa molto più complicato.
Per questo è necessario tornare un po’ indietro e fare un piccolo inciso storico. Ci vuole poi anche uno sforzo mentale in più, perchè i concetti su cui si basa la difesa sostenibile, nel caso di diversi funghi, sono un bel po’ più complessi ed articolati. Se invece credete che bastino pochi e semplici slogan per definire l’intricato e difficile mondo della difesa della vite, potete fermarvi già qui !
[info_box title=”La nascita di una nuova agricoltura” image=”” ] Le malattie delle piante d’interesse agricolo sono stato un problema da sempre per l’umanità. Nel passato erano vere e proprie calamità che potevano scatenare carestie o malnutrizione, soprattutto per alimenti basilari come i cereali (o altro). Erano considerate una maledizione degli Dei o una punizione dei peccati degli uomini. Contro di esse furono emesse bolle papali, intentanti processi, vennero condannate simbolicamente al rogo, si facevano benedizioni e riti religiosi diversi per tenerle lontane dai campi.
In parallelo alla superstizione l’uomo ha però da sempre cercato dei rimedi, cioè qualcosa capace di proteggere o curare le piante. Ad esempio Democrito, nel V sec. a.C., consigliava di immergere i semi, prima di seminarli, in succo di Sedum (una crassulacea), per proteggerli dalle malattie. Plinio il Vecchio riporta l’uso di un preparato di difesa a base di cenere, foglie di ligustro tritate ed urina diluita.
Già nel Sette-Ottocento gli agricoltori avevano messo insieme una vasta gamma di prodotti da utilizzare: rame, arsenico, cianuro, zolfo, soda caustica, nicotina, … senza considerare la loro pericolosità, a volte, per l’uomo e per le piante stesse. La difesa si basava essenzialmente sul cercare qualche prodotto da spruzzare sulla pianta per uccidere il responsabile dell’avversità. Si provavano diverse sostanze fra quelle conosciute, basandosi sull’intuizione di agronomi o agricoltori, e si vedeva cosa funzionava.
Nel Novecento continuò questa impostazione, supportata dai concomitanti sviluppi della chimica (soprattutto dagli anni ’30). I prodotti fitosanitari diventarono così sempre più potenti ed efficaci. Erano usati spesso in abbondanza, in modo preventivo, anche in maniera maldestra, senza considerare i risvolti ambientali e gli effetti collaterali. Il culmine si raggiunse negli anni ’50, con un sistema di difesa agricolo molto aggressivo e preventivo, ben descritto dagli americani con la frase “irrora e prega” (“spray and pray”).
Soprattutto dagli anni ’60 si iniziò però a capire che questo modello di sviluppo, pur avendo migliorato le rese agricole come non mai nella storia, comportava costi troppo elevati per l’ambiente e la salute. Già dal Sette-Ottocento alcuni filosofi mettevano in guardia dai problemi dell’impatto delle attività dell’uomo sulla Natura. Tuttavia fu con gli anni ’60 del Novecento che iniziò a nascere e a diffondersi una coscienza ambientalista a livello sociale. Fu il momento di svolta decisivo, che ha dato il via a tante ed importanti trasformazioni, anche se i primi veri risultati sono arrivati decenni dopo. Si è iniziato a capire che doveva nascere una nuova idea d’agricoltura, nel nostro caso di viticoltura, capace di rispondere ai bisogni umani ma anche di rispettare l’ambiente e la salute.
Non si è trattato però solo di passare ad usare prodotti diversi rispetto alla difesa tradizionale. La nascita dell’agricoltura (viticoltura nel nostro caso) integrata ha determinato un vero e proprio cambiamento d’impostazione mentale. Non c’è più il vecchio approccio di vedere la malattia solo come un rapporto di coppia pianta-patogeno e cercare qualcosa che uccida quest’ultimo. In diversi decenni di ricerca si è capito che lo sviluppo di una malattia dipende da un sistema ben più complesso di fattori che, se gestiti in modo integrato, possono portare a vie più sostenibili di difesa.
Questo percorso storico ci ha portati nel tempo all’abbandono dei peggiori prodotti fitosanitari del passato (a volte con lentezze criminali), alla nascita di prodotti di nuova generazione, più studiati e biodegradabili, il cui uso in generale è comunque molto più limitato e controllato. Si utilizzano comunque in modo sempre più ridotto, perché nella viticoltura integrata si devono privilegiare azioni preventive di tipo agronomico e di lotta biologica. L’obiettivo è l’abbandono totale. Per alcune avversità ci si è già riusciti, per altre siamo sulla buona strada e, in attesa di trovare sistemi migliori, il nostro lavoro è contenerne l’impatto ambientale. [/info_box]
La vite è comunque una pianta che storicamente non ha quasi mai destato grandi preoccupazioni, almeno fino all’Ottocento. Nei documenti storici delle epoche precedenti, le annate ricordate come pessime erano dovute ad altri problemi. Nel Medioevo l’agronomo Pietro De’ Crescenzi scriveva che la vigna teme soprattutto il gelo e la tempesta, che si possono scongiurare solo con le “pietose preghiere fatte da un puro e mondo cuore alla Maestà di Dio”. Gli unici parassiti dai quali invita a stare in guardia sono molto più grandi: gli stornelli e i ladri a due gambe! Nel 1709, ad esempio, una terribile gelata distrusse in una notte tutta la produzione europea.
Non è che la vite non abbia malattie e parassiti storici. Molti insetti ed acari, fra quelli dei post precedenti (qui e qui), o di cui parleremo in seguito, sono presenti da sempre. Studiosi moderni hanno riconosciuto in alcune descrizioni di autori greco-latini il “mal dell’esca” (un’altra malattia dovuta a dei funghi). Tuttavia queste avversità non intaccavano più di tanto la produzione o, meglio, lo facevano in modo sufficientemente tollerabile per la sensibilità (o le necessità) delle epoche antiche oppure si accettavano con più fatalismo. Le grandi catastrofi viticole sono più recenti e sono arrivate da lontano.
La musica per i vignaioli è infatti decisamente cambiata nell’Ottocento, quando dall’America arrivarono i tre grandi flagelli della vite, due malattie fungine (oidio e peronospora) e una data un insetto, la fillossera (un acaro, di cui ho già parlato). Queste malattie erano capaci non solo di far perdere buona parte dell’uva (se non tutta) ma, addirittura, di minacciare l’esistenza stessa della viticoltura. Il loro arrivo dall’America, nella seconda metà dell’Ottocento, ha completamente stravolto la viticoltura europea.
Arrivarono insieme a viti americane importate, come ospiti indesiderati. Per la loro capacità devastatrice, agirono da stimolo potente per lo sviluppo della difesa della vite.
[info_box title=”Oidio o mal bianco” image=”” ]
L’oidio viene chiamato anche “mal bianco” perché le parti colpite (germogli, tralci, grappoli) sono come ricoperti di una “farina” bianca, che è il micelio del fungo. [/info_box]
Il primo, in ordine cronologico, fra i grandi danni venuti dall’America nell’Ottocento è stato l’oidio. E’ anche quello che interessa di più il nostro ambiente climatico mediterraneo, tendenzialmente arido. La prima notizia di esso risale al 1845, osservato in serre vicino a Londra. Nel 1850 la malattia fu trovata in vigne francesi, poi in Belgio, nel 1851 in Italia e nel bacino del Mediterraneo in generale.
E’ causato da un fungo chiamato Erysiphe (o Uncinula) necator. Tutti gli organi verdi della pianta subiscono attacchi e forti alterazioni. L’oidio non porta in genere alla morte della vite ma ne compromette seriamente lo sviluppo e la produzione dell’uva, che può diminuire o essere compromessa del tutto. Inoltre causa delle spaccature sugli acini che permettono l’ingresso di altri funghi e batteri.
A differenza di tante muffe, non ha bisogno di umidità per iniziare i suoi processi. Anzi, sembra esserne inibito dalle piogge nelle fasi iniziali. Colpisce in quasi tutta l’Italia, soprattutto al centro e al sud, a nord nelle zone collinari più asciutte, in generale ovunque nei periodi poco piovosi. Ci sono comunque varietà più o meno sensibili.
[one_second][info_box title=”Come agisce lo zolfo” image=”” ]
Lo zolfo si usa in forma polverulenta o in preparati liquidi. E’ un prodotto detto “di copertura”, perché agisce stando sulla superficie della pianta. Penetra nella cellula del fungo perché è liposolubile, danneggiandone la parete e la membrana. In questo modo la cellula perde acqua e il fungo muore per disidratazione. Inoltre interferisce col metabolismo cellulare. Non agendo in modo specifico, non crea problemi di resistenza (con i prodotti fitosanitari si può creare lo stesso problema delle resistenze degli antibiotici in medicina).
Lo zolfo non ha finora evidenziato problemi rilevanti di tossicità ed è un sistema economico. Non dà problemi di accumulo nell’ambiente, soprattutto se dosato nel modo più opportuno. Se usato in modo inappropriato, può dare però alcuni problemi alla microfauna della vigna, a temperature molto elevate può essere anche fitotossico (cioè creare problemi alla vite stessa). Se viene usato troppo vicino alla vendemmia, può alterare i vini (i lieviti possono trasformalo in acido solfidrico che dà odori sgradevoli).[/info_box] [/one_second]
All’epoca della sua comparsa, la scoperta del rimedio fu abbastanza veloce. Nell’Ottocento lo zolfo era già usato per le malattie di altre piante. Fu tra i primi rimedi provati e dimostrò di funzionare anche per l’oidio. Nella sostanza la difesa non è cambiata molto da allora, perché lo zolfo ha dimostrato da sempre di essere un rimedio efficace, senza rilevanti problemi di impatto ambientale e di salute. Tuttavia presenta alcune criticità, per cui nella viticoltura integrata e sostenibile si lavora per cercare comunque di ridurre al minimo il suo utilizzo.
La prima fase nella viticoltura integrata è però sempre e comunque la prevenzione. Diversi lavori agronomici, se fatti con attenzione e cura, aiutano a sfavorire l’instaurarsi del fungo. Hanno un’azione preventiva tutti quei lavori che portano ad un’ottimale gestione della chioma (tralci e foglie), evitando troppi affastellamenti vegetativi. Anche la scelta della forma di allevamento della vite può contribuire a sfavorire l’attacco: ad esempio noi abbiamo il guyot e il cordone speronato che rendono le viti meno suscettibili. Anche la sfogliatura intorno al grappolo è utile. E’ fondamentale anche gestire in modo ottimale l’equilibrio della vigna: si è visto che la vite è più suscettibile al fungo in situazioni di eccessivo rigoglio, se si fanno concimazioni eccessive, se si usano portinnesti troppo vigorosi, ecc.
L’azione numero 2 è l’attenta sorveglianza della vigna, altro cardine della viticoltura integrata, per cogliere i primi segnali di pericolo ed intervenire in modo tempestivo ed appropriato, senza lasciare “esplodere” la malattia. Accorgersi di una malattia in fasi più avanzate richiede sempre un intervento più aggressivo, cosa che si vuole assolutamente evitare. Sembra banale, ma vi assicuro che non è così scontato.
[info_box title=”La viticoltura integrata, Cenerentola del settore” image=”” ]
La viticoltura integrata è la meno conosciuta in assoluto al pubblico, un po’ perché si è comunicata poco, un po’ perché è poco mediatica per definizione. Non è semplificabile in facili slogan (altrimenti non sarei qui a scrivere questi papiri!), non ha storie fantastiche ed avvincenti. E’ fatta di ricerca, lavoro, fatica e professionalità, come in realtà è l’essere vignaiolo (c’entra anche la passione 🙂 ).
Oggi alcuni principi basilari della viticoltura integrata sono diventati patrimonio generale del mondo viticolo, alcuni proprio imposti per legge (viticoltura integrata obbligatoria). Fra questi vi è il fatto di non fare più interventi a calendario, come una volta, ma con sistemi di sorveglianza, d’utilizzare sistemi che evitino le derive dei prodotti, il concetto di perdita tollerabile, di gestione olistica della vigna, ecc. Anche le aziende viticole meno sensibili ai temi ambientali si sono dovute più o meno adeguare all’evoluzione del settore ed allineare ad alcuni standard di base.
La scelta delle forme più innovative e sostenibili è però ancora su base volontaria, quella che è chiamata viticoltura integrata volontaria o solo viticoltura integrata (quella obbligatoria è ormai basilare). E’ quella che facciamo noi.
Oggi è molto più nota la viticoltura biologica, la cui nascita è intrecciata a quella della viticoltura integrata. Entrambe sono nate negli anni ’60, nella ricerca di un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente e della salute. Per molti versi si sovrappongono. La differenza principale sta nel fatto che nella viticoltura integrata il criterio di scelta è molto razionale e privo di preconcetti: si scelgono le migliori pratiche al momento disponibili, cioè quelle che che hanno dimostrato la migliore efficacia produttiva e il più basso impatto ambientale. Nel biologico il presupposto di scelta primario è che si usino prodotti che siano “naturali”. Sono criteri di scelta che a volte si sovrappongono, a volte però no.
In generale, dal mio punto di vista, queste classificazioni ormai sono passatiste. Si dovrebbe solo discutere sul fatto che la singola pratica sia sostenibile o meno e di come migliorarla ancora. Ci sono però risvolti non tecnici che pesano. Parlo dei sussidi pubblici concessi all’agricoltura biologica (ottenuti grazie al fatto di essere riusciti, meglio di altri, a fare lobby politica). Inoltre certe impostazioni (o slogan) si diffondono fra le aziende perché sono risultate vincenti nel marketing emozionale, al di là della loro reale efficacia in vigna e/o impatto ambientale. Non a caso la parola “naturale” ha preso sempre più piede nel sentire comune, anche se ormai è ampiamente abusata a fini commerciali.
Ovviamente sapete che esiste anche la viticoltura biodinamica, ma questa va decisamente su altri piani (astrali ed esoterici). Non si basa su criteri scientifici e razionali di cui si possa discutere. I suoi principi basilari sono spiegati qui. ).
Oggi c’è molta confusione in tutti questi concetti, che gioca molto sull’ignoranza in agricoltura della maggior parte della gente. Si mescolano concetti concreti di sostenibilità a slogan impattanti ma di fatto vuoti. [/info_box]
Se poi è necessario intervenire con lo zolfo, l’impostazione della difesa integrata non può essere standard, ma deve essere studiata “su misura” per ogni vigna, diversificata per la situazione ambientale particolare, l’entità del danno, la varietà dell’uva, la gravità delle infezioni degli anni precedenti, ecc. Il momento dell’intervento in genere va dal germogliamento all’invaiatura, anche se chi ha infezioni importanti può avere problemi anche dopo.
Se si vuole che abbia effetto positivo e nello stesso tempo per evitare inutili (e dannose dispersioni), la distribuzione dello zolfo (come ogni prodotto) deve essere fatto nel momento e nel modo più opportuno, in base alla temperatura, alla ventosità, ecc. Oggi ci sono obblighi per gli agricoltori in questo senso, fra cui quello di fare dei corsi e avere un patentino (salvo poi la mancanza di professionalità). Inoltre, decenni di ricerca ingegneristica, hanno anche portato all’evoluzione delle macchine irroratrici, con attrezzatture che evitano il più possibile le dispersioni. Purtroppo però ci sono in giro ancora tante attrezzature obsolete, soprattutto fra gli agricoltori non professionali.
Oltre ai prodotti a base di zolfo, esistono, per la cronaca, anche dei prodotti sistemici organici, utili nei casi più gravi, soprattutto con infezioni ripetute, da usare comunque con grandissima precauzione (che noi non usiamo). Alcuni di questi possono creare problemi di resistenze.
[one_second][info_box title=”il controllo è la base di tutto, fintanto che non troviamo soluzioni migliori” image=””]
Lo zolfo è classificato fra i prodotti “naturali”, ma è sufficiente per sentirsi al sicuro? Con lo zolfo non sembrano esserci molto problemi ma non è così scontato.
Il termine naturale è affascinante ed accattivante, rischia però di essere un segnale mentale di “stop” ad ogni ragionamento ulteriore. Non a caso oggi è ampiamente abusato nel marketing commerciale.
Identifica l’origine (vera o a volte anche presunta) di un prodotto, ma non ci dice nulla sulla sua azione o la sua pericolosità per l’ambiente e la salute. Oggi, inoltre, c’è particolare confusione intorno a tutto questo, con il prevalere di un linguaggio impreciso ma che ormai domina ovunque.
Di per sé, la chimica è semplicemente la scienza che studia la composizione della materia. Dire che un prodotto “non è chimico” è un nonsense. Se con questo si vuole dire che non è un prodotto di sintesi, non è proprio certo. Molti dei prodotti “naturali” venduti oggi sono di sintesi, cioè sono prodotti comunque con processi industriali chimici. Non sono ricavati direttamente “dalla natura” come si potrebbe credere. Questo assottiglia molto il confine.
Fino al XIX secolo in agricoltura si usavano solo prodotti naturali nel vero senso del termine, visto che non esisteva ancora l’industria chimica. Molti di essi sono stati ormai abbandonati proprio perché si è riconosciuta la loro indiscussa pericolosità: arsenico, cianuro, nicotina… Oggi altri sono in discussione, come il rame. Quindi “naturale” non è assolutamente garanzia di qualcosa di innocuo per la nostra salute o per l’ambiente.
Queste classificazioni sono semplicemente poco utili. Non ci dicono veramente come agisce quella sostanza, se è utile o no per quello che deve fare, se è pericolosa o no per la nostra salute e per l’ambiente, ecc. Sono solo dei luoghi comuni, cioè dei dogmi che accettiamo passivamente senza riflettere sulla loro reale validità.
Cosa è utile allora?
Per conoscere e scegliere i prodotti fitosanitari migliori è molto più informativo (e sicuro) classificarli attraverso parametri che ci facciano capire come lavorano e che effetti hanno.
Nulla è perfetto ma per arrivare alla vendita in Europa, un prodotto fitosanitario deve passare attraverso un lungo protocollo di studio che è oggi principalmente orientato a dimostrarne la sostenibilità, indipendentemente dalla sua origine vera o presunta.
Sono molto simili ai protocolli imposti per i farmaci umani. L’aspetto fondamentale è capirne l’efficacia (cioè quanto è bravo a fare il suo dovere), se è tossico o meno, qual è l’eventuale livello di tossicità (per l’uomo) e se questa è acuta o cronica, la fitotossicità (tossicità sulla pianta che deve difendere), l’ecotossicità (il suo eventuale accumulo nell’ambiente ed azione su animali e altre piante), l’eventuale traslocazione nelle acque, l’eventuale accumulo nel prodotto agricolo che beviamo (o mangiamo), studiare le dosi di rischio, la possibilità di sviluppare resistenze nel patogeno, …
L’eventuale dannosità è studiata non solo per il principio attivo (cioè la sostanza principale che agisce contro la malattia) ma anche per i diversi ingredienti e coadiuvanti che compongono il prodotto commerciale. Questi servono a facilitare l’azione del prodotto o altro. Possono servire a veicolarlo, aiutarlo ad aderire meglio alla pianta, renderlo meno volatile (meno dispersibile nell’ambiente), deodorarlo, colorarlo, ecc. Ci possono però essere anche sostanze indesiderate, a seconda della qualità di chi produce (impurità, contaminazioni, prodotti intermedi di produzione). Ad esempio, alcuni prodotti commerciali a base di zolfo sono stati vietati perché hanno dimostrato livelli alti di tossicità per l’alta presenza di selenio. Alcuni formulati di rame sono stati eliminati in passato perché presentavano impurità pericolose di cadmio, piombo e arsenico. [/info_box] [/one_second]
Noi usiamo zolfo polverulento. Con un attento lavoro di prevenzione e di controllo della vigna, è possibile gestire la difesa dall’oidio senza particolari problemi, con pochi e controllati interventi. Lavorando bene non andiamo mai oltre l’invaiatura dell’uva, evitando il rischio di portarci residui nel mosto.
La ricerca sta lavorando all’individuazione di sistemi alternativi allo zolfo. Al momento esiste una forma di lotta biologica basata su un iper-parassita (un fungo che è un parassita del parassita), l’Ampelomyces quisqualis (immagine a lato). Vive a spese di numerosi oidi, ne invade le cellule e le porta a degenerazione. Al momento, però, non è una pratica in grado di sostituire lo zolfo, se non in caso di attacco molto limitato. Se usato nelle fasi finali della stagione, sembra che possa aiutare a limitare lo sviluppo dell’oidio per quella successiva. Il suo più grosso limite è che questo fungo si sviluppa bene in determinate condizioni climatiche (alta umidità e temperature non troppo elevate), che non sono le stesse ottimali dell’oidio. Si dovrebbe riuscire a trovare un iper-parassita che lavori al meglio nelle stesse condizioni di rischio della malattia per avere risultati migliori.
Si stanno studiando altri agenti di lotta biologica, come i batteri Pseudomonas fluorescens e Bacillus subtilis, ma per ora in campo non danno risultati sufficienti.
La lotta biologica ha dato buoni risultati con gli insetti. Invece i microrganismi (batteri e funghi) funzionano magari benissimo in laboratorio o in serra ma è molto difficile controllarne lo sviluppo e la diffusione in campo. Hanno spesso bisogno di ben determinate condizioni ambientali ottimali (temperatura, umidità, ecc.) per sopravvivere e svilupparsi. In campo bastano anche piccole variazioni ambientali locali per rendere loro la vita difficile e rischiare di rimanere senza protezione. Possono essere utili nell’ottica di integrare dei prodotti fitosanitari, ma non di sostituirli del tutto. Non secondario, anche se sembra un po’ trascurato, è anche capire l’impatto ecologico di questi microrganismi (come gli insetti alloctoni di cui abbiamo già parlato).
Sono in corso linee di ricerca che lavorano su prodotti fitosanitati alternativi allo zolfo, come il bicarbonato di sodio, di potassio e i silicati. Non è però ancora chiara del tutto la loro funzionalità e neppure se hanno reali vantaggi rispetto allo zolfo. Ad esempio, possono dare problemi di fitotossicità. Il bicarbonato di sodio viene facilmente dilavato anche solo da abbondante rugiada. Inoltre, altera il pH del suolo e potrebbe creare problemi alla crescita delle piante. Ci sono anche studi in corso sul polisolfuro di calcio, su oli vegetali, oli minerali, oli essenziali (ma sono troppo costosi) e la latto-perossidasi (enzimi del latte). Al momento sono linee di ricerca con diversi livelli di sviluppo, si vedrà cosa ne uscirà.
Un estratto della pianta esotica Reynoutria sachalinensis sembra avere capacità anti-fungine su alcune piante ornamentali, perché in grado di stimolare la produzione di fenoli. Al momento è stata però “bocciata” dell’Europa perché la documentazione presentata non è stata in grado di escludere la presenza, nell’estratto, di sostanze mutagene, cancerogene, tossiche per la riproduzione e tantomeno di scongiurarne l’attività di perturbatore endocrino (naturale non significa sempre non pericoloso).