L’Italia, l’Enotria degli antichi greci (= “terra del vino”), continuò ad esserne la patria anche nel Medioevo, ma la transizione dall’epoca romana non fu certo facile (come ho già raccontato qui). Già dalla fine dell’Impero Romano e nell’Alto Medioevo si ebbe una crisi politica generalizzata, con guerre ed invasioni, che si rifletté anche nella crisi della viticoltura. La coltivazione della vite richiede alta specializzazione, oltre che cure costanti e costose per quasi tutto l’anno, per cui patisce più di tante altre coltivazioni nei momenti d’instabilità.

Gregorio Magno scriveva nel VI secolo che in Italia “eversae urbes, castra eruta … nullus terram nostram cultor inhabitat”: “sono distrutte le città, diroccati i castelli, … deserte di coltivatori le terre”. La produzione di vino quindi calò in modo importante, anche se in modo diverso nelle diverse aree europee.

I secoli bui videro la disgregazione del paesaggio agricolo organizzato dell’epoca Romana. Prevalsero sempre più le attività di allevamento su quelle agricole, come già dal tardo Impero Romano. Di riflesso si vede l’importanza della rappresentazione del paesaggio pastorale nell’arte bizantina italiana (mosaico di Santa Placidia, Ravenna).
In questi secoli difficili, le popolazioni tornarono a cercare rifugio nelle zone di abitazione pre-romana, in luoghi impervi posti sulle cime delle colline o sui fianchi delle montagne, per nascondersi e meglio difendersi da scorrerie e predoni. Nacquero così i primi villaggi, che poi divennero castelli fortificati. Ancora oggi buona parte del paesaggio italiano è caratterizzato da borghi che dominano il territorio dall’alto dei colli. Nell’immagine: borghi su irti colli nell’opera di Giotto “San Francesco dona il mantello” (1296-1299).

In generale, la riduzione della produzione fece tornare il vino ad essere un prodotto quasi solo da ricchi e potenti, come in epoca antichissima. La massa del popolo ripiegò in parte su prodotti alcolici più poveri, ottenuti con la fermentazione dei frutti disponibili, come i vini di mele, di fichi, di corniole, di sorbi, di more, di nespole, ecc. Come accennato nel post precedente, si persero le raffinate tecniche produttive romane, sia viticole che enologiche, come il sapere in tanti altri campi. Nel Medioevo qualcosa poi riemerse, come testimoniato dal trattato agrario del bolognese Pietro de’ Crescenzo (1304). La maggior parte di queste conoscenze saranno recuperate o riconquistate ancora più tardi.

Il paesaggio italiano del primo Medioevo fu dominato dai boschi, che si erano riappropriati delle tante aree agricole abbandonate. I boschi più vicini al villaggio erano abbastanza “addomesticati”, pieni di attività indispensabili alla sopravvivenza, vista la scarsità dell’agricoltura. Vi si raccoglievano i frutti spontanei, la legna, si cacciava e si pascolavano gli animali (in genere suini allo stato brado). La grande massa dei boschi e delle foreste era invece impenetrabile e minacciosa, piena di bestie selvatiche pericolose (l’orso, il lupo, il cinghiale, …), covo di briganti e malfattori.

In questa transizione complicata, ebbe un grande ruolo la religione cristiana. Il vino era usato nei riti religiosi fin dall’antichità ma nel Cristianesimo assunse un’importanza come forse mai prima. La Messa prese forma proprio in questo periodo e nel rito eucaristico veniva ripetuto l’atto di Gesù Cristo dell’Ultima Cena (“Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”). Il Medioevo fu un periodo molto ricco di simbolismi: il pane era anche simbolo della vita attiva, il vino simboleggiava quella contemplativa, cioè la capacità di conoscere l’essenza delle cose, virtù che Dio ha concesso solo agli esseri umani fra tutte le sue creature.  Ad ogni modo, il vino divenne una materia prima fondamentale per la messa e la sua produzione si rese quindi indispensabile per ogni chiesa e per ogni convento. La produzione del vino da messa venne tentata ovunque, anche dove le condizioni climatiche erano proibitive o comunque difficili.

Il vino miracoloso. Il vino ebbe anche un ruolo molto rilevante nei tanti miracoli attribuiti ai santi medievali. Dal libro “Tractatus de miraculis S. Francisci” (Trattato dei miracoli di San Francesco)” di Tommaso da Celano, 1247-1257, si racconta: “Nel periodo in cui era presso l’eremo di Sant’Urbano, il beato Francesco gravemente ammalato, con labbra aride, domandò un po’ di vino, gli risposero che non ce n’era. Chiese allora che gli portassero dell’acqua e quando gliela ebbero portata la benedisse con un segno di croce. Subito l’acqua perse il proprio sapore, e ne acquistò un altro. Diventò ottimo vino quella che prima era acqua pura, e ciò che non poté la povertà, lo provvide la santità. Dopo averlo bevuto, quell’uomo di Dio si ristabilì molto in fretta e come la miracolosa conversione dell’acqua in vino fu la causa della guarigione, così la miracolosa guarigione testimoniava quella conversione.

Nella lapide funebre di un abate milanese del IX secolo c’è scritto: “Templa, domos, vites, oleas, pomeria struxit”, cioè “costruì palazzi e case, piantò viti, olivi ed alberi da frutto”. Gli ordini monastici ed i vescovi si occuparono abbondantemente di viticoltura non solo per scopi liturgici, ma anche per avere tale bevanda come segno di ospitalità verso gli ospiti illustri (o meno). Intorno all’anno mille, le invasioni e le guerre si allentarono ed iniziò a ricomporsi il vivere civile. Le vigne si estesero anche al nascente nuovo ordine politico, fatto da principi e signori, per imitazione, per prestigio e per onorare gli ospiti.

(Ricostruzione del Castrum altomedievale di Capiate, Disegno di Mauro Cigognini)
La riorganizzazione delle campagne ripartì spesso dalle antiche villae romane, nelle quali si insediava l’invasore, il nuovo signore. In epoca longobarda e bizantina la vecchia villa, diventata ormai un casale fortificato (castrum), era il centro della nuova signoria territoriale, chiamata curtes o domuscultae o massae, …a seconda delle diverse zone d’Italia. Era il luogo di residenza del signore o del suo amministratore locale o del potere ecclesiastico. Il castrum formava la pars dominica (parte del signore), insieme con una chiesa e le aree agricole a conduzione diretta, lavorate per mezzo di servi non liberi. Comprendevano campi coltivati, pascoli, colture specializzate come vigne o frutteti, oltre che risorse particolari come mulini, stagni, ecc. Il secondo elemento della curtis era costituito dalla pars massaricia, cioè i mansi (poderi) coltivati dai contadini dipendenti, tenuti al versamento di tributi e a prestazioni di lavoro nella pars dominica. Si parla di sistema feudale, molto simile al colonato del Tardo Impero Romano (vedi qui)

Un’altra religione, l’Islam, che nacque in questo periodo (VII sec. d.C.), portò invece alla sparizione della produzione del vino in tutti quei paesi mediterranei che finirono sotto la sua influenza. Sembra che sopravvisse solo una piccola produzione fatta per scopi farmaceutici ma anche per un consumo clandestino, più o meno tollerato dalle autorità, oppure legata alle comunità cristiane ed ebraiche, che mantennero spesso la possibilità di produrre vino in deroga, dietro il pagamento di una tassa. Un caso particolare sembra invece essere rappresentato dalla Sicilia, la cui invasione araba iniziò nel 827 e durò fino all’inizio della conquista normanna, nel 1061. Una ricerca recentissima ha rivelato che nella Sicilia occupata dagli arabi la produzione del vino non solo continuò ma che addirittura aumentò rispetto al periodo precedente. Non si sa se gli arabi siciliani producessero o bevessero vino, quasi sicuramente lo facevano le numerose comunità cristiane che si opposero tenacemente all’islamizzazione. Ad ogni modo si è accertato che ci fu un rilevante commercio di vino siciliano nel Mediterraneo durante il periodo della dominazione araba.

Comunque, in generale, nell’Alto Medioevo nacque una nuova geografia del vino, definita più o meno dai confini della Cristianità, con un baricentro un po’ più spostato dal Mediterraneo verso il cuore dell’Europa.

Farmacista arabo

La culla del sapere agrario allora era il mondo arabo, come per tanti altri campi. Fra i moltissimi trattati sull’agricoltura, quello considerato più importante fu scritto da Ibn al-Awwam nel XII secolo. Nel suo Libro di Agricoltura fu capace di fondere l’eredità delle conoscenze dei Romani, soprattutto di Columella, con quelle della sua epoca. Non parla però di vino, data la proibizione coranica delle bevande alcoliche. Cita solo la coltivazione dell’uva, per il consumo fresco ed essiccata. La coltivazione è descritta nelle due solite forme che abbiamo già imparato a conoscere, diffuse in tutto il Mediterraneo dai Romani: la vite bassa, coltivata ad alberello senza sostegno, a volte in buche, o con pali, e quella alta, spesso “maritata” ad altri alberi da frutto o a pergolati.

Se queste indicazioni valgono in generale, ci sono però anche delle differenze importanti fra il mondo italiano del vino e quello dell’Europa più centrale e nordica. Dove le condizioni climatiche erano più difficili, la produzione di vino era più onerosa e complicata, per cui per secoli la viticoltura rimase appannaggio quasi esclusivo di ecclesiasti o signori. Invece nel nostro clima mediterraneo rimase notevolmente diffusa anche nell’ambito contadino, perché molto più spontanea e semplice da gestire. Ad esempio, Grasso e Fiorentino (2012) hanno esaminato i resti archeo-botanici di semi di vite in 39 siti archeologici medievali di tutta Italia, dal VI al XV sec. d.C., e hanno trovato riscontri in quasi tutti, non solo nei monasteri ma anche nei villaggi, anche nei secoli più antichi.

(Maestro Venceslao, Ciclo dei Mesi – Ottobre, 1390-1400, Torre dell’Aquila, Trento). Per tutto l’Alto Medioevo le vigne non scomparvero mai del tutto in Italia ma si ridussero notevolmente in estensione. La necessità di protezione dagli uomini e dalle bestie, sia selvatiche che da allevamento, fece sì che i piccoli appezzamenti di vigna dovevano restare al sicuro dentro ai recinti, a ridosso del villaggio o della curtes o del monastero, o dentro le mura cittadine. Questo spazio ristretto, detto “Hortus conclusus” (orto recintato), doveva essere sfruttato al massimo. Nell’Alto Medioevo prevalsero quindi nelle raffigurazioni delle vigne, spesso riprodotte nelle allegorie dei mesi, quelle forme di allevamento che permettono impianti stretti: la vite allevata bassa (ad alberello) o a filari ravvicinati. Rimasero comunque diffusi anche i pergolati nei giardini. La vite alberata (o maritata) tuttavia non sparì del tutto. Infatti poi riemergerà in modo importante nei secoli successivi.

La viticoltura in Italia fu sicuramente ridotta ma non in modo così drammatico come altrove. Possiamo anche pensare ad una situazione a macchia di leopardo, dove alcune zone patirono di più ed altre invece ebbero più continuità col passato. Ad esempio, nel VI sec. d.C., Cassiodoro, ministro del re goto Teodorico, testimonia in una lettera della qualità dei vini prodotti dai contadini dei colli veronesi, in particolare del vino Acinaticum, un vino passito che così descrive: “Una ricchissima imbandigione della mensa regale viene lodata quale ornamento dello Stato […] e perciò devono essere procurati i vini che l’Italia feconda produce in modo singolare. … Questo è vino pretto, regale nel colore, singolare nel sapore. […] La sua dolcezza si avverte con ineffabile soavità; la sua concentrazione riceve vigore da non so quale forza; al tatto inspessisce la sua densità, così che diresti che è un liquido carnoso o una bevanda da mangiare.”

La “sete del morto”. Per l’uomo del Medioevo il vino stava fra piacere e religione, fra vita terrena e ultraterrena. Questa concezione è esemplificata magnificamente nella Facezia XXX dei Motti e facezie del Pievano Arlotto (1484). Un giorno, all’alba, il Pievano sta parlando con un oste al colle dell’Uccellatoio quando si avvicina a lui un uomo ansante che gli chiede di offrirgli del vino: “Per l’amor di Dio, pagatemi una mezzetta ché io ispasmo dalla sete“. Con sorpresa, il Pievano riconosce nell’uomo il celebre umanista Leonardo Bruni di Arezzo e rimane stupito di tanto affanno e dell’ora così mattiniera. Il Bruni risponde: “Nun vedi tu ch’i’ sono morto, cammino via e non posso stare con voi; e sono in tanta calamità che io ispasimo di sete e non ho di che pagare un poco di vino?“. Il Pievano gli chiede allora stupito che fine hanno fatto tutte le sue ricchezze, la sua scienza, la sua illustre fama … Gli fa insomma la morale sul tema della caducità dei beni terreni. La risposta del Bruni è ovviamente che nulla resta dopo la morte, che è saggio godersi la vita con moderazione e fare anche del bene. Il defunto viene mostrato come un uomo pieno di angoscia, disorientato di fronte ad un cammino sconosciuto. Rimugina sulla sua vita, è colmo di paura e di dubbi per il giudizio divino che verrà. Ha fretta, ha freddo ma nello stesso tempo arde dalla sete. L’incontro fra il vivo ed il morto avviene all’alba, su una strada sulla sommità di un colle, in una situazione ordinaria ma nello stesso tempo soprannaturale, ricca dei simbolismi sul tema del transito. Come racconta lo storico Franco Cardini, la “sete del morto” è un tema che ha radici antiche nel Mediterraneo. In diverse civiltà, in particolare quelle delle aree aride, in cui ben si conosce la sofferenza della sete, si credeva che i morti avessero difficoltà a lasciare la vita e soffrissero di questa sorta di sete, cioè l’urgenza di passare oltre, di morire definitivamente e tornare alla terra. Hanno come bisogno che i vivi, dissetandoli, li aiutino a morire. Gli antichi greci versavano acqua nei crepacci delle tombe nelle feste delle Hydrophoria. Nelle celebrazioni dette Antesterie, si credeva che le prime piogge di primavera dissetassero la sete dei morti. Ricordo anche la parabola evangelica del povero Lazzaro e del ricco epulone (dal latino= “banchettatore”) che non dà nulla al mendicante degli avanzi della sua ricca tavola. Dopo la morte, Lazzaro va in paradiso ed il ricco brucia nelle fiamme dell’inferno. Il dannato invoca Abramo che mandi Lazzaro ad intingere almeno il dito nell’acqua per dare sollievo alla sua tremenda sete. Nel Cristianesimo l’acqua è però più legata al battesimo. L’ultima bevuta, in continuità col mondo classico greco-romano, è invece il bicchiere del commiato dagli amici, quindi anche l’ultima bevuta della veglia (o del banchetto) funebre, oltre che il conforto dell’Eucarestia. Il Pievano Arlotto offre al morto, stanco e spaventato, il calore della carità e dell’ultimo bicchiere di vino, che gli infonde la forza ed il coraggio per il suo difficile viaggio.

La parabola di Lazzaro e del ricco epulone

Continua …

Bibliografia:

 Prof. Alfonso Marini (AA 2020-2021) Dispense del corso di storia medievale.

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Anna Maria Grasso, Girolamo Fiorentino (2012) Archeologia e storia della vite e del vino nel medioevo italiano. Il contributo dell’archeobotanica e di nuove metodologie di analisi integrate per la caratterizzazione varietale applicate ai contesti archeologici della Puglia meridionale. 2012, VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale

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https://www.agi.it/cultura/news/2021-02-24/islam-sicilia-vino-archeologia-11540051/