Il periodo storico del Sette-Ottocento ha segnato l’alba della nascita del vino moderno. Siamo all’inizio di importantissime trasformazioni nel mondo agricolo, viti-vinicolo in particolare, oltre che del paesaggio italiano.

In questi secoli le storie del vino diventano tante, complesse ed intricatissime per ogni singolo territorio. Cerchiamo ora di tracciare le trasformazioni più importanti. Il dettaglio sul nostro territorio, quello della Bolgheri DOC, è stato già descritto in questo post e questo. Qui vediamo in generale come è cambiata l’agricoltura del tempo.

Il Settecento agricolo, inizia il boom agricolo

Dopo l’inizio agricolo del Medioevo e del Rinascimento, seguito dal parziale blocco del Seicento, il Settecento segnò la ripartenza di una grande espansione agricola. In particolare, la viticoltura iniziò in questo secolo ad allargarsi in modo veramente importante, con una grandissima espansione soprattutto nell’Ottocento.

Da un punto di vista climatico si era ancora nella Piccola Era Glaciale, anche se era iniziava la fase di risalita dopo i picchi gelidi del Cinque-Seicento. L’inizio del secolo fu comunque ancora pessimo. L’inverno del 1709 è passato alla storia come il più freddo degli ultimi 500 anni. Ci fu un’ondata di gelo da gennaio ad aprile che causò la morte per uomini ed animali, oltre che la devastazione dell’agricoltura. Fiumi e laghi ghiacciarono, come ad esempio l’intero lago di Garda e la laguna veneta. Quello fu un anno senza vino: non si raccolse un grappolo di uva in tutta Europa. Un piccolo ritorno di freddo intenso ci fu ad inizio Ottocento. Il 1816 venne ricordato come l’anno “senza estate”. Finalmente fu raggiunto un periodo più stabile delle temperature dal 1850.

La laguna di Venezia ghiacciata, particolare di un dipinto dell’epoca

Nonostante queste problematiche climatiche, nel corso del Settecento l’agricoltura ebbe una crescita importante, soprattutto nella seconda metà del secolo, grazie ai numerosi miglioramenti tecnici e ai cambiamenti sociali.

Questo periodo vide una crescita progressiva della popolazione. Quella italiana passò dagli 11 milioni dell’inizio secolo ai 20 milioni della fine. A fine Ottocento eravamo arrivati a 34 milioni. Aumentò in parte l’urbanizzazione ma la stragrande maggioranza degli italiani di allora rimaneva contadina. L’incremento della popolazione spinse alla crescita delle piccole proprietà contadine ma, soprattutto, aumentò la manodopera a basso costo. Questa si riversò essenzialmente nel settore agricolo. L’Italia non offriva molti altri sbocchi lavorativi, visto che era rimasta indietro rispetto allo sviluppo manifatturiero e (poi) industriale di altri paesi europei.

In concomitanza, crebbe la richiesta dei prodotti agricoli. Divenne quindi sempre più d’interesse per i grandi proprietari terrieri non lasciare le terre abbandonate alla transumanza, come era successo spesso nel Seicento. Molti di essi iniziarono ad investire in agricoltura, in cereali e colture specializzate. Gli storici parlano di una trasformazione capitalistica delle proprietà agricole in Europa. In Italia interessò solo alcuni territori e non ebbe uno sviluppo completo. In Toscana, il modello della “villa” agricola era nato molto presto, dalla fine del Medioevo. Nel corso del Settecento prese sempre più la struttura della fattoria perfettamente organizzata, suddivisa in poderi e basata sulla mezzadria. Nell’area veneta, dove i commerci erano declinati più tardi che nel resto d’Italia, la villa era iniziata a fiorire nel Seicento. Proprio nel Settecento entrò nel pieno del suo splendore. Queste trasformazioni avvennero anche in diverse altre zone, come in Piemonte, Lombardia, Liguria, Puglia, Campania e Sicilia, con modalità diverse. Nella pianura Padana non mancavano grandi aziende ancora più avanzate, strutturate nel modello della “cascina” e con anche dipendenti salariati. Tuttavia non era una situazione omogenea. Nel Meridione dominava ancora per larga parte il latifondo semi-abbandonato.

Ad ogni modo, ci fu un grande risveglio dell’agricoltura che portò sia al recupero dei terreni abbandonati al pascolo che alla trasformazione del territorio ancora selvatico, con enormi opere di disboscamenti, dissodamenti e bonifiche. È in questo periodo che si è avviata la trasformazione definitiva del paesaggio italiano, dopo i primi lavori di sistemazioni che c’erano stati nel Medioevo e Rinascimento, che avevano però interessato solo alcune zone. Fra l’altro, alcune di esse si erano di nuovo degradate nel corso del Seicento. Non furono solo i grandi proprietari ma anche i piccoli a contribuire a tale espansione. In un paese dominato dai latifondi nobiliari e ecclesiastici, c’era fame di terra e spesso ai piccoli proprietari contadini, una classe in crescita in questo periodo, rimanevano proprio i terreni peggiori e i più difficili, coperti di boschi e di rovi, posti sui fianchi irti di colline e montagne.

Il disboscamento si fece sempre più feroce dalla seconda metà del Settecento. Colline e montagne vennero lavorate come non mai, anche le rive più ripide, con la creazione di tutte quelle sistemazioni che caratterizzano ancora oggi tante parti d’Italia. Il poeta veneto Ippolito Pindemonte racconta in un poemetto (da Poesie Campestri, 1788) di un contadino a cui sono restati in eredità solo fianchi scoscesi e mal messi. Tuttavia, grazie al suo lavoro, questi sono presto trasformati in “delicati declivi” ricoperti di campi di grano (“campi dorati”). Qui non regna più il rovo spinoso ma gelsi, ulivi e viti. Questo è uno dei numerosi esempi dei poemetti che fiorirono all’epoca, ispirati a Virgilio, che esprimevano in versi argomenti di agricoltura.

“… Gli lasciar su la morte i padri suoi

balze dirotte, diroccate piagge

Ma poco andò, che mobili ondeggiaro

Campi dorati, in delicati declivi

S’addolcir le più aspre erte, e impararo

A per novelle vie correre i rivi:

del rovo invece e dello spin, regnaro

gelsi babilonesi e greci ulivi,

s’apriro i lochi più riposti e cupi

e l’uva s’innostrò sovra le rupi”.

 

Così agronomi e contadini italiani diventarono maestri nelle sistemazioni collinari e montane, con interventi sicuri e duraturi. Venne sempre più sconsigliato il ritocchino, fino ad allora prevalente. Questa modalità di lavorazione è la più rapida da applicare e comoda perché segue la pendenza, ma è soggetta ad una fortissima erosione. Si spingeva invece per le lavorazioni a traverso, come il cavalca-poggio o il taglia-poggio. Dove era possibile e c’erano più capitali a disposizione, si sceglievano sistemazioni ancora più sicure e durature, cioè le realizzazioni di terrazze o di ciglioni, per i quali vi era lo studio dello scolo delle acque di superficie e anche più profonde. Questi lavori erano resi possibili dalla disponibilità di tanta manodopera a buon mercato e con ampio uso degli esplosivi (la polvere pirica) per frantumare le rocce.

La Toscana fu la regione più interessata dalle trasformazioni del Settecento. I sistemi a terrazze diventarono in questo periodo la caratteristica delle colline fiorentine e del Chianti. I ciglioni invece prevalsero nella Lucchesia, Val d’Elsa e altre parti. Anche la Liguria aumentò sempre più i terrazzamenti sul mare e nelle valli interne. In Lombardia i terrazzamenti si ampliarono sui fianchi dei laghi. Nel Sud e nelle isole invece questi lavori saranno più intensi nel secolo successivo.

Diverse sistemazioni collinari da tavole di Cosimo Ridolfi: il ritocchino, il cavalcapoggio, i ciglioni e le terrazze.

All’epoca qualcuno si preoccupò degli effetti negativi che questi interventi potevano avere sull’ambiente e sulla stabilità del territorio. Alcuni Stati promulgarono leggi per proteggere il patrimonio boschivo, come a Napoli ad esempio, ma spesso rimasero solo sulla carta. In altri invece era proprio il potere centrale a spingere con decisione al disboscamento e alle lavorazioni, come il granduca Pietro Leopoldo in Toscana.

Non mancano però le voci critiche, come nel poemetto “Della coltivazione de’ monti” dell’abate e poeta veronese Bartolomeo Lorenzi (1778). Qui il contadino (villano) è definito “avaro” in quanto, pur di ingrandire la proprietà, abbatte gli alberi sotto la cui ombra prima i pastori portavano al pascolo le greggi:

“Ma l’avaro villano e a farsi grande

per nuovi spazi di campagna intento

sempre più desiose l’ali spande

sì come vela che si spieghi al vento.

Gl’intatti boschi assale e da le ghiande

scuote la quercia un dì cara a l’armento,

cara al pastor che, su la terra ingombra

mentre ‘l gregge pascea sedeva a l’ombra. …”

Il veronese Gian Battista Spolverini ne “La coltivazione del riso” (1758) descrive come la degradazione del paesaggio causata dai disboscamenti e dissodamenti stia causando alluvioni che distruggono i campi coltivati e letteralmente portano i “poderi al mare”:

“… con mirabil lavor natura cinse

d’altissime foreste e boschi annosi

(insuperabil siepe) i monti e l’alpi

Per difender i colti aperti piani.

… diluvii d’acque

A inondar le campagne, a render vane

De’ pii cultori e le speranze e l’opre …”

“… pensa, che in preda a lor (le acque del fiume), benché non pare

Vanno a seconda i tuoi poderi al mare”.

 

Il paesaggio venne trasformato anche dalle bonifiche che avvennero nelle aree paludose che ancora abbondavano in Italia, soprattutto in Toscana e altre zone del centro. Le prime bonifiche erano state fatte nel Medioevo e nel Rinascimento, nelle valli vicine a Firenze e in pianura Padana. In Italia c’era già quindi una grande tradizione d’ingegneria idraulica. Il sistema più classico comportava la realizzazione di canali di scolo per far defluire le acquee in eccesso. Dove non era applicabile, era usato il metodo detto delle “colmate di piano”, nato secoli prima dall’ingegno di Leonardo da Vinci. Si attuava indirizzando a più riprese le acquee fangose di fiumi o torrenti verso le zone da bonificare. L’accumulo dei detriti fluviali portava all’elevazione del suolo, così che queste aree non erano più soggette ad inondazioni. Inoltre, lo strato di suolo alluvionale le rendeva particolarmente adatte all’agricoltura.

Colmata di piano da una tavola di Cosimo Ridolfi

Grandi lavori di bonifica si avviarono nella Maremma toscana, iniziando da quella più a nord (di cui fa parte anche il nostro comune di Castagneto Carducci). Nel resto della Maremma i lavori saranno completati fra l’Ottocento e il Novecento. In Toscana furono bonificati anche altri territori, alcuni che si erano degradati nel Seicento, come la Valdinievole, la Val di Chiana, le paludi del pisano e l’area sotto Volterra. Le terre bonificate erano poi velocemente rese agricole, passando in progressione dal prato alle colture cerealicole, fino ad arrivare all’organizzazione classica del podere, costituito da seminativi alternati alle alberate vitate (di cui abbiamo già tanto parlato, come qui).

Tutte queste trasformazioni ottenute con le bonifiche e le sistemazioni collinari o di fianchi di montagne, portarono ad un grande aumento rispetto al passato delle colture arboree. Ci fu una fortissima espansione delle viti, degli ulivi, di alberi da frutto e dei gelsi. In molti territori italiani la viticoltura ebbe un ruolo di spicco in tutti questi ampliamenti. Si ingrandì moltissimo il paesaggio dell’alberata, la vite maritata in coltura mista con cereali, in Toscana, Umbria e Marche. Nel centro-nord e nel nord-est invece aumentò notevolmente la piantata padana, soprattutto in Emilia Romagna. Invece in quelle aree padane dove la crescita fu focalizzata sul prato irriguo e sulle risaie, la vite alberata lungo i fossi spesso scomparve. Rimasero però i filari degli alberi, a continuare a svolgere la funzione di fornire fascine, legna da ardere o da lavorare, oltre che i gelsi per il baco da seta.

 

… continua …