L’altra settimana ho partecipato alla facoltà di agraria di Pisa ad un seminario sulle varietà (ibridi) resistenti di uva da vino. Sono andata con tanto entusiasmo, anche visto che sono in origine biologa vegetale (anche se ormai sono vent’anni che sono vignaiola). Sono tornata a casa con più domande che risposte ma anche voglia di fare.
Il fatto positivo è che dall’anno prossimo (salvo allungamenti burocratici) alcuni ibridi saranno autorizzati dalla regione Toscana. Noi vorremmo essere fra i primi ad accoglierne un po’ nelle nostre vigne per poterli sperimentare. Tuttavia, a chi pensa che gli ibridi siano una facile e rapida soluzione alla sostenibilità viticola, devo dire che il percorso è ancora lungo e anche questa via presenta luci e ombre, perplessità e prospettive.
La giornata è stata forse un po’ caotica, ma ricca di spunti. Purtroppo la parte più specifica e per me più interessante, l’assaggio e la discussione dei vini sperimentali, è stata un po’ ristretta nella parte finale del programma, momento in cui si arriva sempre tutti un po’ stanchi e con tanti altri impegni che chiamano. Eppure anche la parte introduttiva è stata utilissima. Il dott. Velasco, direttore del CREA, ci ha illustrato le tecniche di produzione e le opportunità offerte da questo sistema. Il dott. Materazzi, esperto di patologia della vite, ha invece messo in evidenza soprattutto le perplessità o meglio i punti su cui ancora bisogna fare chiarezza.
Gli ibridi sono studiati essenzialmente per resistere alle due principali malattie della vite, l’oidio e la peronospora (ne avevo già parlato molto in generale qui, mentre spiegavo la peronospora; notizie sull’oidio le trovate invece qui). Ci si concentra su queste perché sono quelle che presentano le maggiori problematiche ancora aperte sulla sostenibilità (per altre siamo già più avanti). Sono quelle che richiedono ancora un discreto uso di fungicidi, con quantitativi più o meno importanti a seconda della zona climatica e dell’andamento stagionale, oltre che per l’approccio più o meno sostenibile dell’azienda. In questo senso l’idea delle viti resistenti è ovviamente molto interessante.
Si legge a volte che con le viti resistenti non sia necessario fare più nessun trattamento. In realtà è una comunicazione scorretta. Se i produttori lo facessero, metterebbero a rischio la propria vigna.
Gli ibridi resistenti permettono di abbassare l’uso dei fungicidi ma non di abbandonarne totalmente l’uso. Le resistenze acquisite inducono una risposta di difesa della pianta a seguito del contatto col fungo, con la necrosi cellulare delle parti attaccate. Questa risposta può essere però più lenta dello sviluppo dal patogeno, soprattutto in situazioni di alta pressione della malattia, per cui sono necessari comunque dei trattamenti almeno nelle fasi iniziali. Negli studi di campo riportati nel seminario (fatti in Friuli, in una zona con alta umidità) gli ibridi in questione hanno permesso di passare dai 12-14 trattamenti col rame (contro la peronospora) a soli 2-3. Per l’oidio (con lo zolfo) ne hanno fatti 3-4 contro 12. Mi sarebbe piaciuto vedere il confronto con la viticoltura integrata, che fa già molti meno trattamenti di partenza, ma non era nei protocolli sperimentali.
Fin qui tutto bene, almeno abbastanza, ma i problemi sono emersi dopo. Prima di tutto l’aspetto che più ha colpito i partecipanti all’incontro è quello inerente ai costi e dei tempi di lavoro. Siamo molto all’inizio ma è un percorso che si prospetta molto lungo e costoso e con esiti ancora incerti.
Finora sono stati ottenuti alcuni ibridi resistenti in Germania e in altri paesi nordici. Alcuni ibridi tedeschi sono stati introdotti nelle regioni del nord-est d’Italia, autorizzati per i vini IGT. Sempre in quest’area il CREA, con Vivai Cooperativi Rauscedo, sta lavorando ad altri. La ricerca è comunque molto all’inizio nel nostro paese. Gli ibridi già ottenuti sono specifici per climi più freddi, poco adatti o comunque poco studiati per le differenti situazioni italiane. Uno dei progetti di ricerca in corso, presentato dal direttore del CREA, è sulla ricerca di ibridi resistenti per la Glera (Prosecco). Per ora hanno ottenuto 2-3 ibridi interessanti per questa singola varietà, ma ci sono voluti circa una decina anni di lavoro e diverse centinaia di migliaia d’euro d’investimenti. Rimane poi ancora da capire se i vini derivati saranno considerati comparabili a quelli del vitigno che dovrebbero andare a sostituire, soprattutto se saranno accettati dal mercato.
Se proviamo a moltiplicare queste cifre e questi tempi di lavoro per le varietà esistenti, considerando anche di dover sviluppare diversi ibridi adatti alle diverse situazioni ambientali, ecc., arriviamo a numeri molto importanti.
Rimane però ancora incerto l’aspetto del marketing. Questa non è ricerca pura ma al servizio di un settore produttivo. Dopo tanto lavoro, quanto verranno accettati dai mercati? Si è citato l’esempio virtuoso di un gruppo di produttori di uva da tavola pugliesi, i quali hanno investito con soddisfazione nel creare alcune varietà resistenti. Il problema è che si tratta di uva da tavola, appunto. Quanti fanno a caso al nome della varietà dell’uva da tavola? La maggior parte distingue forse solo fra uva nera e bianca. Invece il mondo del vino moderno si è legato, come non mai nella storia, alle varietà. Il rischio è di investire tanto per poi trovarsi degli ibridi abbastanza buoni ma comunque difficili da far accettate al mercato, al di fuori della nicchia dei consumatori più sensibili all’argomento o più curiosi. In Germania, dove sono più avanti, i vini derivati da queste varietà rimangono ancora una nicchia di mercato. Non pensiamo ai problemi relativi ad inserirli nelle nostre DOC.
Mettiamo di impegnarci, saranno poi risolutivi? Arriviamo quindi alle problematiche più agronomiche, evidenziate dal dott. Materazzi.
La prima problematica è la possibilità di rottura della resistenza che, a fronte di lunghi studi e investimenti, potrebbe obbligare a ripartire da capo. Infatti è possibile che la sempre maggiore diffusione degli ibridi porti nel tempo a sviluppare ceppi di funghi più virulenti e con cicli biologici molto più corti, capaci di superare le resistenze. Questa selezione avrebbe importanti ripercussioni anche sulla difesa delle vigne non resistenti, rendendola ancora più difficile di oggi. Il superamento di una resistenza può anche avvenire per altri motivi, ad esempio a seguito di infezioni virali delle viti.
La seconda considerazione si lega invece ad una visione olistica della viticoltura. La vigna è un sistema molto complesso, ogni volta che si va a variare un elemento, si vanno ad alterare gli equilibri in modo spesso imprevedibile. Come si comporteranno in vigna gli ibridi sul medio-lungo periodo?
Possiamo già prospettare che la forte diminuzione dell’uso di fungicidi potrebbe comportare l’effetto collaterale dell’esplosione di malattie oggi secondarie. Ci sono una serie di altri patogeni fungini che oggi sono considerati secondari. Non danno molti problemi perché sono tenuti sotto controllo indirettamente con gli stessi interventi fitosanitari che si fanno per peronospora ed oidio. Usando gli ibridi resistenti ed abbassando notevolmente l’impiego dei fungici, queste malattie potrebbero diventare importanti. Dovremo allora ricominciare ad usare i fungicidi contro di esse? Il beneficio acquisito verrebbe reso vano. Fra queste malattie ricordiamo l’escoriosi o i marciumi vari. I cambiamenti climatici in corso fanno prevedere che diventerà sempre più un problema diffuso la gestione in vigna dei funghi micotossigeni (che causano l’accumulo nel frutto e nel vino dell’ocratossina A), per ora ristretti ad alcune aree produttive molto calde.
Un’altra problematica importante è legata al fatto che, dati i tempi ed i costi già menzionati, si rischia che la ricerca si focalizzi su un gruppo ristretto di varietà, erodendo ulteriormente la già molto rosicata variabilità del germoplasma viticolo utilizzato. Detto in parole più semplici: chi spenderà tempo e soldi per fare questi studi su varietà minori oppure per cercare ibridi adatti a territori minori (o meno ricchi)? Se penso solo all’alta biodiversità delle nostre vigne: abbiamo circa un centinaio di varietà diverse!
Alla fine della parte teorica abbiamo potuto assaggiare alcune micro-vinificazioni di 4 ibridi (2 del Sauvignon blanc, uno di Merlot e uno di Sangiovese) creati da VCR, provenienti da campi sperimentali in Friuli. Dei due Sauvignon uno mi è sembrato un po’ scarsino, l’altro più interessante. I due rossi mi sono piaciuti un po’ meno, anche se avevano buone acidità ma profili aromatici un po’ monocorde, senza complessità. Comunque non è facile giudicare da un punto di vista organolettico delle micro-vinificazioni, per lo più senza paragoni diretti con cui confrontarsi, se non la nostra memoria sensoriale. Non è facile neppure estrapolare i limiti dovuti alla natura sperimentale dei vini. Sarebbe già stato meglio poter assaggiare le prove dei campi sperimentali toscani. Ne hanno alcuni a Montalcino, Bolgheri e nel Chianti, anche se non hanno spiegato molto a proposito e non ho capito bene a che punto siano qui con la sperimentazione. Non dovrebbero essere così indietro se stanno chiedendo alla regione Toscana l’inserimento nelle varietà ammesse. Si è chiesto di poterli assaggiare più avanti: si vedrà.
In conclusione le perplessità sono ancora tante, in linea col fatto che è un percorso molto difficile, lungo, costoso e con probabilità di successo al momento ancora difficili da prevedere. I problemi di vigna sono molteplici e i benefici forse non così dirompenti (almeno al momento).
I relatori hanno chiesto che siano le aziende ad accollarsi questi costi ma fra i produttori e tecnici presenti è emersa soprattutto una riflessione di opportunità. Non sarebbe meno costoso, meno problematico, oltre che conservativo delle varietà esistenti, continuare ad investire e lavorare sul miglioramento della difesa in vigna? In questi ultimi vent’anni sono stati fatti passi importanti in questo senso su tutto il settore, per lo meno se paragoniamo la viticoltura di oggi a quella di 30-40 anni (e più) fa. Se pensiamo poi alle forme più avanzate (integrata volontaria, per tanti aspetti il biologico), i passi sono stati da giganti. Sicuramente si può migliorare ancora, soprattutto implementando i sistemi di lotta biologica ed agronomici di prevenzione. In un sistema sempre più integrato, si potrebbe ridurre ancor di più l’uso dei fungicidi, trovandone magari altri ancor più sostenibili degli attuali ma efficaci sui patogeni primari ed anche secondari.
Così su due piedi è sembrato anche a me preferibile continuare su una strada che stiamo già percorrendo e che basta migliorare ancora un po’, a fronte dell’enormità di lavoro e problemi emersi per i vitigni resistenti. Questa mia valutazione è forse anche condizionata dal fatto di lavorare in un territorio, quello di Bolgheri, con basse problematiche fitosanitarie. Riusciamo già oggi a gestirle in modo sufficientemente buono (salvo rare annate difficili) con la difesa integrata, sia per la qualità dell’uva che per il basso impatto ambientale. Ciò non toglie che si possa migliorare ancora.
Ci sono però territori dove la viticoltura è più difficile e la pressione della malattie fungine molto più importante. Inoltre nella ricerca un conto è ragionare sull’oggi, un conto sulle possibili conquiste future, neppure troppo di fantascienza (vedete qui sotto). A volte filoni che sembrano un po’ azzardati all’inizio, sono quelli che poi nel tempo potrebbero portare alle migliori innovazioni. Per questo è meglio non precludere a priori nessuna strada.
Per gli ibridi resistenti il limite maggiore rimane soprattutto quello tecnologico. Finchè si baseranno solo sull’impiego dell’incrocio tradizionale, non so quanto futuro potranno avere. Si tratta di un sistema troppo lento, con basse probabilità di successo e quindi molto costoso. Per altre colture è stato utile, ma solo per sistemi più semplici della vite, sia per numero di malattie che per la variabilità genetica della specie e le necessità d’adattamento territoriale. Vale la pena di investire così tanti soldi in un sistema zoppo già in partenza?
Sarebbe ben diverso se si riuscisse a lavorare con tecnologie più performanti, come il sistema CRISPR/Cas (qui potete trovare una spiegazione ben fatta di questa tecnica). Permetterebbe interventi più mirati e molto più veloci, con la possibilità di trovare molto più facilmente ibridi ottimali sia per la resistenza che dal punto di vista sensoriale (dei vini). Sarebbe anche più adatto a creare multi-resistenze, contro più malattie. Non presenta inoltre le implicazioni etiche sollevate dagli OGM. In realtà la Comunità Europea al momento tende a considerarlo alla stessa stregua e questo è il più importante impedimento allo sviluppo di questo ambito.