E il vecchio diceva, guardando lontano: / “Immagina questo coperto di grano, / immagina i frutti e immagina i fiori / e pensa alle voci e pensa ai colori. / E in questa pianura, fin dove si perde, / crescevano gli alberi e tutto era verde, / cadeva la pioggia, segnavano i soli / il ritmo dell’ uomo e delle stagioni”. / Il bimbo ristette, lo sguardo era triste, / e gli occhi guardavano cose mai viste / e poi disse al vecchio con voce sognante: / “Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!”

(Francesco Guccini, “Il vecchio e il bambino”, 1972)

Il cammino dell’Homo sapiens non ha mai contemplato un rapporto pacifico con le risorse naturali ed il mondo animale. Oggi tocchiamo sempre più con mano le conseguenze estreme del nostro “adattamento” al mondo, dall’inquinamento al cambiamento climatico, per non parlare del rischio sempre latente di una distruzione nucleare.

Invece che cercare soluzioni sensate, spesso però preferiamo perderci nell’estremo opposto. Alla figura dell’uomo che depreda si contrappone la figura mitica dell’uomo “naturale”, anelando un ritorno ad una natura incontaminata o a una vaga vita agricola/pastorale antica, migliore e più felice. La paura scatena in noi fenomeni di rifiuto generalizzati, fino alla tecnofobia. Non a caso “naturale” è la parola più usata dal marketing di oggi, che ci propone nuovi filoni consumistici che comprendono le non-soluzioni delle medicine alternative, agricolture da cartolina, cibi “senza” che ci promettono solo benessere … Diventa veramente difficile riuscire a distinguere fra le proposte realmente sostenibili e quelle che sono solo marketing o camuffamenti “verdi”.

Questa visione dualistica di frattura fra l’uomo (e la tecnica) e la Natura non è una novità. Fa parte dei fondamenti della nostra cultura occidentale e si è sedimentata per secoli.  L’uomo civilizzato ha sognato sempre un luogo mitico dove tornare, una patria naturale che spesso ha preso il nome di Arcadia.

Arcadia è il nome di una regione della Grecia, arida e brulla, che in antichità era considerata la culla della poesia pastorale. Arcadia è però soprattutto il sogno senza tempo di un mondo incontaminato, dove l’uomo vive in pace ed armonia con la natura, ricreando quella frattura che si è creata con la tecnologia. È un luogo dell’anima dove è possibile vivere una vita naturale lontano dalle brutture della civiltà umana, raggiungendo quella felicità che sentiamo di non riuscire mai ad ottenere nel consesso civile.

Questa idea si è sedimentata nella nostra cultura nel corso delle epoche e dei pensieri. Arcadia, nominata o meno, poteva essere la natura incontaminata oppure il mondo agreste e pastorale (nell’immaginario comune i confini di questi due ambiti sono spesso incerti). Questo luogo mitico è stato abitato da ninfe e satiri, che possono anche assomigliarci esteriormente, ma sono molto diversi nella loro essenza di spiriti della natura. È stato anche però popolato da contadini e pastori, gente semplice che in questi miti costituiscono un’umanità più vera, meno corrotta di quella civilizzata e, quindi, più vicina alla Natura.

Il dipinto di Cole riunisce i temi classici dell’Arcadia: un luogo dove l’uomo è in armonia con sè stesso ed il mondo. Qui svolge attività semplici di sussistenza, come l’agricoltura (a sinistra) e la pastorizia (al centro), oltre che di elevazione delle spirito, cioè l’arte (a destra), in perfetta armonia con una Natura perfetta. (T. Cole “The Course of Empire. The Arcadian or Pastoral State” 1836).

Il dualismo Natura-civiltà è antichissimo. La regione mitica di Arcadia è descritta inizialmente nella classicità greca da Teocrito. È Platone però ad introdurre il mito del luogo ameno, fatto da un corso d’acqua e ricca vegetazione, dove l’uomo può trovare la sua felicità. Aristotele separa invece la fisica dalla metafisica, tracciando una divisione fra la descrizione letteraria della natura e la sua indagine conoscitiva. Esiodo ci ricorda che l’uomo deve la sua sopravvivenza al lavoro e alla fatica. Solo modificando la Natura a suo vantaggio riesce ad ottenere quello che gli serve per vivere (“Le opere ed i giorni”). Aristofane ne “Le Nuvole” dice che la vita frugale di campagna è quella più morale, in contrapposizione alla vita della gente di città, che è viziata, stravagante, legata solo ai beni superflui.

Anche l’Odissea racconta di “luoghi ameni” o giardini meravigliosi, come la grotta di Calipso sull’isola di Ogigia o il giardino di Alcinoo, dove la frutta è prodotta in continuazione. Eppure Ulisse non è attratto da questi luoghi di delizie eterne, ma agogna il ritorno alla “petrosa Itaca”, cioè alla civiltà umana. Ci ricorda Eva che, con Adamo, sceglie la conoscenza, anche al costo di essere scacciati dal paradiso terrestre. (Brueghel il Vecchio, Ulisse e Calipso, 1616).

Nel mondo latino, Lucrezio (“De Rerum Natura“) ci ricorda che possiamo liberarci della paura della morte e degli dei solo cercando di capire il mondo, l’origine del cosmo, la realtà ed i fenomeni naturali. Per lui la natura è matrigna: fin dalla nascita ci infligge sofferenze e difficoltà spietate. La visione della Natura Matrigna rimarrà per secoli. Ripensiamo anche a Giacomo Leopardi nell’Ottocento. Egli pone la Natura al centro delle sue meditazioni esistenziali, ma esse aprono le porte ad un pessimismo individuale e cosmico.

L’episodio della peste di Atene, raccontata da Tucidide, è lo spunto per Lucrezio per ricordarci quanto sia dura la Natura verso l’uomo. L’epidemia ci mostra un’umanità desolata, devastata nel corpo ma che ha anche perso ogni valore morale. (Michael Sweerts, 1652, La peste di Atene)

“Tu (Natura) sei nemica scoperta degli uomini e degli altri animali, e di tutte le opere tue, ora c’insidi, ora ci minacci, ora ci assali, ora ci pungi, ora ci percuoti, ora ci laceri, e sempre o ci offendi, o ci perseguiti”

(Dialogo della natura e di un Islandese, G. Leopardi)

Virgilio invece ci riporta nel luogo ameno. Anzi, è colui che fissa definitivamente per i secoli a venire il topos letterario dell’Arcadia, il luogo dove i pastori si dedicano alla poesia, al canto e all’amore, in piena comunione con gli dei e le creature mitologiche. L’Arcadia con lui è il paesaggio naturale ma anche quello rurale, dove una natura gentile ripaga con abbondanza le fatiche dell’uomo abile nel suo lavoro.

Virgilio racconta nell’Eneide anche dei Campi Elisi, il luogo dove dopo la morte dimorano le anime delle persone degne, in profonda beatitudine. Lo descrive come un luogo di natura incontaminata, fatta da campi luminosi e boschetti profumati. Ridley Scott li rappresenta così nel film Il Gladiatore, mostrando uno scorcio di campagna toscana della Val d’Orcia.

Diversi autori latini fissano il classico dualismo fra la vita di città e quella di campagna, quest’ultima più nobile ed in armonia con la natura. Lo fa Varrone, così come prima di lui Catone e, più tardi, Columella (qui). Giovenale dice che “Roma è una grande fogna”, elogiando la vita rustica e la moralità integra delle genti di campagna. Cicerone scrive che “Le gioie dell’agricoltura sono quelle più vicine ad una vita di vera saggezza”. Il poeta Tibullo va oltre ed introduce anche il rimpianto della mitica Età dell’Oro, in cui l’uomo viveva nella natura ed otteneva quello che gli serviva per vivere senza neppure dover faticare.

Nel Medioevo la natura selvaggia inizia a diventare un luogo pauroso e pericoloso. Il bosco è pieno di briganti e di bestie feroci. Non è più la selva del mondo classico, quasi un giardino dove vivono benefiche divinità minori. La città (=la civiltà) è il luogo della protezione e della sicurezza. Fra le mura dei conventi i monaci preservano le conoscenze che garantiscono la produzione del cibo e studiano le erbe che curano le malattie. L’agricoltura stessa è racchiusa e protetta nelle mura dell’hortus, al sicuro dalle forze devastanti della natura.

Superate le paure, la natura torna ad essere il luogo ameno. Ricordiamo il Petrarca, con “Le chiare, fresche e dolci acque” e il Monte Ventoso da scalare, per raggiungere le più alte vette della spiritualità. Nel Rinascimento l’Arcadia torna in tutta la sua bellezza originaria di poesia pastorale. Spesso però le campagne descritte non sono più paesaggi generici o stereotipati ma prendono la forma, più o meno esplicita, dei luoghi vissuti dagli autori. Ad esempio, il Boiardo nei Pastoralia, accoglie il Dio Pan poco fuori Modena e lo guida verso la città. Il mito d’Arcadia viene espresso a pieno soprattutto da Jacopo Sannazzaro (“Arcadia”, 1504), nel quale domina il tema del rimpianto della mitica Età dell’Oro, anche perché la sua Arcadia non è solo un luogo felice ma piuttosto la trasposizione in ambientazione idilliaca del mondo reale. Con lui il mito di Arcadia dall’Italia si riversa nel resto d’Europa. Ricordiamo per esempio nel Seicento Philip Sidney che vi ambienta avventure e battaglie (“The countess of Pembroke’s Arcadia”). William Shakespeare fonde il mondo reale e quello fiabesco nel “Sogno di una notte di mezz’estate”. Pope, ad inizio Settecento, accosta la natura alla “semplicity” (“Discorso sulla poesia pastorale”).

Il mondo celtico-germanico ha anche però una visione tutta sua del mito della Natura, che non è la salva-giardino e l’ambiente pastorale del classicismo mediterraneo. La sua espressione è la foresta, luogo pauroso ma anche dove è possibile ritrovare sé stessi. È anche uno spazio di libertà, dove le convenzioni sociali possono essere sospese e dove possono trionfare la verità, l’amore e la giustizia.  Pensiamo a Walter Scott, che con Ivanhoe è il principale diffusore nella letteratura del mito del bosco come luogo di eroismo e libertà. È questa l’influenza principale di Natura del Romanticismo, in un rapporto che si fa più personale. I suoi elementi si caricano di emozioni e stati d’animo di assoluta profondità e struggimento.

Nel celeberrimo “Il Signore degli Anelli” di Tolkien si ritrovano tantissimi miti a proposito della foresta e della Natura incontaminata. Sono descritti esseri più vicini alla natura rispetto all’uomo tecnologico e distruttivo, come gli Elfi, legati alla natura selvaggia, e gli Hobbit, appartenenti ad un idilliaco mondo agricolo e pastorale. Un momento significativo e suggestivo (ma ce ne sono tantissimi in tutta l’opera) è rappresentato dalla marcia dagli alberi senzienti, gli Ent. verso la fortezza di Isengard, la fucina tecnologica, responsabile dell’abbattimento di molti alberi della foresta di Fangorn, per distruggerla. Qui Tolkien riprende ed amplifica la famosa scena del Macbeth di Shakespeare, in cui gli uomini dell’esercito salvifico di Malcom si mimetizzano coprendosi con le fronde degli alberi, dando l’impressione che il bosco stia marciando verso la fortezza dove si è asserragliato l’usurpatore Macbeth. Si avvera così la profezia delle streghe che, sembrando impossibile ad avverarsi, aveva illuso Macbeth della sua invincibilità. Le streghe avevano infatti predetto che non sarebbe stato sconfitto finché la foresta di Birnam non fosse scesa in battaglia.

L’Ottocento, con le sue trasformazioni economiche e sociali, accentua sempre più la sensazione di frattura fra civiltà e natura. A fine secolo nasceranno le prime associazioni (élitarie) ambientaliste. Ad inizio Novecento nasceranno i primi parchi nazionali europei. Nel secondo dopoguerra nascerà anche l’ambientalismo di massa e politico …  Uno dei padre spirituali dell’ecologismo moderno è considerato Henry David Thoureau che col suo “Walden, vita nel bosco” (1854) racconta che ha raggiunto il benessere personale solo con l’esperienza di una vita in piena armonia con la natura, durata due anni. In questo periodo ha sopportato anche condizioni di estrema frugalità, che gli hanno però permesso di riscoprire la felicità delle piccole cose.

“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, affrontando solo i fatti essenziali della vita, per vedere se non fossi riuscito a imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non dover scoprire in punto di morte di non aver vissuto.”

Rimane sempre anche il pensiero antico della maggiore moralità delle persone più semplici. Thomas Jefferson afferma: “Sottoponi lo stesso quesito morale ad un contadino ed ad un professore, il primo deciderà altrettanto bene del secondo, se non meglio, perché non ancora deformato dall’astrattezza delle leggi artificiali”.

Pensiamo anche a Rousseau, a Lamartine, alle montagne altissime e ai laghi, alla nascita del gusto dell’orrido, ma anche il mito del “buon selvaggio”. “Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell’uomo”, scrive Rousseau. Secondo lui, l’uomo-naturale ha come solo obiettivo la cura di sé ed è naturalmente empatico verso i suoi simili. La società invece è una costruzione nociva, che corrompe l’essere umano, in quanto lo sguardo dell’altro porta l’uomo ad inseguire altre priorità, di sopraffazione ed ingordigia.

La lista sarebbe infinita. Le ultime Arcadie che voglio ricordarvi appartengono a miei ricordi d’infanzia, ad una cultura più “bassa”, quella dei cartoni animati degli anni ’70, momento più che mai cruciale di sviluppo dell’ambientalismo moderno e della critica sociale. La prima è nel bellissimo “Conan, il ragazzo del futuro”, opera di Hayao Miyazaki nel 1978 e trasmesso in Italia per la prima volta nel 1981. In questo mondo distrutto da armi terribili, è netta la contrapposizione fra le antiche città sommerse, la iper-tecnologica Indastria e l’isola felice di Hyarbor.

In Conan, l’isola di Higharbor, un’Arcadia mai nominata come tale, rappresenta l’ultimo baluardo di un mondo perfetto distrutto dalla tecnica, dove gli uomini vivono pacifici in una società ugualitaria basata su un’agricoltura pre-industriale.

Il nome Arcadia compare invece realmente in Capitan Harlock, creato nel 1977 da Leiji Matsumoto, trasmesso in Italia per la prima volta nel 1979. Non è però l’Arcadia solita, quella della natura incontaminata o dei paesaggi bucolici, ma il nome dell’astronave dove il protagonista vive col suo gruppo di buffi corsari. In un mondo futuro distopico dove la Natura, fatta di alberi ed animali, non esiste più, l’Arcadia di Matsumoto è come un’arca che ospita una comunità umana ideale, persone che vivono una sorta di anarchia regolata, pronte a lottare e sacrificarsi per il bene comune. Sembra dirci che, dopo la devastazione e le guerre, l’ultima Arcadia che rimane da salvare è questo piccolo rimasuglio d’umanità.

Qui termino il viaggio nel mito antico della natura incontaminata e dell’uomo naturale. Arcadia (o chiamatela come volete) è il luogo dell’anima di tutti noi, radicato da secoli, un grande ideale utopistico che da sempre è servito a scuotere le coscienze, a farci chiedere “ma cosa stiamo facendo?” Facciamo però anche attenzione a non perderci in essa e nelle sue illusioni salvifiche, per mantenerci lucidi e tracciare una strada concreta per costruire un futuro possibile.

Il mito d’Arcadia nella letteratura, di Marilina Notaristefano, https://associazioneculturalearcadia.com/2016/04/03/il-mito-darcadia-nella-letteratura/

https://www.ilfoglio.it/cultura/2021/07/26/news/la-natura-matrigna-2718907/

https://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:TItMd6LBJf0J:https://arenaphilosophika.it/corazzate-spaziali-e-socialisti-utopisti-il-mito-dellarcadia/+&cd=17&hl=it&ct=clnk&gl=it&client=firefox-b-d