“Essi abitano in una regione che produce di tutto e, impegnandosi nel lavoro, hanno frutti con cui possono non solo nutrirsi a sufficienza, ma anche concedersi una vita di piaceri e di lusso” Diodoro Siculo (I sec. a. C.).
Dopo aver parlato degli Etruschi come primi vignaioli, della loro viticoltura e della produzione, come erano i vini Etruschi?
Quello che sappiamo c’è arrivato attraverso gli scritti, spesso a posteriori, di autori Romani. In generale erano molto apprezzati. Ad esempio, Marziale ed Orazio elogiano il Massico (dell’area campana di cultura etrusca). Viceversa, denigrava il rosato di Veio. Certi giudizi negativi sono però da prendere con cautela, perché espressi in un momento storico in cui gli Etruschi erano in forte decadenza, ormai soggiogati dall’Impero Romano. Più tardi Columella (I sec. d.C., nel “De re rustica”) elenca alcune delle varietà dell’Etruria, numerose indigene ed altre d’importazione, come il Pompeiano o Murgentino. Plinio il Vecchio ricordava diversi vitigni aretini, come la Talpona nera (vinificato in bianco), l’Etesiaca, la Conseminea (per il consumo da tavola), la Sopina o Tudemis o Florentia, la Perusinia (uva nera). La Pariana è invece indicata nel territorio di Pisa. L’Apiana era un uva moscato da cui si ricavava un buon vino dolce. I vini di Gravisca (l’antico porto di Tarquinia) e di Statonia sono descritti come eccellenti.
Sappiamo di più su come li consumavano. Sembra che rituali legati al vino fossero già presenti in Etruria fin dalla fine dell’età del Bronzo. Tuttavia, il contatto con la cultura greca segnò una profonda evoluzione. Il vino si legò in modo più profondo alla dimensione religiosa ed veniva utilizzato in modo collettivo nelle celebrazioni agli Dei e nelle cerimonie funebri. La maggior produzione lo rese anche più disponibile e così divenne protagonista dei riti sociali, i banchetti ed i simposi (momenti dopo la cena, in cui si beveva vino, assistendo a spettacoli di musica e danza, con conversazioni e giochi). I meno abbienti probabilmente consumavano anche loro un vinello leggero, derivato dal ripasso con acqua delle vinacce, pratica frequente anche in epoca Romana e fino all’Ottocento.
La prima forma di banchetto, che segna il passaggio dalla “barbarie” a forme di civiltà più evolute, è quella seduta, come rappresentato sul vaso di Montescudaio. Comparve in Etruria almeno dall’inizio del VII sec. a.C., dall’influenza della cultura greca. Secondo questi modelli dello status aristocratico, il banchetto non avviene più in modo barbaro e scomposto, ma stando seduti di fronte ad una tavola. Dal VI sec. a.C., sempre da modelli culturali greci, si introdusse la figura del banchettante semi sdraiato sul letto conviviale, col gomito appoggiato ad uno o più cuscini. Su ciascun letto trovavano posto due o tre persone. Davanti a ciascuno erano sistemati tavolini bassi, per il cibo e le coppe di vino.
Una caratteristica tipicamente etrusca è la presenza delle donne ai banchetti, rappresentate dopo il 500 a.C., a volte adagiate accanto all’uomo e, più tardi, sedute vicino. Nel mondo greco il simposio era invece solo maschile o al più aperto alle etere (prostitute di alto livello). I greci (e i romani delle origini) consideravano questa presenza come un segno di corruzione morale. In realtà la donna, nel mondo etrusco, beneficiava di una considerazione civile e sociale ben diversa dal ruolo subalterno del mondo greco-romano. Al banchetto prendevano parte coppie sposate, ritratte nei sarcofagi o sugli affreschi come simbolo di unità famigliare.
I commensali mangiavano con le mani, pulendosi spesso con ciotole d’acqua profumata e tovaglioli. Nella sala scorrazzavano animali domestici (cani, gatti, polli, anatre…), che mangiavano i resti di cibo che cadevano (o erano buttati) a terra. Il banchetto era sempre accompagnato da musica, soprattutto dai flauti. Ci potevano essere anche spettacoli di danza e di giocolieri. Si giocava anche: ai dadi o con la tabula lusoria (una specie di scacchi o dama). Il kottabos, arrivato dalla Sicilia greca, consisteva nel centrare un bersaglio con le ultime gocce di vino rimaste nella coppa.
In autori greci e romani si trovano accuse morali rivolte al grande lusso dei banchetti etruschi, dove si esibivano vasellame pregiato, preziosi tessuti ricamati, col servizio di numerosi servi. C’è chi riporta, scandalizzato, che addirittura banchettavano due volte al giorno (l’uso comune dei tempi antichi, sia presso i Greci che i Romani, era che a pranzo si consumasse un pasto molto veloce e frugale). Alcuni autori romani definivano gli etruschi “schiavi del ventre” (gastriduloi), tanto che era popolare l’immagine dell’Etrusco obeso diffusa da Catullo. Di nuovo, prendiamo queste critiche con le dovute cautele: gli Etruschi furono a lungo nemici di Roma, prima di esserne conquistati. Tuttavia quest’immagine non presentava accezioni solo negative, visto che nella cultura antica l’individuo “grasso” era colui che poteva permettersi di diventarlo, cioè era un simbolo di grande ricchezza e potere.
Come si beveva il vino allora?
Il vino, in antichità, era molto alcolico e concentrato. Ai banchetti e ai simposi (sempre per influenza greca) era diluito con acqua, perché era considerato da barbari perdere il controllo in società. Veniva anche aromatizzato ed addolcito, pratiche comuni nel passato antico e medievale, per coprire i difetti dovuti alle limitate tecniche produttive e di conservazione.
I vari oggetti usati per il vino e la tavola erano in ceramica o bronzo. Per essi gli archeologi usano i nomi greci perché il nome etrusco è spesso sconosciuto oppure incerto.
Al centro della sala, su un tavolo di servizio, era posto il cratere per il vino (krateres), un vaso in ceramica riconoscibile dalla larga imboccatura. A fianco c’era una grossa anfora (hydria) per l’acqua, la quale era servita anche a tavola in piccoli secchi (situla).
Il vino era portato in sala nelle anfore di conservazione e mescolato nel cratere con acqua, fredda o calda a seconda delle stagioni. Ad esso erano aggiunti ingredienti addolcenti ed aromatizzanti, soprattutto miele, erbe, fiori, spezie, resine, ecc.
Del corredo dei simposi faceva parte anche la grattugia, usata appunto per grattugiare nel vino spezie, radici o, probabilmente (come succedeva nel mondo greco) anche il formaggio. Dal cratere il vino era poi attinto con dei mestoli o attingitoi come il kyathos, di foggia tipicamente etrusca, a metà fra una coppa per bere e una per attingere.
Era versato nelle brocche di servizio (oinochoe, anche questa una forma originaria etrusca) o direttamente nelle coppe dei commensali. Era anche filtrato con un colino, per eliminarne le torbidità.
Per bere si usavano coppe in ceramica di diversa foggia, come il calice semplice (in etrusco probabilmente thavna). Una forma importata dalla Grecia era la kylix (in etrusco culichna). Con manici più alti e tipicamente etrusco era invece il kantharos (in etrusco, probabilmente, chiamato zavena).
Il vino era legato alla dimensione religiosa non solo nel consumo ai banchetti funebri o nei riti sacrificali. Presso gli Etruschi la coltivazione stessa della vite era così importante che la classe sacerdotale era custode delle tecniche di coltivazione della vigna, della definizione dell’orientamento dei vigneti e delle pratiche magiche per preservarli dal maltempo.
Questi rituali si mantennero anche in epoca Romana, in particolare durante i Vinalia Rustica, festività celebrate il 19 agosto. Plinio Il Vecchio (Plin., Nat. Hist.) cita la pratica di deporre fra le vigne un grappolo d’uva posticcio, che attirasse su di sé i danni e risparmiasse il resto. Il sacerdote di Giove (il Flamen Dialis) celebrava l’auspicatio vindemiae. Cicerone cita anche le auguratio vineta, pratiche augurali che fa risalire ad Atto Navio, augure famoso al tempo di Tarquinio Prisco. Atto Navio, quando era un giovane pastore di scrofe, ne perdette una e promise che, se l’avesse ritrovata, avrebbe donato alle divinità il grappolo più grande della sua vigna. Fu esaudito e allora si pose al centro della vigna, la divise in quattro parti, secondo le pratiche della Disciplina Etrusca, ed interpretò il volo degli uccelli. Siccome gli uccelli avevano dato auspici sfavorevoli per le prime tre, cercò nella quarta parte e vi trovò un grappolo di mirabile grandezza.
La potatura presentava un alto contenuto simbolico: come forma di controllo e regolazione della produzione delle viti, veniva percepita come segno di valore e di regalità. In tombe dell’Età del Ferro la presenta di un falcetto per potare non rappresentava il mero strumento da lavoro, ma il simbolo distintivo della proprietà di vigneti e quindi di alto lignaggio. Questa concezione rimase anche a Roma: Virgilio, nel descrivere gli avi latini da cui discendeva la stirpe di Augusto nell’Eneide (libro VII), cita Sabino, descritto come coltivatore di viti e connotato da un falcetto ricurvo.
Le divinità connesse al vino erano due:
TINA/TINIA/TIN. É la massima divinità etrusca e ha come attributo principale il fulmine. Tina è una divinità celeste ma presenta anche aspetti legati alla vegetazione, in particolare alla viticoltura. Plinio tramanda che a Populonia esisteva una raffigurazione di Tina ricavata da un unico grosso ceppo di vite. Più tardi venne assimilato a Zeus-Giove.
FUFLUNS. Il nome ha come radice puple (germoglio), richiamando il suo legame originario con le forze della Natura. Nel “Fegato di Piacenza”, un bronzetto che riporta una sorta di “mappa” delle divinità etrusche, è elencato fra le divinità silvestri (dei boschi). Dalla metà del VI sec. a.C. venne assimilato sempre più al greco Dioniso, che, dall’appellativo Dionysos Bakchos, diventerà il latino Bacco. Nel IV secolo si diffusero sempre più in Etruria i riti dionisiaci, raggiungendo una grande diffusione nel IV-III sec. a.C. soprattutto fra gli aristocratici, al punto che erano organizzati collegi di Baccanti. Livio sostiene che proprio dall’Etruria questi culti arrivarono a Roma, dove furono proibiti dal senato nel 186 a.C. perché turbativi dell’ordine e della morale pubblica. Questi riti sono stati scambiati spesso per puri eccessi sessuali e di sfrenatezza. In realtà, nella filosofia greca il vino è connesso alla potenza di un furore esaltante e liberatorio. L’estasi che si libera al culmine dell’eccitazione dionisiaca è una forma di conoscenza più alta, il mezzo per unirsi al divino.
Continua: nella prossima parte parleremo del commercio etrusco del vino qui