Finora abbiamo imparato a conoscere gli Etruschi e le loro vigne, basate sulla vite maritata. Parliamo ora della produzione del vino.
Come per la viticoltura, anche quando si parla di vinificazione antica, in Italia, si accenna quasi solo a quella Romana. Eppure i Romani impararono dagli Etruschi anche a fare il vino. La stessa parola vinum, vino, è passata al latino dall’etrusco. Dal latino è poi rimasta nelle moderne lingue europee (vino italiano e spagnolo, vin francese, wine inglese, wein tedesco, ecc.). La sua origine è però ancora più antica e viene da lontano. Sembra che sia una sorta di “parola viaggiante” che ha seguito molto probabilmente lo stesso percorso storico-temporale della vite e del vino, da Oriente ad Occidente:
winuwanti nell’antica Licaonia (Caucaso)
wnš / wnšt in egiziano antico
wo-na-si o wo-no a Micene
foinos- voinos in dialetto eolico
vinom in falisco (antichissima lingua dei Falisci, popolo che viveva nella parte meridionale dell’Etruria, fra i monti Cimini ed il Tevere, nella zona dell’odierna Civita Castellana)
vinum in etrusco e, poi, in latino.
L’attuale georgiano (Caucaso) gwino segna il punto di partenza.
La parola etrusca vinum deriva quindi da un’influenza straniera, dalla cultura greca. Si pensa quindi che sia entrata in uso solo dal VIII sec. a.C. Esiste una parola autoctona per indicare questa bevanda: temetum. Questa appartiene alle radici protostoriche delle genti Etrusche e Latine. La parola vinum sarà però quella vincente.
Dopo questa digressione linguistica, veniamo al nostro punto. Come facevano il vino gli Etruschi?
Non è semplicissimo rispondere a questa domanda. Alcune cose le sappiamo per certe, altre le possiamo desumere per affinità da altri popoli mediterranei. Sicuramente possiamo prendere molte informazioni dagli autori romani. Sappiamo infatti che sono stati gli Etruschi ad insegnare loro la produzione del vino. Quindi, le tecniche produttive della Roma arcaiaca ci raccontano molto dell’enologia etrusca.
In epoca molto primitiva, in generale, gli studiosi ipotizzano che l’uva venisse schiacciata in piccoli contenitori, semplicemente spremuta con le mani o usando pietre come pestelli.
Tuttavia da quando l’uomo ha iniziato a rappresentare le scene di vinificazione in affreschi o su vasi (o almeno su quelli che ci sono pervenuti), già prevaleva l’uso di pigiarla con i piedi, in contenitori più grandi.
Sappiamo per certo che ad un certo punto, presso gli Etruschi, si iniziò a schiacciare l’uva in rozzi pigiatoi scavati nella pietra, detti PALMENTI, scavati in affioramenti rocciosi naturali. Questi, prima della domesticazione, erano realizzati in prossimità dei luoghi dove si trovavano le viti selvatiche. Con l’inizio della coltivazione, i palmenti furono realizzati nelle vigne. Questi potevano essere coperti con strutture leggere, tipo cannicciati o altro, per ombreggiarli o per proteggerli da piogge leggere. Lo sappiamo perchè, in alcuni di essi, sono stati trovati 4 fori intorno, scavati anch’essi nella roccia, come basi per alloggiare i pali di sostegno di una tettoia.
Si pensa che i palmenti in pietra comparvero più o meno dal primo millennio a.C. Esempi rari risalgono all’età del Bronzo ma diventano più numerosi in seguito. La loro datazione tuttavia non è semplice, perché furono usati anche per secoli. In Italia, molti palmenti antichi furono utilizzati dai contadini del luogo fino all’epoca medioevale e, a volte, anche in quelle successive, alcuni addirittura fino alla metà del Novecento.
Palmenti rupestri sono stati ritrovati in Toscana, nelle Marche, nel Lazio, in Campania, in Calabria, in Sardegna, così come in quasi tutte le aree del Mediterraneo Orientale. Si sono trovati anche nei paesi del Mediterraneo Occidentale (come Spagna, Portogallo e sud della Francia) ma risalgono alla colonizzazione romana.
Mancano invece, se non per rare eccezioni, nelle colonie greche dell’Italia del Sud. Ma come, direte, i palmenti non sono tradizionali in Sicilia ed altre zone della Magna Grecia? Sì, ma arriveranno dopo, con i Romani. Si pensa, verosimilmente, che nella cultura greca si usassero maggiormente contenitori in legno per pigiare, dei quali ovviamente non sono rimaste tracce archeologiche. Le testimonianze sono soprattutto artistiche, come è possibile vedere nelle numerose scene di vendemmia sui vasi, come quelle qui sotto. Da esse si desume che in Grecia, in epoca arcaica, si utilizzassero soprattutto pigiatoi in legno trasportabili, con gambe, che si posizionavano direttamente in vigna o in cantina.
Il palmento, comunque, appartiene anche ad altri popoli mediterranei. A Creta, in epoca precedente (età del Bronzo) le raffigurazioni mostrano la pigiatura dell’uva, con i piedi, in specie di tinozze in ceramica. Anche in Magna Grecia si ha testimonianza di alcuni pigiatoi in argilla rivestiti di calce. Costruzioni simili, fatti con mattoni crudi, sono testimoniati anche nel mondo fenicio-punico e in Egitto.
Tornando ai palmenti etruschi, questi erano scavati all’interno di affioramenti rocciosi trovati sul luogo, in materiale di origine vulcanica e quindi facilmente lavorabile, come il peperino, il nenfro, la trachite o il tufo. Il materiale usato, molto tenero e facilmente corrosibile anche dagli agenti atmonsferici, ha fatto sì che molti palmenti non siano arrivati a noi, diventati col tempo irriconoscibili nella loro funzione.
Erano formati da una cavità o, più frequentemente, da due, comunicanti per un canale di scolo. L’uva era pigiata a piedi nudi nella vasca superiore, di forma più o meno squadrata e non troppo profonda, col canale di scolo chiuso con argilla. Il pigiato era lasciato riposare e poi si apriva il foro comunicante e si lasciava filtrate il liquido in quella di sotto, più profonda e più piccola, spesso semicircolare. Qui si completava la vinificazione. Il mosto/vino era poi raccolto in otri in pelle o anfore, dove poteva completare la fermentazione. I contenitori in terracotta erano simili a quelli che i Romani chiameranno dolii (dolium, al singolare).
Le vinacce, rimaste nella vasca superiore, erano schiacciate per recuperare il liquido ancora contenuto. I sistemi più primitivi di torchi si basavano semplicemente sullo schiacciamento, fatto con pietre o pezzi di legno appoggiati sopra alle vinacce. In seguito, esse potevano essere spremute in sacchi e ripassate con l’acqua, producendo vinelli leggeri destinati alle classi inferiori (i Romani chiameranno questi vini loria, pratica che rimarrà comune fino alla modernità).
In Grecia sono documentati (su anfore), dal VI sec. a.C., anche dei rudimentali torchi a leva per il vino, fatti da un tronco abbassato dalla forza umana o anche appesantito con pietre. È impossibile trovare resti di questi torchi, perché realizzati con materiali grezzi (le pietre) e deperibili (le parti in legno). Tuttavia, si può presumere che fossero usati anche dagli Etruschi, per sviluppo proprio oppure per influenza greca. La prima reale documentazione di torchi da vino in Italia, di questa tipologia, si deve a Catone, nel II sec. a.C.
I vini erano conservati in contenitori in terracotta, come tutti i prodotti dell’epoca antica. Molto probabilmente si usavano anche otri in pelle, di cui non ci sono rimasti reperti, ma che sono spesso raffigurati.
Intanto l’Etruria venne progressivamente annessa da Roma, in un periodo che va dal III al I secolo a.C. Dall’età tardo-repubblicana in poi, i metodi di produzione di vino in Italia sono ampiamente noti e documentati dagli autori romani.
Compaiono in questa fase i palmenti in muratura, che rimarranno tipici di moltissime parti d’Italia, fin quasi ai nostri giorni. Erano realizzati in pietre o mattoni cementati con malta e poi intonacati con malta impermeabile. L’uva vi era pigiata coi piedi e il mosto era lasciato sedimentare. Poi era fermentato in cisterne in muratura o in vasi di terracotta (dolii), rivestiti internamente di pece ed interrati. In tutte queste epoche non si può escludere a prescindere l’uso del legno, di cui purtroppo non restano tracce.
Il primo mosto ottenuto dalla vendemmia veniva in genere consumato subito, mentre il restante veniva versato in contenitori di terracotta con le pareti interne coperte di resina o pece. Il vino veniva lasciato riposare, schiumandolo spesso, e a primavera era decantato e versato nelle anfore da trasporto. Le vinacce erano spremute in torchi a leva, azionati da funi tirate da un argano. Nelle aziende più grandi, dal I sec. a.C., erano presenti anche grandi torchi a leva e a vite, con grosse pietre che facevano da contrappeso.
Dal I secolo d.C. venne inventato il torchio a vite centrale, più sicuro e maneggevole di quelli a leva, anche se un po’ meno potente. Era realizzato completamente in legno e quindi non ci sono rimasti pressoché reperti. Abbiamo queste informazioni dai documenti, soprattutto dalla testimonianza di Plinio (Naturalis Historia). Per questo viene anche chiamato “torchio di Plinio.”
Il torchio di Plinio farà un salto notevole solo quando potrà passare dagli ingranaggi in legno a quelli in ferro, che avverrà solo nella seconda metà del XIX secolo. In epoca romana e in quelle a seguire il ferro era un materiale molto costoso (senza considerare le difficoltà tecniche di filettarlo in modo regolare). A nessuno sarebbe venuto in mente di usare ferro dove si poteva usare il legno. Solo nell’Ottocento, grazie alla maggiore disponibilità e al minor costo del metallo, si iniziò ad usarlo per gli ingranaggi e poi per tutto l’attrezzo, permettendo l’abbandono definitivo degli ingombranti (e difficili da maneggiare) torchi a leva.
La tecnica di produzione del vino del tardo impero sarà quella che rimarrà sostanzialmente immutata in Italia (e altre zone dell’Impero) per i secoli a venire. Coesistevano i vari sistemi spiegati fin qui, alcuni molto arcaici e altri molto avanzati. Ci possiamo immaginare i grandi proprietari terrieri che si facevano costruire ville all’avanguardia e molto costose. Questi potevano essere imitati dai notabili locali, ma non certo dagli altri piccoli produttori, con minori disponibilità finanziarie, che continuavano a produrre il vino con strumenti semplici e di facile auto-realizzazione.
Quindi, l’uva era pigiata coi piedi in palmenti in pietra o in muratura. Era fermentata in cisterne in muratura o, soprattutto, nei dolii in terracotta. In questa epoca compaiono sempre più i contenitori in legno (documentati) per la pigiatura, fermentazione e trasporto, che diventeranno prevalenti dal Medioevo in poi.
La spremitura era fatta nei vari tipi di torchio descritti sopra, ma prevalentemente con torchi a leva con funi ed argano. Anche se questa era una tecnologia sorpassata, rimase comunque la più diffusa perché era la più semplice e la meno costosa. I più moderni sistemi dei torchi a leva e a vite o a vite centrale, invece, richiedevano artigiani qualificati per realizzarli e legname di qualità, per cui erano presenti solo nelle cantine più ricche.
Dal Medioevo in poi si riprenderanno questi stessi sistemi. Spariranno pressochè i contenitori in terracotta e prevarrà soprattutto il legno. Resteranno i palmenti ed i diversi tipi di torchi. Per cambiamenti veramente sostanziali da questi modelli, dovremo aspettare il XIX secolo.
Nel prossimo post, parleremo invece del vino Etrusco, come era fatto, con quali varietà e come veniva bevuto qui.