Nel corso del Trecento si impose un altro vino orientale di lusso, col nome di Malvasia, commercializzato dai veneziani. Sembra che il nome derivasse dal luogo in cui era stoccato, Monembasia, un porto del Peloponneso, mentre la produzione sembra che avvenisse soprattutto a Creta. La Malvasia era un vino ancora più forte, liquoroso e dolce dei precedenti (si pensa fra i 16° ed i 18° alcolici). Divenne il vino più nobile dell’epoca in tutta Europa. Venne imitato ovunque in Italia. Da qui il lascito delle tante varietà attuali che conservano il nome Malvasia (Malvasia nera, nera di Basilicata, nera lunga, bianca, bianca lunga, bianca di Candia, bianca di Basilicata, di Casorzo, delle Lipari, di Sardegna, di Schierano, Istriana, ecc.). Non hanno necessariamente parentela fra loro. Devono il nome, molto probabilmente, solo al fatto che erano usate localmente per produrre questa tipologia di vino.
Come scritto nel post precedente, quasi tutti i vini italiani fino al Duecento erano anonimi e distinti solo per il colore (il bianco, album, il rosso, vermilium, …), per il sapore (dulce, bruscum, …), dalla zona di produzione (vinum de plano, vinum de monte). Col Trecento, emersero sempre più dei vini locali che si distinguevano per la qualità, anche se non imitavano i vini orientali. Erano vini che non uscivano dal consumo locale, al massimo regionale. Non erano di lusso, ma iniziavano a spuntare costi maggiori, alla portata di persone benestanti. Erano anche i più consigliati nei trattati di medicina, che spesso disdegnavano quelli di lusso perché troppo pesanti e sovraccarichi. Questi vini iniziarono pian piano ad avere un nome, che poteva essere legato alla zona di produzione o altre caratteristiche. Fra questi ricordiamo i diversi Moscatello, prodotti in varie zone d’Italia, il Nebbiolo e l’Arneis piemontesi, il Razzese ligure, il Groppello lombardo, lo Schiavo lombardo-veneto, il Garganigo ed il Marzemino veneti, il Refosco friulano, il Chianti toscano, dalla Campania il Lacrima ed il Fiano, il Gaglioppo del sud, ecc. Alcuni erano una sorta di clonazione locale dei vini di lusso, come la Vernaccia di Cellatica (vicino a Brescia), la Vernaccia di San Gimignano, la Ribolla di Imola, il Greco di Corsica, il Greco di Velletri, la Malvasia e la Vernaccia sarde.
L’alba delle varietà moderne. Non ha grande senso cercare vini e varietà attuali nel Medioevo, anche se a volte si ritrovano gli stessi nomi. In mezzo ci sono troppi secoli e tante probabili trasformazioni. Il Medioevo, come l’epoca antica, fu un momento in cui viaggiavano i vini ma anche molto le varietà, per il Mediterraneo e per l’Europa, con anche la possibilità di incroci con i vitigni locali. Questi scambi sono raccontati, ad esempio, nelle “Trecentonovelle” (1390) di Franco Sacchetti. Si legge che in Italia c’era così tanta voglia di produrre grandi vini che i produttori cercavano di accaparrarsi le migliori varietà di uve da ogni parte, recuperando le barbatelle (magliuoli) direttamente o sfruttando la rete di contatti offerta dalla Chiesa. Sacchetti riporta ad esempio che il nobile fiorentino Vieri de’ Bardi si fece mandare nella sua proprietà di Antella (Bagno a Ripoli) delle barbatelle da Portovenere, con le quali si produceva la celebre Vernaccia di Coniglia. “Tanto è grande lo studio di vino che da un gran tempo in qua gran parte dell’Italiani hanno si usato ogni odo d’avere perfettissimi vini che non si sono curati di mandare, non che per lo vino, ma per li magliuoli d’ogni parte; acciocché ognora se li abbino veduti e usufruttati nella loro possessione, e perché siano stati chierici, non hanno auto il becco torto. Fu, non è molti anni, un cavaliere ricco e savio nella città di Firenze, che ebbe nome messer Vieri de’ Bardi, il quale era vicino al piovano all’Antella, là dove un suo luogo dimorava spesso. E veggendosi in grande stato, per onore di sé e per vaghezza nel suo alcuno nobile vino straniero, pensò di trovare modo di far venire magliuoli da Portovenere della vernaccia di Coniglia“.
Dalla metà del ‘300 ai primi del ‘400 circa, ci furono alcune importanti trasformazioni, che mutarono ancora una volta in modo significativo la geografia viticola italiana.
Da un lato iniziò a peggiorare sempre più il clima, dopo il periodo caldo medievale che aveva favorito il boom della viticoltura. Iniziava quel periodo di freddo chiamato la “Piccola Era Glaciale”, che sconvolgerà tutta l’Europa con una crisi agricola generale. Le prime carestie contribuirono alla diffusione delle epidemie come la Peste Nera che, dal 1348, portò alla decimazione delle popolazioni. La crisi fece diminuire in generale l’agricoltura, fra cui anche la viticoltura. Inoltre, il freddo la fece proprio sparire da tutti quei territori dove il clima era ormai diventato un limite insormontabile.
Il vino fra ubriachezza, beffe e piacere. La Peste Nera, come saprete, fa da sfondo al Decamerone del Boccaccio, da cui ho tanto attinto finora, in quanto è la massima opera medievale che parla molto spesso di vino. Come sapete, il Decamerone è composto da un serie di novelle che un gruppo di giovani nobili fiorentini, sette ragazze e tre ragazzi, si raccontano a turno per passare il tempo nella villa di campagna dove si sono rifugiati per sfuggire al contagio. Nell’introduzione, Boccaccio descrive le bellezze di tale dimora, fra cui le cantine, ricche di vini pregiati che, secondo lui, sono più adeguate a “buoni bevitori che a savie e oneste donne“. Nel Medioevo, le donne di buona reputazione non dovevano mai lasciarsi andare troppo. L’eccesso di vino era comunque deprecato per tutti, sia per la morale che per la salute. Eppure le novelle del Boccaccio sono molto poco moraliste e spesso semi-serie: l’ubriachezza è fonte di inganni o di beffe, mentre le donne intelligenti riescono spesso a vincere le avversità della vita.
La storia di Alatiel. La bella Alatiel, figlia del sultano di Babilonia, viene mandata dal padre in sposa al re del Marocco. Inizia per lei un lungo viaggio per il Mediterraneo, nel corso del quale viene rapita e violata da diversi uomini. Il primo, Pericone, pensa di farla cedere col vino. “Poiché si era accorto che a lei piaceva il vino, a cui non era abituata perché la sua religione le impediva di berlo, pensò di farla cedere, con l’aiuto del vino e di Venere. Una sera la invitò ad una festa e ordinò al coppiere di servirle un bicchiere di vari vini mescolati tra loro. Bevuto l’intruglio, la donna, dimenticando le sventure passate, divenne lieta e vedendo alcune donne ballare danze spagnole, ballò anche lei alla maniera alessandrina. Così trascorse quasi tutta la notte, tra vini e danze. Allontanatisi i convitati, l’uomo, che era molto robusto ed energico, entrò nella camera da solo con la donna, che più calda di vino che di onestà, si spogliò e si coricò.” Alla fine della storia, la ragazza riesce a tornare a casa, ma la sua vita sarebbe stata compromessa da tante disavventure, per la morale del tempo. Riesce però a convince il padre di essere stata accolta tutto quel tempo in un convento e così sposa comunque il suo fidanzato.
Nella novella di Tofano e Ghita, il ricco Tofano è molto geloso della bella moglie Ghita. Il suo tormento spinge infine la donna a corrispondere ad un giovane spasimante. Così Ghita prende l’abitudine di far ubriacare il marito, per far “poi il piacer suo mentre egli addormentato fosse“. Una notte, mentre lei torna da un incontro con l’amante, il marito la chiude fuori di casa per svergognarla di fronte ai vicini. La donna minaccia allora di suicidarsi, dicendogli che poi avrebbero dato la colpa a lui. Favorita dal buio, getta quindi una pietra nel pozzo. L’uomo, preoccupato, corre fuori a guardare. Ghita, svelta, entra in casa e chiude fuori il marito. La situazione si inverte comicamente: Tofano inizia ad inveire ed urlare, svegliando il vicinato, mentre Ghita grida a tutti che il marito si ubriaca sempre e passa la notte nelle taverne. La cattiva condotta di Tofano si diffonde ed arriva anche alle orecchie dei parenti di Ghita, i quali picchiano l’uomo e portano via la donna. Alla fine della storia, Tofano capisce che tutto l’accaduto è partito dalla sua folle gelosia e si pente. Convince la moglie a tornare, con la promessa che lei potrà fare tutto quello che vuole, a patto che lo faccia con discrezione.
Fra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400 ci fu anche un cambiamento epocale nei commerci, chiamato la “rivoluzione dei noli”. Fino ad allora il commercio del vino era limitato ai prodotti più cari, oltre che conservabili, perché i costi di spedizione erano calcolati essenzialmente in base al volume occupato dalla merce sulla nave. Le botti di vino occupano parecchio spazio. In proporzione, costava meno trasportare ad esempio pietre preziose. La rivoluzione dei noli introdusse invece l’uso di calcolare il costo tenendo anche conto del valore intrinseco della merce. Il vino ne trasse un grande giovamento e, di conseguenza, ci fu un aumento importante del suo commercio che divenne generalizzato.
Come detto, fino ad allora la vite si coltivava praticamente ovunque in Italia, per avere vino a disposizione per la comunità e, salvo i prodotti di lusso, il consumo dei vini comuni era essenzialmente locale. Quando i trasporti diventarono più convenienti, tanti più vini cominciarono a viaggiare. Il commercio fu facilitato anche dalla nascita di entità politiche più grandi, anche regionali, il che abbassava il numero dei dazi negli spostamenti e quindi il prezzo finale al consumatore. Inoltre, nelle zone più ricche del Nord e del Centro Italia, ci fu un anche un miglioramento delle strade. Le persone si ritrovarono quindi ad avere a disposizione sempre più un’ampia scelta e si orientarono sempre più sul consumo dei vini migliori, non per forza quelli locali.
Tutti questi eventi contribuirono a mutare in modo importante, ancora una volta, la geografia italiana del vino. La viticoltura si ridusse in generale e, in particolare, diminuì o scomparve da tutti quei territori poco o per nulla vocati. Al contrario, crebbe invece sempre più in quei distretti considerati di maggiore qualità, dove il rendimento economico divenne sempre più rilevante, come la Toscana, l’Oltrepò pavese, i colli veneti, l’Istria, i Castelli Romani, la Puglia, la Calabria, le Langhe, ecc. Non era per forza più necessaria l’alta gradazione alcolica dei vini orientali (o fatti in quello stile), ottenuta per appassimenti o concentrazione. Bastava fosse una buona gradazione, derivata da un territorio vocato alla viticoltura, sufficiente perché i vini si conservassero abbastanza bene, preservandone la piacevolezza ed i profumi.
Aumentando la commercializzazione, aumentò sempre più la necessità che i vini fossero riconoscibili, con identità precise. Non si parlò quasi più solo di vino rosso o bianco (o poco più), ma i nomi dei vini iniziarono a diventare una prassi comune. Derivavano spesso dalla tipologia del prodotto, spesso unito al luogo di produzione o, in altri casi, a quello di stoccaggio o distribuzione, raramente delle uve. Iniziarono ad essere sempre più citati i territori particolarmente vocati, a volte anche le singole vigne di grande qualità. Ad esempio, nel catasto fiorentino del 1427 sono identificate 106 diverse località produttrici di vino intorno alla città.
Non pensiate però che ci fosse una grande chiarezza, come oggi. La situazione era ancora molto confusa, sia per l’epoca che per gli studiosi moderni che hanno cercato di decifrarla, perché con lo stesso nome e provenienza si trovano anche vini con caratteristiche molto diverse fra loro (bianchi e rossi, vini dolci e non, ecc.). Siamo ancora ben lontani da una geografia del vino ben precisa e delineata. Possiamo dire che iniziava a prendere forma.
Nel Quattrocento il consumo del vino era ormai molto evoluto. Si iniziavano a distinguere e conoscere i vini per le peculiarità organolettiche e culturali, oltre che per gli abbinamenti col cibo. Nacquero in quel periodo anche i primi trattati di cucina.
A metà ‘400 crollò l’Impero Bizantino, scomparve il commercio genovese col mondo del Mediterraneo orientale, mentre quello veneziano si ridusse notevolmente. Crollò in parte il prestigio dei vini orientali o orientaleggianti, molto dolci, aromatizzati ed alcolici. Non se ne perse comunque il gusto, soprattutto nei banchetti e nelle cerimonie. Si impose però una nuova tipologia di vino di lusso, quello proveniente da un territorio vocato, secco, non eccessivamente alcolico, bianco o rosso, gradevolmente profumato. Erano vini giovani, in quanto i processi d’invecchiamento torneranno ad essere “scoperti” solo qualche secolo più tardi. Del Rinascimento però parleremo meglio un’altra volta.
… Continua
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