Vinum de vite dat nobis gaudia vite. /Si duo sunt vina, mihi de miliore propina. / Non prosunt vina, nisi fiat repetitio trina. / Dum quartum poto, succedunt gaudia voto. / Ad potum quintum mens vadit in laberintum. / Sexta potatio me cogi abite suppinum.” (Salimbene de Adam, XIII sec.)

Il vino della vite ci dia le gioie della vita. Se ci sono due qualità di vino, dammi del migliore. Non fanno buon pro’ i vini, se non si replica (la bevuta) tre volte.  Alla quarta, al desiderio seguono i gaudi.  Alla quinta bevuta, la mente entra in un labirinto.  La sesta bevuta mi fa cadere supino.” Dalle cronache di Salimbene de Adam (XIII secolo)

Fra la fine dell’Alto e l’inizio del Basso Medioevo, la maggiore stabilità politica ed il clima favorevole portarono a notevoli progressi nell’agricoltura. Le vigne in particolare si allargarono e diffusero sempre più. L’aumento notevole della produzione fece tornare il vino ad essere a pieno titolo la bevanda del popolo in Italia, come già in epoca Romana. Diversamente accadde negli altri paesi europei. Dove la produzione era più difficile o il vino era una bevanda di importazione, rimase ancora a lungo solo appannaggio dei ricchi.

Il vino passò dall’essere un segno di prestigio o una necessità liturgica a diventare anche un’attività economica. Dopo l’anno Mille si diffuse anche la proprietà agricola borghese, in particolare dal XII sec. Per i borghesi produrre vino era il simbolo dell’ascesa sociale. L’aumento della produzione porterà sempre più alla sua commercializzazione, segnando il successo nel tempo di quei territori che si trovavano in luoghi che ne facilitavano il trasporto, come le zone costiere e lungo i fiumi navigabili d’Europa. Andiamo però con ordine.

Dall’ XI secolo circa, una maggiore stabilità politica spinse all’allargamento dell’agricoltura specializzata (viti, ulivi, …) in aree più vaste intorno al villaggio, al castello o alla città. Tra l’XI ed il XIII secolo ricominciarono opere di bonifica e di regimazione delle acque nelle parti più ricche d’Italia, il Nord e diverse zone del Centro. Queste opere erano spinte dai signori feudali, dalle abbazie e poi dai Comuni. Ad esempio, è in questo periodo che vengono gettate le basi del grande lavoro di arginatura del Po e dei suoi affluenti, con lo scavo di canali irrigui e navigabili nella valle Padana. Sempre più si tornava ad un paesaggio agricolo organizzato.

In Italia la viticoltura si diffuse come non mai. Ogni territorio, anche il meno adatto, dedicava una parte importante dei propri terreni agricoli alla vite. La notevole documentazione che abbiamo del periodo, soprattutto fra il ‘200 ed il ‘300, ci dimostra un’incredibile fioritura di vigne ovunque, sia nelle zone periferiche che nei centri delle città e dei villaggi. I vini locali all’epoca erano anonimi, definiti solo per il colore e le caratteristiche organolettiche, oltre che per il tenore alcolico. Erano consumati in modo essenzialmente locale.

La sicurezza e la prosperità portarono all’espansione delle vigne oltre lo spazio ristretto dell’hortus conclusus, il giardino recintato di cui ho parlato nel post precedente. Gli spazi ristretti imponevano la scelta di forme di allevamento strette della vite bassa, come l’alberello, o in filari ravvicinati. Le viti uscirono dai recinti e cominciarono a riconquistare le grandi estensioni delle campagne, trasformazione che si compirà definitivamente col Rinascimento. Nel centro e nel nord d’Italia tornò così a diffondersi la vite alberata, l’antica vite maritata, evidentemente mai del tutto scomparsa. Una forma di viticoltura però non escludeva l’altra. La vite alta e quella bassa coesistevano a volte anche nello stesso territorio, in spazi geografici diversi. Quella bassa spesso stava sui colli, quella alta nel piano. La vite bassa rimase nelle piccole vigne dentro (o a ridosso) delle città delle abbazie o dei borghi. Più ci si allontanava e si entrava nell’aperta campagna, più prevaleva il paesaggio della vite maritata in coltura promiscua con i cereali. Nell’immagine tratta da un’illustrazione del Theatrum sanitatis si vede la vite alberata (la vite maritata etrusca, vitis maritae o arbustum romano).

L’aumento della produzione di vino ridiventò una preoccupazione anche del legislatore. Negli statuti comunali dell’epoca si trovano moltissime disposizioni legate alla coltivazione e gestione delle vigne, alla data della vendemmia, al trasporto, la vendita al minuto e all’ingrosso dell’uva e del vino, a dazi e tariffe. In generale, i regolamenti tendevano a spingere verso una produzione di quantità, in grado di fornire abbastanza vino per il consumo della comunità. Inoltre, gli statuti erano orientati a privilegiare il consumo dei vini locali e rendere difficile l’ingresso a quelli forestieri (vina forensia).

Fino al XII secolo il potere nelle campagne era essenzialmente rappresentato dalla grande proprietà fondiaria, con la sua impostazione feudale. Dalla fine del XII secolo, invece, i Comuni iniziarono ad affermare la loro autorità anche sul territorio circostante. Le legislazioni comunali ridussero o vietarono la servitù della gleba, che venne sostituita con gli affitti brevi e soprattutto con la mezzadria. Il controllo dei Comuni (e poi delle Signorie) sulla campagna comunque rimase sempre parziale: venne concesso ampio spazio alle autonomie locali e alle famiglie aristocratiche o borghesi, che erano strettamente legate al potere cittadino. Nell’immagine, “Fuga in Egitto” di Gentile da Fabriano (1423): da un lato il contado, dall’altro la città, ben separate (in questo caso) dalla montagna al centro del dipinto.

Nel XIII sec. il poeta Cecco Angiolieri scriveva però che era stanco del vino locale (latino) e voleva bere qualcosa di diverso:

“… e non vorria se non greco e vernaccia, / che mi fa maggior noia il vin latino, …”.

La grande disponibilità di vino locale spinse infatti sempre più gli italiani ricchi e potenti a cercare distinzione nei prodotti di lusso, rappresentati allora dagli esotici vini del Mediterraneo orientale, che arrivavano insieme alle spezie, alle sete, ai gioielli e alle reliquie dei santi. Il loro prestigio stava nel costo elevato.

I vini viaggiarono molto dal Duecento in poi, in tutto il Mediterraneo, da e per l’Italia, transitando per i tre grandi empori commerciali del tempo: Genova, Pisa e Venezia. Viaggiava in piccole botti, via mare o fiume, su navi o chiatte. Alla partenza (o all’arrivo), le botti erano trasferite sui carri trainati dai buoi o sulla soma dei muli. Le Repubbliche marinare dominarono a lungo questi commerci, in tutto il Mediterraneo e verso il nord Europa.

Questi vini erano chiamati nei documenti dell’epoca “ultramarini” (oggi diremmo d’oltremare) o “navigati”. Arrivavano al consumatore finale a costi notevoli, sia per il lungo viaggio che per i numerosi dazi che vi erano caricati. Il vino orientale, spesso definito in modo generico anche “vino di Romania”, proveniva dall’Impero Bizantino. In questo gruppo generico più tardi si distingueranno diverse provenienze più specifiche, come il vino di Creta, di Chio, di Lesbo, di Tiro (attuale Libano), … All’epoca questi erano fra i pochi vini che sopportavano viaggi molto lunghi, per via dell’alta gradazione alcolica. Erano bianchi, dolciastri e liquorosi, spesso concentrati per cottura del mosto o appassimenti delle uve, arricchiti di spezie, profumi e miele.

Questi vini esotici, la cui possibilità di acquisto era uno status symbol di ricchezza e prestigio, conquistarono i ricchi del tempo per oltre tre secoli, dal Duecento al Quattrocento. Il loro commercio divenne monopolio dei veneziani dopo la presa di Costantinopoli, nel 1204. Nel corso del ‘200 tale commercio divenne sempre più importante grazie all’allargarsi della platea dei compratori, non più solo nobili ed ecclesiasti, ma anche i nuovi ricchi borghesi.

Genova cercò di contrapporre al monopolio di Venezia vini prodotti nello stile dei vini di Romania. Si trattava delle vernacce liguri e di vini del sud Italia, provenienti da zone rimaste per secoli sotto il dominio bizantino, la Calabria e parte della Campania. Per essi nacque la dizione vino “greco”, che equivaleva all’epoca per “bizantino”, in contrapposizione al vino detto “latino”, prodotto nel resto d’Italia, ma soprattutto con caratteristiche ben diverse. Lo storico Melis ha individuato in Tropea il porto d’imbarco della produzione calabrese, che poi arrivava a Napoli. Qui era preso in carico dai mercanti genovesi e pisani che lo ridistribuivano per tutto il Mediterraneo occidentale, nell’Italia del Nord e oltralpe. Il termine “greco” venne poi usato anche in senso lato, non solo per indicare la reale provenienza geografica, ma per tutti i vini che ne ricordavano lo stile. Questo termine è rimasto in eredità nei nomi di diversi vini e vitigni attuali.

Dall’epoca feudale all’età dei comuni, il paesaggio agrario italiano iniziò a trasformarsi in modo importante. La campagna iniziò a riempirsi di dimore signorili, oltre che di abbazie. Non si pensava però solo al lavoro agricolo ed al valore economico delle tenute, ma si lavorava anche con l’amore per il bello. Iniziò in quel periodo a nascere la grande bellezza della campagna toscana (e non solo), che si compirà col Rinascimento. Nell’immagine, dietro alla scena cruenta di questa opera del Beato Angelico (La decapitazione dei santi Cosmo e Damiano, 1443) si nota un paesaggio dal grande valore estetico.

Anche altri vini italiani iniziarono poi a rientrare fra i più costosi. La ribolla, commercializzata anch’essa dai veneziani, era originaria forse del Friuli o dell’Istria. Era un vino bianco dolce e forte, ma meno di quelli orientali. Il trebbiano era un bianco ancora più secco, di probabile origine toscana, diffuso in molte altre regioni. Inoltre, la vernaccia iniziò ad essere prodotta anche in Toscana.

Come nei casi precedenti, infatti, i nomi di questi vini erano nati da legami geografici ma poi divennero indicativi di una tipologia di vino. Potevano quindi essere prodotti in diversi territori, con le varietà di uve locali. Trebbiani e vernacce furono principalmente commercializzati da genovesi e pisani, poi anche dai fiorentini.

La vernaccia, vino per eccellenza nel Decamerone. La vernaccia è stato fra i primi vini a prendere un nome nel Medioevo italiano, grazie ai genovesi che riuscirono a conferirgli lo status di vino di lusso, capace di competere con i vini di Romania. Il successo fece poi uscire la produzione dai confini liguri, soprattutto in Toscana e in Sardegna. Questo vino è lodato e decantato dai poeti, come Folgore da San Gimignano nel ‘200, e nelle novelle del Boccaccio o del Sercambi del ‘300. Soprattutto è il Boccaccio che la cita di frequente nel Decamerone. Nella novella “Calandrino e l’elitropia”, la vernaccia è il simbolo del puro godimento. Maso racconta del paese del Bengodi, dove le vigne si legano con le salsicce e le montagne sono fatte di formaggio parmigiano grattugiato. Lì si beve solo vernaccia, che scorre pure nei fiumi: “e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua”. Nella novella “Calandrino ed il maiale rubato”, la vernaccia assume un valore quasi magico. Bruno e Buffalmacco, che si divertono a prendere in giro l’ingenuo Calandrino, cercano di convincerlo a fingere il furto del suo maiale, per ingannare la moglie e godersi i soldi della vendita. Visto il suo rifiuto, glielo rubano di nascosto e lo accusano di aver attuato il piano da solo. A questo punto lo spingono ad organizzare una sorta di “ordalia“, quelle prove del più antico Medioevo in bilico fra religione e magia, per dimostrare chi fosse l’autore del furto. Gli fanno credere che sono in grado di preparare dei biscotti allo zenzero incantati, che vanno serviti con della vernaccia, che risulteranno indigesti per il colpevole del furto. Alla prova sono invitati tutti gli abitanti sospetti del paese, ai quali sono serviti i biscotti ed il vino. I due burloni fanno però in modo di far mangiare al solo Calandrino alcuni biscotti resi amarissimi dall’aggiunta di aloe, convincendo tutti della sua colpevolezza. La beffa finale è che il povero uomo è anche costretto a regalare loro due capponi, perché non raccontino nulla dell’accaduto a sua moglie. In un’altra novella la vernaccia dimostra anche capacità curative. Infatti, il brigante-gentiluomo Ghino di Tacco cura il terribile mal di stomaco dell’abate di Clignì con una dieta a base di pane tostato, fave e vernaccia (“Ghino di Tacco e l’abate di Clignì”).

Illustrazione della novella “Calandrino e il maiale rubato”

Continua …

Bibliografia:

 Prof. Alfonso Marini (AA 2020-2021) Dispense del corso di storia medievale.

Pini, Antonio Ivan (2003) Il vino del ricco e il vino del povero. In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 585-598.

Antonio Saltini (1998), Per la storia delle pratiche di cantina (parte 1) enologia antica, enologia moderna: un solo vino, o bevande incomparabili? In Rivista di Storia dell’Agricoltura n.1, giugno 1998.

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