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Come abbiamo già in parte visto nei post precedenti, gli autori agrari romani (qui), in particolare Columella, raccontano in genere di una viticoltura molto pratica e razionale, che nasce dall’esperienza e dall’attenta osservazione dei fenomeni della vigna, come facciamo oggi, pur con i limiti conoscitivi dell’epoca. Nelle opere d’ambito letterario o storico, le descrizioni agricole si mescolano molto spesso ai riti religiosi o alle credenze superstiziose, che erano sicuramente molto diffuse nelle campagne, soprattutto in relazione agli aspetti più difficili da gestire, come la fertilità del suolo e le malattie di cui racconto in questo post.
La contrapposizione fra ragione e superstizione in agricoltura è antica. Mescolate più o meno tra di loro, hanno attraversato tutti secoli e sono arrivate fino a noi, l’era delle bufale e dei falsi miti, che stanno proliferando più che mai per quanto riguarda il cibo e la sua produzione.
Già Catone se la prendeva con i vignaioli che, invece di imparare le tecniche viticole, andavano da astrologi, aruspici o auguri (nell’immagine sotto) per decidere quando iniziare la vendemmia o fare altri lavori, con risultati disastrosi! Anche Columella cercava di persuadere dell’inutilità delle divinazioni o altre superstizioni, come certe pratiche magiche che si facevano nelle campagne.
I riti religiosi di allora sono continuati nelle processioni e benedizioni dei campi del cristianesimo, rimaste in uso nelle nostre campagne fino a non molto tempo fa. Oggi la dimensione religiosa è quasi del tutto scomparsa. Stanno invece emergendo sempre più, in questi ultimi anni, approcci irrazionali che sembravano essere passati definitivamente in secondo piano con l’epoca moderna, ma così non è stato. Fra l’altro, come vedrete, sono molto simili a quelli che erano già deprecati dagli agronomi dell’epoca antica.
Possibile che non sia cambiato niente?
In passato c’era reale ingenuità verso l’irrazionale, il che era spiegabile con l’ignoranza diffusa. Tuttavia l’istruzione generalizzata di oggi sembra non aver cambiato molto la situazione. Sembriamo più che mai in balia di falsi miti, bufale, paure, pratiche pseudo-antiche, ecc.
D’altra parte, posso capire che per molti non è facile difendersi, c’è troppa confusione di informazioni. L’agricoltura è ormai molto lontana dalla vita della maggior parte delle persone (e non parlo di coltivare un orto o un giardino amatoriale). Troppi esperti o pseudo-tali ne parlano con superficialità. Inoltre, un ruolo importante è giocato dal marketing del cibo che, forse a corto di altre idee, sembra cavalcare più che mai paure e storie evocative, contribuendo a consolidare miti o bufale varie.
Direte: che male può fare? Purtroppo molto. Stiamo già assistendo a ripercussioni che, se si continua in questa direzione, diventeranno sempre più importanti, con effetti sulle politiche agricole, le regolamentazioni del comparto, gli indirizzi della ricerca scientifica, ecc. Pensiamo a quelle pratiche o prodotti usati in agricoltura che sono vietati o viceversa osannati per motivi di “pancia” o di mito, più che di reale sperimentazione. In generale, tutto questo rischia di portarci ad uno scadimento generale dell’agricoltura, con influenze sulla qualità e/o la quantità dei prodotti e sul futuro stesso del settore.
Tuttavia, l’ignoranza e la superficialità in agricoltura sono piaghe che esistono da sempre, come ci racconta anche Columella. Nella prefazione al suo De re rustica, già lamentava quanto l’agricoltura fosse sottovalutata. Molti, scrive, attribuiscono l’impoverimento dei suoli ed il declino dell’agricoltura al fato, alle avversità metereologiche o ad altro, mentre quello che manca, spesso, è solo la conoscenza.
Columella ci invita a riflettere sul fatto che, mentre tutti condividono l’idea che serva una buona istruzione per svolgere la maggior parte delle professioni, lo stesso non succede per l’agricoltura, che è pure fra le attività più importanti, perché senza di essa l’uomo non può nutrirsi. Eppure, troppe persone la praticano (o ne parlano, aggiungo io) con leggerezza, solo con conoscenze superficiali. Così l’agricoltura peggiora sempre più e le importazioni dei prodotti diventano sempre più indispensabili.
Sembra scritto oggi!
Veniamo però ai temi della vigna che ci interessano, la fertilità e le malattie, e vediamo come le affrontavano al tempo dell’antica Roma, sia in modo razionale che con la superstizione e la magia.
Fertilità e concimazione
I problemi legati alla fertilità del suolo non sono solo moderni, ma hanno da sempre un ruolo centrale nelle preoccupazioni agricole.
Fin dalle epoche più remote la fertilità era legata ad eventi inspiegabili e quindi collocata nell’ambito del sovrannaturale. Era vista come segno di favore da parte degli dei o, con la sua mancanza, di punizione. Tutti popoli, in tutte le epoche, hanno creato riti religiosi, offerte, sacrifici o pratiche magiche, nella speranza di avere buoni raccolti. Per fortuna però l’umanità non è rimasta ferma solo a questi aspetti: i nostri avi agricoltori, con la capacità di ragionamento e di osservazione legate alla pratica, hanno capito che la terra aveva bisogno di essere “nutrita” con concimazioni perché potesse continuare a donarci i suoi frutti.
Oggi sappiamo che la fertilità dipende da un insieme di caratteristiche del suolo di natura chimica, fisica e biologica. Grazie ad esse il suolo è in grado di fornire (o meno) gli elementi minerali che servono alle piante come nutrimento. La perdita di fertilità dipende da molti fattori. Ogni pianta sottrae nutrienti al terreno in cui cresce, in modo maggiore più la coltivazione è intensa. Inoltre si perdono per fenomeni di lisciviazione (cioè l’azione di trascinamento dovuto all’acqua che passa nel suolo), problemi di compattamento, di erosione, ecc. In agricoltura gli elementi nutritivi devono quindi essere reintegrati in qualche modo.
Tornando alla viticoltura dell’epoca Romana, i nostri autori agrari riconoscevano la grande importanza della concimazione della vigna. Oggi sappiamo che l’ottimale nutrizione delle viti è un fattore essenziale per la qualità del vino. Secondo Columella, la concimazione deve essere “frequente, tempestiva e modica”. Oggi diremmo, qualcosa di simile, anche se più preciso, secondo i principi della viticoltura integrata sostenibile: va fatta in modo appropriato, solo quando e dove serve, in riposta alle esigenze nutrizionali specifiche di ogni particella di vigna.
Catone raccomanda che si usi buon letame, fatto ben maturare, prodotto da pecore o cavalli. Quello bovino all’epoca non era considerato ottimale. Oggi il letame è usato ancora, ma spesso è difficile da reperire, soprattutto nei territori dove mancano gli allevamenti. Allora, come oggi, veniva data grande importanza anche alla concimazione fatta con i resti verdi (tralci della potatura, dei raspi, delle vinacce, erba, …), che formano compost. Oggi sappiamo anche che letame e compost non sono sempre sufficienti. Ne parleremo meglio un’altra volta: è un tema molto complesso.
Se passiamo agli aspetti meno razionali, fra la gente comune delle campagne erano diffuse molte superstizioni e riti religiosi per incrementare la fertilità agricola.
Fra le pratiche magiche della vigna, mi è piaciuta molto l’usanza di appendere ai rami degli alberi delle piccole maschere di Bacco, dette oscilla (oscillum al singolare), che il vento faceva girare. Si credeva che la parte di vigna dove si voltasse la maschera diventasse molto feconda. (Virgilio, Georgiche, II). Mi sembrano installazioni artistiche.
Un’altra pratica magica, molto più esoterica, consisteva nell’impiantare tre corni di capra nella terra intorno alla pianta a cui erano avvolte le viti (qui descrivo il sistema di coltivazione romano tradizionale, la vite maritata all’albero), con la parte cava verso l’alto, di poco sporgenti dal terreno. Si credeva che la pioggia, entrata nelle corna e poi passata nel suolo, avrebbe donato fertilità.
Diversi animali rientravano spesso nei riti propiziatori e di fertilità, tramite sacrifici o attraverso l’uso magico di parti del loro corpo (corna, ossa, ecc.). Gli antropologi parlano di magia per compensazione, perché questi animali erano considerati molto pericolosi per la vigna. Oltre a cinghiali, daini, cervi e caprioli, che danneggiano le vigne anche oggi, allora c’era ancora un grande bovino selvatico, l’uro (Bos taurus primigenius L.). I buoi che lavoravano la vigna erano dotati di museruole, perché non danneggiassero le viti e le altre piante. Un altro grande pericolo, allora, derivava dalle greggi sfuggite al controllo dei pastori. La capra era considerata la nemica principale del vignaiolo. Infatti, non a caso, era l’animale sacrificale per eccellenza al dio Bacco.
Le corna, in particolare, hanno assunto tanti significati simbolici presso diversi popoli ed in varie epoche, fra cui quelli di forza e di fertilità, oltre che di protezione dagli influssi maligni. Il Cristianesimo, per contrasto, le ha messe sulle teste dei diavoli. Oggi, tornano, curiosamente, nelle vigne.
Malattie ed avversità della vite.
Le malattie sono probabilmente l’aspetto più debole dei testi dei Rustici Latini, compreso il grande Columella. D’altra parte in questo ambito non sono sufficienti una buona pratica e capacità d’osservazione. Servono conoscenze più approfondite sulla natura delle malattie e dei parassiti, sulla fisiologia della vite, di chimica, ecc., che arriveranno solo dall’Ottocento in poi. Nonostante ciò, si intravede comunque nei loro scritti un tentativo di ricerca razionale che, seppur debole, mostra qualche spunto interessante.
Come vedremo, anche questo ambito così problematico cadeva facilmente preda delle superstizioni e delle pratiche magiche, che sono spesso figlie dell’impotenza. La vita degli agricoltori dal passato non era di certo facile.
Fortunatamente, i nostri avi romani (e per molti secoli a venire) si sono risparmiati le peggiori malattie della vigna, capaci di mettere veramente in ginocchio i viticoltori. Sono arrivate in Europa solo nell’Ottocento, dall’America: la fillossera, l’oidio e la peronospora.
Non mancavano però le malattie autoctone, che creavano comunque problemi. Tuttavia sono meno distruttive di quelle americane: colpiscono per lo più il grappolo e, salvo casi particolarmente nefasti, possono essere “sopportate” meglio dal vignaiolo (pur perdendo in qualità e produzione). In certi casi possono essere contenute eliminando per tempo i primi segni di infezione, oppure facendo una selezione dei grappoli. A questi links trovate come le affrontiamo noi, con la moderna viticoltura integrata e sostenibile: tignoletta, muffe varie e mal dell’esca, insetti ed altri animali, virus e fitoplasmi.
Per diverse malattie, i Rustici Latini consigliavano l’uso di sostanze che si pensava avessero funzioni “disinfettanti”. Torna infatti spesso l’uso dell’aceto o di impiastri a base di elaterio (Ecballium elaterium L., detto anche cocomero asinino o cocomero selvatico o sputaveleno), con cui strofinare le parti infette. L’elaterio è una pianta selvatica mediterranea, usata in passato per gli effetti purganti, ma abbandonata per l’elevata tossicità. Non mi risulta che questi composti possano essere utili.
Un rimedio ricorrente era l’aspersione delle viti con urina umana vecchia. Noi sappiamo che non serve per combattere le malattie. Tuttavia l’urina apporta azoto, un po’ di fosforo e potassio. Forse veniva consigliata perché si osservava un certo effetto benefico, semplicemente come forma di concimazione. In realtà l’eccesso di azoto è uno svantaggio per certe malattie della vite ma, forse, all’epoca c’erano più carenze che abbondanze di nutrienti.
Per prevenire malattie e problematiche dovute alle gelate o all’umidità, Columella consiglia di accendere nelle vigne dei mucchi di paglia o di spargere cenere calda sulle viti. Ancora oggi, nelle località più fredde, si cerca di evitare i danni dal gelo accendendo fiaccole nella vigna.
Dalle descrizioni degli autori latini non è comunque facile riconoscere le malattie ed i parassiti che sappiamo infestare la vigna, allora come oggi. Sono troppo scarne e vaghe, si possono solo fare ipotesi. Ad esempio, si parla di viti che non emettono frutto, le foglie diventano bianche e si seccano. Dai sintomi sembra una muffa, molto probabilmente la botrite in fase precoce. In questo caso il rimedio consigliato era di sfregare le piante con aceto fortissimo, mescolato a cenere e di versarlo, diluito, sulle radici.
Vengono descritte delle viti malate, con le foglie che diventano rosse (il mal dell’esca?). Consigliavano di trivellare la corteccia e nel buco introdurre un rametto di quercia o una pietra, o chiodi. Non stupitevi: interventi di tagli sul tronco vengono fatti anche oggi, con risultati spesso positivi, perché è una malattia che colpisce i vasi linfatici della pianta ed il legno. Altro consiglio antico era di tagliare le viti inferme vicino a terra, coprirle con un po’ di terra e sterco e da qui ripartire. Anche questo ha un senso, considerando anche che allora le viti erano “franche di piede”, cioè non erano innesti come oggi (per via della fillossera: vedete qui).
Diversi autori citano “bestiole” che creano danni alla vite, che ne erodono i teneri tralci ed i frutti o che alterano le foglie. Catone parla di piccoli bruchi. Plauto, un autore di commedie, ne La Cistellaria paragona un personaggio particolarmente fastidioso all’involvolus, che definisce “bestiam et damnificam, quae in pampini folio intorta se”, “animale malvagio e malefico, che si arrotola nel pampino della vite” (Atto IV, Sc. II, v.63). Plinio parla di un convolvulus e di araneum (più o meno, ragnatela), Columella di volucre. Non si capisce se parlano della stessa o più avversità, sicuramente di insetti o altri parassiti. Alcuni autori moderni hanno pensato di riconoscere in certe descrizioni le forme larvali della tignoletta (o tignole in generale) e gli acari, parassiti molto comuni nelle vigne. Catone consiglia l’uso di un miscuglio di morchia cotta, bitume e zolfo. Quest’ultimo è uno dei prodotti fitosanitari più antichi. Viene usato ancora oggi nella difesa, anche se contro altre malattie (l’oidio). In certe situazioni, può dare effettivamente degli effetti secondari sugli acari.
Altre pratiche, raccontate da diversi autori, sono invece veramente inspiegabili, tentativi ingenui o legati a superstizioni e a credenze magiche. Contro malattie e sfortuna bruciavano o seppellivano in vigna molte cose: corni, pesci, gamberi, piante varie, sterco di capra o di bue. Strofinavano le falci con sangue d’orso o con pelle di castrato, per una qualche azione purificante. Per disinfestare dai topi le vigne più vicine alle case, si consigliava di potare in una notte di luna piena. Qualche cedimento in questo senso sembra esserci anche nell’ultimo libro “Sugli Alberi” di Columella, la cui attribuzione è però incerta. Secondo diversi studiosi potrebbe essere un’opera spuria, forse di un certo Gargilio Marziale (o chi per esso), che copiò ampie parti del noto autore ed introdusse passaggi di suo pugno, di tutt’altro tono rispetto al trattato originario.
Se tutto questo vi sembra strano, sentite come si prepara questo composto, che dovrebbe tenere lontane le malattie della vite. Bisogna raccogliere corteccia di quercia, togliendola dal tronco con una pialla, all’inizio dell’autunno. La corteccia va tritata finemente e con essa si deve riempire il cranio di un animale domestico, passando attraverso il foro alla base (da cui entra il midollo spinale). Si pressa bene e si chiude il foro con un frammento di osso e creta. Il cranio va interrato sul bordo di uno stagno, in presenza di materiale vegetale in decomposizione. In primavera si estrae il contenuto, che viene seccato. Quantità infinitesimali di esso sono poi sciolte in acqua piovana, mescolata con certi movimenti, tre volte a destra e tre a sinistra, …
Quella che ho appena descritto non è una pratica di epoca romana, ma di oggi (fa parte della biodinamica). Assomiglia molto a quelle che erano considerate superstizioni già duemila anni fa. Per altri preparati si devono usare corna di vacca o vesciche di cervo, interrate in notti di luna piena, … Non sono neppure semplici da preparare: per fortuna che ormai si trovano comodamente in commercio, venduti da aziende pronte a soddisfare anche questi bisogni moderni di magia.
Le divinità della vigna
Per risolvere problemi di fertilità o avversità varie, si ricorreva anche all’aiuto degli dei, con riti e sacrifici.
Quando si parla di vino, tutti pensano essenzialmente a Bacco, un dio originariamente legato alla forza della natura ed ai suoi cicli. Comunque, è giunto a Roma solo alla fine del III sec. a.C., arrivando dalla Grecia e passando prima dall’Etruria, innestatosi su culti preesistenti. Lo conosciamo bene, per cui non mi dilungo. Riporto solo quella che mi è sembrata una sorta di preghiera del vignaiolo, scritta da Virgilio all’inizio del secondo libro delle Georgiche:
“Vieni qui, o padre Bacco*, qui c’è il pieno di tutti i tuoi doni, la vigna fruttuosa grazie a te è rigogliosa di pampini in autunno e il vendemmiato schiumeggia nei tini ricolmi;
vieni qui, o padre Bacco, togli i sandali, tingi insieme a me gli stinchi nudi nel mosto nuovo.”
HUC, PATER O LENAEE*, TUIS HIC OMNIA PLENA
MUNERIBUS, TIBI PAMPINEO GRAVIDUS AUTUMNO
FLORET AGER, SPUMAT PLENIS VINDEMIA LABRIS;
HUC, PATER O LENAEE, VENI, NUDATAQUE MUSTO
TINGUE NOVO MECUM DERPTIS CRURA COTHURNIS…
*Leneo è uno dei diversi appellativi di Bacco
In realtà, erano numerose le figure divine a cui si sarebbe potuto rivolgere un vignaiolo dell’epoca romana. Le divinità romane legate alla terra, alla fecondità e all’agricoltura erano tante, con sovrapposizioni e connessioni spesso difficili da comprendere. In origine la religione romana adorava dei numi (numen, al plurale numina) che non erano persone, ma atti della potenza divina, espressioni dei molteplici aspetti dei fenomeni naturali. Fu l’influenza di altre culture (etrusca, greca, ecc.) che li portò, più o meno dalla Repubblica inoltrata, a dare loro forma sempre più umana, storie e gerarchie. Tuttavia l’impronta culturale originaria rimase. Con essa si spiega l’assoluta tolleranza ed assimilazione dei Romani verso le divinità di altri popoli. L’unico limite che ponevano era che il nuovo culto non creasse pericoli sociali o politici. Comunque, con la lucidità laica di molti grandi autori romani, Varrone scrisse che in origine fu adorato ciò che era utile.
A Roma la viticultura era principalmente tutelata da Giove, che aveva stretti legami con la natura e, in particolare, con la vigna. A lui infatti erano dedicate le feste che precedevano la vendemmia.
Un culto legato alla terra è quello della triade Cerere, Libero e Libera. Libera è la Dea Madre, dea della fertilità dei campi. Libero è il figlio-vegetazione che ogni anno muore e ritorna. In altre versioni, Libero e Libera sono i due figli della dea madre Cerere, dea della fertilità e dei raccolti. Libero divenne poi la figura dominante, coll’appellativo di Pater, legato in modo particolare alla fecondità. A lui e a Libera erano consacrati gli strumenti della vendemmia e della cantina. Fu poi assimilato in parte a Bacco. Ricordo poi la Dea Dia o Bona Dea, ancestrale Dea Madre-Terra, rimasta come protettrice dei lavoratori dei campi e della fecondità femminile, moglie di Fauno, dio della campagna, dei pascoli e dell’agricoltura. La dea Tellus presiedeva a tutta la terra, dalle ricchezze agrarie a quelle minerarie ed ai defunti.
Giano è un Dio locale molto antico. Secondo Virgilio (Eneide), era re degli Aborigeni, un popolo primitivo abitante delle alte cime dei monti, a cui insegnò l’agricoltura e la religione. Un altro mito lo descrive come il fondatore di uno dei villaggi da cui nacque Roma, posto sul colle Gianicolo. Più tardi si aggiunse anche la storia della sua accoglienza del dio Saturno, che era stato spodestato da Giove. Il suo arrivo diede il via all’Età dell’Oro, un’epoca di grande abbondanza agricola. In cambio Giano ricevette il potere di vedere il passato e il futuro, diventando il Dio Bifronte, simbolo dell’inizio e della fine dell’anno. Un altro mito racconta che sia stato Saturno a donare il vino al Re Giano.
C’è però una tradizione ancora più antica e locale di Saturno, raccontata da Catone, nella quale è descritto come un dio-viticoltore sceso dai monti Sabini. Ha in moglie Opi, la dea madre-terra sabina, diventata a Roma dea dell’abbondanza agricola. A lui si deve la domesticazione delle piante utili, l’insegnamento dell’arte degli innesti, della coltivazione della vite e dell’apicoltura. Veniva sempre rappresentato con in mano una falce, il simbolo del vignaiolo. Gli si doveva presentare un’offerta di farro intriso di lardo e vino. Altri dei molto antichi e locali erano la coppia Robigo e Robiga, protettori del grano dalla ruggine (una malattia causata da un fungo), invocati anche perché proteggessero la vigna dalle malattie derivate dall’umidità e dalle piogge.
Nei territori soggiogati, le divinità locali rimasero come riferimento principale, come ad esempio la dea-madre Terra Feronia, protettrice dell’agricoltura presso i Volsci, Latini, Marsi, Umbri ed Etruschi. Elvio era il dio dei Sanniti che favoriva la raccolta della frutta e la vendemmia, … Fra le divinità greche assimilate ricordo anche Priapo, raffigurato con un enorme fallo, espressione della sessualità maschile, della fecondità e della fertilità della vegetazione. In Italia il suo culto fu soprattutto legato alla protezione degli orti, delle vigne e dei giardini dai ladri (umani, ma anche uccelli o altri animali), tramite una sua effige posta all’ingresso di essi.
Nelle campagne, fra i più semplici, le più amate e venerate erano spesso le figure divine locali, anche “minori”, ma che i contadini sentivano più vicine. Alle divinità, come quelle elencate finora, aggiungiamo il Genius loci, il genio del luogo, raffigurato come serpente o figura alata (di cui ho raccontato qui) o le Ninfe, legate a fonti o boschi o certi luoghi, …
Inoltre, ogni singola attività agricola, in modo incredibilmente specifico, aveva il suo nume tutelare. Servio ne elenca alcuni: Deus Vitisator (il dio che presiede all’impianto delle vigne), Vervactor (alla fienagione), Reparator (alle riparazioni, sistemazioni dei corsi d’acqua e recinzioni, …), Obarator (all’aratura), Imporcitor (alla semina), Insitor (agli innesti), Occator (all’erpicatura), Sarritus (alla sarchiatura), Subruncinator (alla zappatura per diserbare), Messor (alla mietitura), Convector (al trasporto), Conditor (alla formazione di cumuli di fieno, grano o paglia), Promitor (al disfacimento dei covoni di fieno, paglia o cumuli di grano), ecc.
Il Cristianesimo faticò molto di più a sradicare questi culti contadini locali, diffusi capillarmente nelle campagne, che quelli delle divinità principali nelle città. Ce la fece attuando semplicemente un’operazione di sostituzione: queste figure divennero le figure dei Santi Patroni o i culti di Madonne locali. Allo stesso modo sono sopravvissute molte festività antiche legate al mondo agricolo, assorbite da festività cristiane o diventate fiere agricole tradizionali.
Carlo Levi, confinato in Basilicata dal regime fascista, rimase affascinato dalla scoperta della permanenza di culti arcaici agresti e lo raccontò nella sua opera “Cristo si è fermato ad Eboli” (1945). A proposito del culto di una Madonna Nera, ha scritto:
“La Madonna dal viso nero, tra il grano e gli animali, gli spari e le trombe, non era la pietosa Madre di Dio, ma una divinità sotterranea, nera, delle ombre del grembo della terra, una Persefone contadina, una Dea infernale delle messi.
…
La terra era troppo dura per lavorarla, le olive cominciavano a risecchire sugli alberi assetati; ma la Madonna dal viso nero rimase impassibile, lontana dalla pietà, sorda alle preghiere, indifferente natura. Eppure gli omaggi non le mancano: ma sono assai più simili all’omaggio dovuto alla Potenza, che a quello offerto alla Carità.
Questa Madonna nera è come la terra; può far tutto, distruggere e fiorire; ma non conosce nessuno, e svolge le sue stagioni secondo una sua volontà incomprensibile.
La Madonna nera non è, per i contadini, né buona né cattiva; è molto di più. Essa secca i raccolti e lascia morire, ma anche nutre e protegge; e bisogna adorarla. In tutte le case, a capo del letto, attaccata al muro con quattro chiodi, la Madonna di Viggiano assiste, con i grandi occhi senza sguardo nel viso nero, a tutti gli atti della vita.”
Bibliografia:
“De re rustica”, Lucio Giunio Moderato Columella (60-65 d.C.), tradotto da Giangirolamo Pagani, 1846 (preferisco le traduzioni dell’Ottocento perchè, avendo una viticoltura e tecniche di produzione del vino più simili a quelle antiche delle nostre, sanno spiegare meglio i concetti e trovare le parole giuste. Quelle moderne spesso incappano in errori dovuti alla non conoscenza delle tecniche di viticoltura romane).
“Interventi di bonifica agraria nell’Italia romana”, a cura d Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ed. L’Erma di Bretchneider, 1995.
“Storia dell’agricoltura italiana: l’età antica. Italia Romana” a cura di Gaetano Forni e Arnaldo Marcone, Edizioni Polistampa, 2002
“La viticoltura e l’enologia presso i Romani”, Luigi Manzi, 1883, .
“Storia della vite e del vino in Italia”, Dalmasso e Marescalchi, 1931-1933-1937, .
“Storia del paesaggio agrario italiano”, Emilio Sereni, 1961, .
“Quando le cattedrali erano bianche”, Quaderni monotematici della rivista mantovagricoltura, il Grappello Ruberti nella storia della viticoltura mantovana, Attilio Scienza.
“Terra e produzione agraria in Italia nell’Evo Antico”, M. R. Caroselli.
“Le tignole della vite”, G. Anfora et al., Istituto Agrario di San Michele all’Adige, 2007.
http://narrabilando.blogspot.com/2014/05/culti-pagani-e-culti-cristiani.html