Sulla maggiore calamità della viticoltura: la fillossera (parte 3°)
All’inizio ci fu un disarmo totale (e qui) verso questa vera e propria peste e numerosi studiosi si impegnarono a cercare la soluzione a questo grave problema.
Il governo francese addirittura promise un premio in denaro a chi sarebbe stato in grado di trovare il rimedio tanto sperato. Per la cronaca, date le difficoltà e le controversie, non verrà mai versato. Pur riconoscendo l’apporto fondamentale di alcune personalità, fu in realtà lo sforzo condiviso di un’intera comunità di scienziati, produttori e politici a permettere di superare questo gravissimo e difficile problema.
Intanto il male si propagava. Prima dell’invasione, la produzione francese dell’epoca oscillava fra i 40 e i 70 milioni di ettolitri all’anno. Nel 1879 la produzione scese a 25 milioni. La Francia del Sud fu la prima ad essere invasa, poi si spinse in altre regioni viticole francesi, in Portogallo, Austria, Germania, Svizzera. Nel 1879 fu scoperto in Italia, per la prima volta a Valmadrera (Lecco), e subito dopo in provincia di Milano, a porto Maurizio (l’attuale provincia di Imperia) e in Sicilia, dove dilagò in special modo.
I tentativi furono tanti. Nel libro della nostra biblitoca “La fillossera e le sue invasioni” (1879, edito da Stabilimento Agrario di Enrico Barbero, Torino), c’è una raccolta di articoli del giornale “la Gazzetta di Campagna”, che riportano dettagliatamente i vari tentativi fatti in Francia per trovare una soluzione.
Prima di tutto si tentò di seminare sotto alle viti delle piante che, per proprietà venefiche o per viscosità o per attrattive speciali, potessero uccidere o far fuggire o imprigionare il terribile insetto. Si provarono la canapa, il lupino, il ricino, lo stramonio, la madia, la camomilla, il coriandolo, il tabacco, la belladonna, i ravizzoni, i piretri, diverse euforbie, l’artemisia, la saponaria, la valeriana, la balsamina, l’aglio e altro. Queste piante erano seminate, poi interrate per sovescio oppure erano somministrate in polvere come concimi, unendovi ora il fieno greco, ora il ricino, l’aglio e altre sostanze considerate “acri”.
Si cercarono anche rimedi meccanico-fisici ed agrari. Si era osservato che la fillossera trova grande impedimento nei terreni sabbiosi. Infatti, i vigneti impiantati in questi suoli risultavano immuni al problema. Si arrivò a pensare di insabbiare fino alle radici anche gli altri, ma naturalmente era troppo difficile da farsi oltre che con costi elevatissimi. Si propose di attuare una compressione artificiale dei terreni, per ostacolare il movimento della fillossera in essi, ma si rivelò inefficace. Fu consigliato il rivestimento dell’intera superficie vitata con ciottoli, sia per dare maggiore compattezza al terreno che per impedire il passaggio dalle radici al fusto delle forme sessuate dell’insetto. Con lo stesso fine, si pensò di spalmare i piedi delle viti con catrame o sostante vischiose, pratica abbandonata quando si scoprì che le generazioni sessuali si succedevano tanto sopra quanto sotto terra.
Un metodo che sembrò avere un buon successo fu l’inondazione dei vigneti. Nel periodo invernale, i vigneti vennero sommersi per 2-3 mesi al fine di uccidere tutte le forme di fillossera presenti, sia nel terreno che sui ceppi. Questo sistema fu usato con discreto successo in alcune prove. Era però inapplicabile per i vigneti giovani e in piena produzione (il ristagno dell’acqua compromette la vitalità della vite). Inoltre era impensabile, in generale, per costi e fattibilità. Tuttavia ebbe un discreto successo e a lungo venne considerato uno dei tre metodi ottimali per sconfiggere la fillossera. Addirittura si arrivò a progettare sistemi di canalizzazioni intorno alle vigne per poterlo attuare, con diversi mezzi per pompare l’acqua. Questi progetti rimasero per lo più sulla carta, grazie poi all’introduzione dei portinnesti americani (descritto in seguito).
Si pensò ovviamente anche all’uso di insetticidi. All’inizio si cercarono di fare fori nella vite stessa, per iniettarle tormentina, petrolio, sali mercuriali, acido fenico, arsenico e altro ancora, facendo solo morire le piante. Si cercò allora di eliminare le uova invernali, che si annidano nelle fessure della corteccia, spennellando i tronchi con diversi preparati. La pratica si rivelò inefficace: il ciclo è portato avanti da insetti ibernati nel terreno.
Visto che l’insetto si localizzava nelle radici e lì s’insediavano le forme ibernanti invernali, si pensò di iniettare nel terreno sostanze velenose. Si provò che erano molte le sostanze che potevano ucciderlo ma diverse non erano utilizzabili. Alcune erano troppo pericolose per le persone che le avrebbero dovute maneggiare, altre troppo costose o troppo difficili da applicare. Dopo varie prove, ci si orientò sui solfo-carbonati alcalini, proposti da tale Dumas. Si trovò un buon risultato col solfuro di carbonio, iniettato nel terreno tutto intorno alla vite. Questo metodo, che sarà uno dei più utilizzati per decenni, si sviluppò grazie anche al contributo del farmacista lionese Gabriel-Fernand Crolas. Si misero a punto anche diversi attrezzi per insufflare la terra con l’insetticida, si studiò la definizione delle dosi, come somministrarle e in quante volte… Le immagini seguenti sono prese ancora dal “Course complet de Viticulture” di Gustave Foëx (1891).
Intanto uno sparuto gruppo di tecnici e scienziati, dopo la scoperta della pista americana, iniziò a pensare all’uso delle propietà di resistenza di queste viti all’insetto. Non si poteva certo pensare di utilizzarle per fare vino. Nacque però l’idea di creare delle piante innestate, che mettessero insieme la parte di radice delle viti americane (resistente alla fillossera) e la parte produttiva delle pregiate varietà europee. Lo stesso Planchon tornò dall’America con numerose varietà da studiare. Molte erano già presenti in Francia e numerosi scienziati, fra cui anche il prof. Gustave Foëx di Montepellier e altri, si gettarono sul loro studio. In particolare fu notevole il contributo di Victor Pulliat, fra i primi a proporre l’idea dell’innesto (lo abbiamo già citato in precedenza come autore di uno dei primi trattati di ampelografia francese). Questo studioso fu uno dei più importanti sostenitori della viti innestate, diede un grande contributo allo sviluppo del sistema, nonché ne fu uno strenuo difensore negli anni a venire.
Infatti la via americana non raccolse inizialmente grandi consensi. Per molti anni la grande maggioranza del mondo politico e del vino concentrò sforzi e risorse solo sul metodo chimico. Naturalmente è comprensibile: si preferiva, anzi si sperava, di riuscire a curare le vigne, o per lo meno bloccare l’espansione della malattia, e poter tornare finalmente alla tranquillità.
Non era invece attraente per nessuno la prospettiva di rifare tutti i vigneti, perdere vigne anche secolari, con tutte le problematiche e le spese necessarie. Inoltre c’era molto scetticismo circa la qualità del vino ottenuto. Si temeva che la parte radicale americana, in qualche modo, potesse deprimere la qualità e i profumi del vino prodotto. C’era anche la paura che la resistenza dei portinnesti non fosse così garantita o che la parte europea indebolisse questa capacità. Perchè rischiare soldi e tempo per poi ritrovarsi la vigna di nuovo distrutta?
Tuttavia il metodo chimico mostrava, a chi voleva vederli, i suoi limiti: se è facile irrorare con un prodotto la parte di chioma di una pianta, ben più difficile è riuscire a farlo con le radici. È molto difficile riuscire ad eliminare in questo modo tutti gli insetti, che tornavano ad imperversare anche dopo interventi lunghi e costosi. Inoltre l’iniezione mostrava effetti nefasti sulla fertilità del suolo. Con gli anni questo metodo dimostrò sempre più la sua insufficienza (infatti sappiamo come andò a finire: i vigneti furono poi ricostruiti con le viti innestate). Intanto, però, il metodo chimico fu preferito per diversi anni.
Lo scontro purtroppo si fece anche pesante. Si crearono fazioni contrapposte, l’una detta dei “sulfuristi” e l’altra degli “americanisti“, con una polemica molto accesa soprattutto fra gli anni ‘80 e ‘85. Pulliat e gli “americanisti” erano i bersagli dei molti detrattori. Si arrivò addirittura alla calunnia. Ad esempio, Pulliat venne indicato come il responsabile dell’introduzione della malattia nel Beaujolais. La polemica fu tale che, fra il ‘76 e il ‘78, Pulliat dovette addirittura difendersi in tribunale.
Le leggi emesse dal Governo francese nel ’78-’79 basavano le misure per combattere la fillossera ancora solo sulle solforazioni del terreno. Nel 1979, grazie all’opera indefessa di Pulliat ed altri studiosi (che pubblicarono diverse opere a favore) si riuscì per lo meno a far riconosce le viti americane come uno dei tre possibili metodi per la lotta (con la sommersione delle vigne già citata).
Intanto alcuni produttori iniziarono a seguire gli “americanisti” e cominciarono a reimpiantate le vigne. Vennero creati anche vigneti sperimentali con le nuove piante innestate. All’inizio alcuni inconvenienti tecnici, legati all’inesperienza, sembrarono creare delle insicurezze sulla bontà di questa via. Siccome non si avevano ancora basi sperimentali sufficienti sull’uso di alcuni portinnesti rispetto ad altri a seconda della natura del suolo e del clima, si ebbero inizialmente anche risultati mediocri. La ricerca e l’ottenimento dei migliori portinnesti richiederà ancora molti anni prima di perfezionarsi (ad esempio vedete qui).
Così, fino al 1881, la ricostruzione con le viti innestate avanzò timidamente. Dopo quell’anno però prese più spinta, grazie al miglioramento sperimentale e una maggiore accettazione dei portinnesti. Nel 1881 in 17 dipartimenti francesi erano stati ricostruiti 8.904 ettari. Diciotto anni dopo, in 44 dipartimenti, gli ettari erano saliti a 299.801.
Infatti nel frattempo, grazie all’opera di Pulliat (che diventerà anche professore di viticoltura all’Istituto Nazionale Agronomico di Parigi nel 1884) e altri grandi studiosi (come Foëx, Viala e Planchon), anche il Governo francese aveva iniziato ad appoggiarne lo studio dei portinnesti nei campi sperimentali, lo sviluppo dei primi vivai e l’avvio di scuole pratiche d’innesto. I successi nell’Hérault e nel Midi, dove erano stati piantati i primi vigneti con i portinnesti, portarono dal 1885 ad una sempre maggiore prevalenza degli “americanisti” e all’avanzare sempre più veloce della ricostruzione.
Tuttavia i “sulfuristi” non sparirono del tutto. Alcuni studiosi e produttori portarono comunque avanti le loro convinzioni e l’avversione ai portinnesti. La solforazione e l’allagamento furono, ad esempio, impiegati ancora per anni nelle vecchie vigne dei grandi cru di Borgogna e Bordeaux, che non si vollero ricostruire fino alla fine.
La ricostruzione delle vigne non fu tuttavia alla portata di tutti. Nel 1875 si contavano in Francia più o meno due milioni e mezzo di ettari. Nel 1903, dopo anni di ricostruzione, si era tornati a soli 1,7 milioni.
Nelle aree più colpite, tanti non ce la fecero a ricominciare. Ad esempio nel Cognac la fillossera fece delle vere e proprie stragi. Dai 280.000 ettari del 1865, nel 1893 ce n’erano 40.000, per risalire nel 1928 a soli 70.000.
Intere famiglie furono rovinate, costrette a vendere a basso prezzo i terreni perché non erano in grado di finanziare i nuovi impianti. Le vecchie vigne vennero convertite a foraggio. Molti emigrarono verso l’Algeria, l’Argentina, il Cile, … Altri si spostarono nelle città, che chiedevano braccia a basso costo. Interi villaggi rimasero deserti.
Académie des Sciences et Lettres de Montpellier, 1993, J.P. Legros
“Le Phylloxéra et les maladies de al vigna: la lutte victoriuese des savants et des vignerons francais” par Roger Pouget, Edilivre.
“Victor Pulliat – Prophète en son pays” part Stéphane Guillard, Editions du Poutan, 2012.
http://avis-vin.lefigaro.fr/connaitre-deguster/o33218-l-histoire-du-phylloxera-lattila-de-la-vigne