Sulla nascita dell'ampelografia 3: Scienza e arte insieme per riconoscere le varietà coltivate

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L'Abate Rozier

...eravamo rimasti alle grandi difficoltà, ma la scienza si costruisce a piccoli passi... In questo clima difficile, ma ricco di fermenti, si approda anche a dei risultati.

L’abate francese François Rozier (botanico, scienziato ed erudito in generale) a fine Settecento creò quella che è considerata la prima collezione ampelografica della storia. Realizzò infatti nella sua tenuta di Béziers (nell’Hérault), un vigneto dove aveva piantato molte delle varietà francesi per poterle studiare e per  “permettere ai contadini di riconoscere le varietà coltivate”.

Nascono opere sempre più ricche di descrizioni precise e particolareggiate, arricchite da rappresentazioni grafiche anche di valore artistico.

In Italia ricordiamo per primo Giorgio Gallesio, che nel 1817 scrisse un trattato ("Pomona Italiana") in cui elenca e descrive 26 varietà di vite. Non lo fece in modo proprio scientifico, ma con splendide illustrazioni. Un’altra figura molto importante fu il conte Giuseppe di Ravasenda già citato, che nella sua proprietà della Bicocca di Verzuolo (Cuneo) sperimentò la coltivazione di oltre 3600 specie diverse di uve. Parte del suo lavoro fu pubblicato nel ”Saggio di una Ampelografia Universale” nel 1877 e fu figura di riferimento del progetto ministeriale ”Ampelografia Italiana”, edita fra il 1879 e il 1890.

Gallesio
Giorgio Gallesio

Ricordiamo specialmente (l'anche lui già citato) Girolamo Molon che non si fermava di fronte alle difficoltà e, con la sua opera (”Ampelografia –Descrizione delle migliori varietà di viti per uve da vino, uve da tavola, porta-innesti e produttori diretti”, pubblicata a Milano nel 1906) fu il primo a delineare un quadro abbastanza esaustivo. L'obiettivo principale della sua pubblicazione era quello di fornire una guida pratica per i viticoltori per la scelta delle varietà di vite da utilizzare per la ricostruzione dei vigneti dopo la crisi della fillossera. Molon, come più tardi farà anche Dalmasso, spinse molto per la ricostruzione di vigneti ideati in modo razionale e diede anche grande impulso alla nascita delle attività vivaistiche moderne.

Pomona Italiana
Da "Pomona Italiana" di Gallesio
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Vermentino
Ampelografia di Girolamo Molon
Ampelografia di Girolamo Molon

Il fermento ovviamente coinvolgeva tutta l’Europa. Ad esempio, a metà del secolo il grande agronomo francese Victor Pulliat (noto per il lavoro sulla fillossera) propose un primo modello di classificazione in base al momento di maturazione delle uve, usando come parametro di riferimento l’epoca di maturazione del vitigno Chasselas. Nel 1854 Victor Rendu pubblicò una fra le prime ampelografie francesi : “Ampélographie française comprenant la statistique, la description des meilleurs cépages, l'analyse chimique du sol, et les procédés de culture et de vinification des principaux vignobles de la France” (Ampelografia francese comprendente la statistica, la descrizione delle migliori varietà, l’analisi chimica del suolo e i metodi di coltivazione e di vinificazione dei principali vitigni di Francia). Ricordiamo inoltre la grande opera del tedesco Herrmann Goethe che, fra l’altro, nel 1873 pubblicò “ Atlas der für den Weinbau Deutschlands und Österreichs werthvollsten Traubensorten” (Atlante delle migliori varietà di vite in Germania e Austria) col fratello Rudolf.

Dal'Ampelografia di Victor Rendu, la varietà Poulsard
Dal'Ampelografia di Victor Rendu, la varietà Poulsard

L’opera considerata miliare di questo percorso è la monumentale “Ampèlographie - Traitè gènèral de viticolture” di Pier Viala e Victor Vermorel. Pierre Vialà era docente di viticoltura a Parigi, mentre Victor Vermorel era un industriale, produttore di vino ed inventore di macchine agricole. In realtà l'opera fu compilata solo da Viala (con il supporto di 85 collaboratori). Vermorel ci mise il sostegno finanziario.  I due già si conoscevano: Vermorel aveva in passato già finanziato un avventuroso viaggio del giovane Viala in terra americana alla ricerca di viti (questa storia merita però un racconto tutto suo). L’opera è enorme. Fu pubblicata in 7 volumi tra il 1901 e il 1910.  Descrive 627 varietà di tutto il mondo, ognuna descritta con la sua storia, le caratteristiche di coltivazione e di produzione enologica, i sinonimi e curiosità varie. L’opera è illustrata da 500 tavole cromolitografiche realizzate da 4 artisti (J. TiTroncy, H. Gillet, H. M. Boisgontier, A. Kreyder). Oltre alle varietà descritte, ne elenca altre 25.000.

Pierre Viala
Pierre Viala

Opere più o meno monumentali di ampelografia sono state pubblicate anche in seguito. Ricordiamo “The Ampelografski atlas” (Atlante Ampelografico) di Zdenko Turković del 1953-1960, considerata un’opera letteraria ed artistica. Descrive le 60 varietà più importanti della Croazia, illustrate dall’artista Greta Turković (fra l’altro moglie dell’autore). Incredibile per la mole è l’ampelografia russa pubblicata fra il 1946 e il 1955 in 5 volumi, con oltre 2000 pagine, con foto in bianco e nero. ....(CONTINUA)

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Dall'Ampelografia di Viala - Vermorel

Immagini da:

http://www.pianteinviaggio.it/index.php/it/storie-verdi/item/475-giorgio-gallesio-i-frutti-di-una-vita.html

http://www.gazette-drouot.com/static/magazine_ventes_aux_encheres/coup_de_coeur_enchere/110411_invinoveritas.html

http://www.rivistadiagraria.org/articoli/anno-2012/lampelografia-quando-la-storia-della-vite-incontra-larte-della-tipografia/

Wikimedia Commons: Vermentino (Gallesio)

 


I nostri vini in Brasile

Una bella notizia: i nostri vini sbarcano in Brasile !

Abbiamo iniziato a collaborate con l'importatore:

PORTINTEX COMERCIO, IMPORTACAO, EXPORTACAO E REP. LTDA
EST DE SOROCAMIRIM, 23
18130375 SAO ROQUE


Sulla nascita dell'ampelografia 2: "Le varietà della vite sono numerose come i granelli di sabbia del deserto"

Qui eravamo rimasti all'ampelografia...

Uve di Bartolomeo Bimbi (1700). Il Bimbi creò quella che è una vera e propria "ampelografia visiva" delle uve (e altri frutti) toscani del suo tempo, dietro incarico di Cosimo III de Medici.
"Uve" di Bartolomeo Bimbi (1700). Il Bimbi creò quella che è una vera e propria "ampelografia visiva" delle uve del suo tempo. Pittore della corte medicea a Firenze, fu incaricato da Cosimo III di riprodurre frutti, ortaggi, fiori ed animali,  "perchè ne rimanesse sempre viva la memoria". Le sue opere sono una fedele testimonianza di queste varietà e specie in Toscana alla fine del '600.

La parola ampelografia deriva dal greco e significa la scienza che descrive (grafia) la vite (ampelos), cioè studia, identifica e classifica le diverse varietà della vite.

Le prime indicazioni di nomi di varietà si trovano in autori romani, soprattutto Plinio e Columella. Nel Medioevo alcuni vitigni, quelli più pregiati e che davano origine ai pochi vini di lusso, compaiono in alcuni statuti comunali. Dal Trecento e poi nel Rinascimento compaiono riferimenti a varietà in opere poetiche e letterarie (come non ricordare il “Bacco in Toscana” di Francesco Redi, elenco vertiginoso delle varietà locali, oppure il Poliziano, Boccaccio, ecc..).

La parola ampelografia compare, per la prima volta associata alla descrizione di varietà di uva, nel trattato intitolato (appunto) “Ampelographia” del medico olandese Philipp Jacob Sachs. Tuttavia dobbiamo aspettare la fine del secolo dei Lumi perché parta il processo che porterà alla nascita di una vera e propria disciplina scientifica.

Sulla base della spinta positivista del Settecento e in particolare l’ideazione del metodo di catalogazione scientifica di Linneo, l’Ottocento vide la nascita dell’ampelografia come scienza, ma la strada fu molto lunga e non proprio facile.

Nel corso dell’Ottocento diversi studiosi tentarono vari approcci per gettare le basi di uno studio sistematico delle varietà delle uve. Un notevole impulso derivò, nella seconda metà del secolo, anche dalla diffusione delle malattie “americane” (oidio, peronospora e poi la famigerata fillossera) e la necessità di trovare soluzioni.

Tuttavia il percorso non fu facile: il problema “vitigni” era veramente un affare ingarbugliato. Ci si ritrovava, dopo millenni di incroci e selezioni spesso involontarie, a dover classificare migliaia di varietà, qualcosa che finora era oscuro, senza nome o a volte con troppi nomi, con un vasto intreccio di parentele, somiglianze a volte troppo difficili da distinguere e differenze viceversa non così significative… Virgilio aveva scritto nel I sec. a.C. (con un po’ di enfasi):Le varietà della vite sono tanto numerose come i granelli di sabbia del deserto libico.

Antonio Mendola
Barone Antonio Mendola

Il problema prima di tutto era metodologico. Era necessario identificare quei caratteri determinanti per una catalogazione. Purtroppo però questi non hanno sempre lo stesso valore, alcuni sono spesso difficili a definirsi, molti possono sembrare troppo comuni, altri sono variabili nella popolazione della stessa varietà. Ad esempio, la lunghezza degli internodi, che sembra un parametro chiaro, può essere diversa fra gli individui di una stessa varietà oppure se gli stessi sono coltivati in ambienti diversi.

Per ogni carattere poi bisognava identificare una scala oggettiva, un metodo di rilevazione chiaro ed uniforme, che non dipendesse dall’interpretazione opinabile del singolo osservatore. Per la definizione di caratteri fondamentali e scale di misura si avviarono anche progetti ministeriali, nella seconda metà dell’Ottocento, con la nascita di Commissioni locali.

La difficoltà della materia portò anche a vivaci discussioni fra i diversi ricercatori, a dissidi nelle commissioni di studio, come i contrasti fra i membri della Commissione di Alessandria e il Presidente, l’enologo Luis Oudart, che si possono leggere in “Ampelografia della Provincia di Alessandria” (1875) di DeMaria e Leardi, digitalizzato dall’Università della California.

Un altro grosso problema era dato dalla confusione creato dalla nomenclatura: molte varietà cambiavano anche più di un nome passando da zona a zona. Valeva però anche il contrario: lo stesso nome poteva essere usato, in zone diverse, per indicare varietà diverse.

Conte Giuseppe di Rovasenda
Conte Giuseppe di Rovasenda

 

Infine, gli studiosi sentivano la mancanza fondamentale di una collezione ampelografica vasta e studiata, che permettesse una classificazione sistematica. Le uniche in Italia dell’Ottocento, degne come numero, erano quelle del Barone di Mendola (3000 vitigni) e del Conte di Rovasenda (3700 vitigni) da cui purtroppo non uscirono pubblicazioni, se non parziali, delle osservazioni raccolte.

Alle difficoltà oggettive si aggiunsero anche spinte oppositrici. C’erano quelli che non credevano nell’utilità pratica della nuova disciplina, vedendola come un inutile spreco di tempo. C’erano anche quelli, soprattutto agli albori, che scontrandosi con tutte le difficoltà di una materia così complicata, rinunciavano, ritenendo impossibile questa opera immane. Molon, grande ampelografo, riportò le sue frustrazioni  in  “Lamentazioni ampelografiche” del 1889: “... l’ampelografia in Europa può dirsi ancora bambina, perché un lavoro di sintesi non si è ancora potuto fare. Urge che anche noi ci poniamo all’opera con larghezza di mezzi e tenacità di propositi, perché malgrado le fatiche di pazienti ricercatori, al giorno d’oggi l’ampelografia è un insieme complesso e confuso di nomi, di descrizioni, che non dà soddisfazione allo scienziato, né profitto al viticoltore.” Riferendosi alle Commissioni Ampelografiche italiane scrisse: ... se agli sforzi fatti nei primi anni dalle Commissioni Ampelografiche, non fossero susseguite una indifferenza ed una noncuranza non meno biasimevoli che nocive, si sarebbe di certo poco lontani da questa méta tanto desiderata.

Collezione Rovasenda
Collezione Rovasenda

Tuttavia gli ampelografi sanno che la loro materia non serve solo a creare elenchi e classificazioni sterili ma è un mezzo fondamentale per migliorare la viticoltura in generale. Solo così è possibile capire quali siano le varietà e gli individui migliori per quel determinato territorio e quali quelle mediocri da abbandonare. Chi ci crede porta avanti il suo lavoro con passione. Questo è il contesto difficile in cui nasce la celebre frase di Jules Guyot: “Il genio sta nel vitigno ! ” (che Dalmasso giudica frase troppo assoluta ma sicuramente vera a metà).

Corsi e ricorsi storici: Columella scriveva in epoca romana:

Perché mai, dunque la vigna è così poco stimata? Non per colpa sua… ma per colpa degli uomini: prima di tutto perché nessuno mette cura nell’esaminare i vitigni”.

....(CONTINUA qui e qui)

Girolamo Molon
Girolamo Molon
Dall'Ameplografia del Molon: Marzemino
Dall'Ampelografia del Molon: Marzemino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le immagini sono prese dai seguenti siti (se qualcuno ritenesse l'uso inappropriato, mi scriva a info@guadoalmelo.it che provvederò a cancellarle):

http://www.corrieredisaluzzo.it/cgi-bin/archivio/news/Rovasenda_il_signore_delle_viti.asp

http://www.oicce.it/sito/ot/ot22/ot22vigna.html

http://www.favara.biz/memorie_storiche/personaggi/personaggi_vari/mendola_antonio.htm

http://biodiversita.provincia.vicenza.it/present/pr_vitis.htm

Immagine del Bimbi: commons.wikimedia.org


Intervento di Michele alla Scuola Superiore Sant'Anna sul miglioramento genetico della vite

Michele è stato invitato a tenere una “lezione” alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa in relazione ai progetti di ricerca portati avanti da Guado al Melo in questi anni. In particolare, ha spiegato alcuni concetti alla base della genetica e della selezione della vite. Ha presentato all’assaggio alcune varietà di uva a bacca rossa coltivate nel nostro vigneto-collezione e micro-vinificate per scopi di studio. Ringraziamo l’Istituto Sant’Anna dell’invito e in particolare il prof. Piero Tonutti e il rappresentate dell’Associazione degli Allievi Marco Zito.

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Michele con gli organizzatori: da sinistra Alessandro Balducci (AIS) , Michele Scienza, prof. Tonutti e Marco Zito

Sulla nascita dell'ampelografia 1: Nella "folla oscura, sovente anonima" delle varietà di uva da vino

Appunti di storia della viticoltura:

Nella "folla oscura, sovente anonima" delle varietà di uva da vino

La copertina

Ora ci sembra quasi banale parlare di vitigni: quando descriviamo o chiediamo spiegazioni su un vino è spesso la prima cosa a cui si pensa. Se però torniamo indietro nel tempo, scopriamo che nel passato non era così scontato e che la transizione in questo senso è relativamente recente.

 A questo proposito è molto interessante il volumetto di Giovanni Dalmasso, Uve da vino – vitigni rossi (ed. Federazione   italiana dei consorzi agrari  - Piacenza – 1931) che fa parte della nostra biblioteca.

Dalmasso (grande scienziato italiano, docente di viticoltura, ricercatore e scrittore) in poche pagine, in un testo essenzialmente divulgativo, fotografa benissimo questo grande cambiamento in atto, le problematiche e le difficoltà.

Siamo negli anni Trenta e Dalmasso scrive il libro per presentare alcune delle varietà di uve rosse che reputa fra le migliori per la produzione di vini rossi in Italia. Il suo fine è quello di intervenire in modo radicale nel mondo produttivo italiano a causa della grave crisi vinicola in atto.

La crisi è dovuta ad una produzione eccessiva di vino ed una concomitante riduzione dei consumi. Il problema non è solo italiano ma mondiale. Dal 1900 al 1929, riporta, la superficie vitata mondiale è aumentata di quasi mezzo milione di ettari e la produzione per ettaro è aumentata in tutto il mondo. Viceversa il consumo è diminuito: si è arrivati a una media di 55 litri a testa all’anno (oggi il consumo in Italia è sui 35 litri a testa, in alcuni paesi poco più di 40). Dalmasso invoca la necessità di una soluzione radicale e risolutiva. L‘autore ricorda come le crisi da sovraproduzione vinicola si sono ripetute sovente nella storia e ogni volta l’unica soluzione proposta è stata la riduzione delle superfici vitate. Da Domiziano in poi, ricorda Dalmasso, lo stesso imperativo è ricomparso: ”Meno vino e più pane!” Tuttavia, in Italia la vite è troppo preziosa por poterla diminuire senza ripercussioni sull’economia generale del paese e sulla vita dei vignaioli.

Secondo Dalmasso, piuttosto che estirpare vigneti, sarebbe meglio cercare di impedire ulteriori estensioni e, nello stesso tempo, cercare di migliorare la qualità del vino, riducendo quindi la resa produttiva. Tuttavia la strada è lunga e la fotografia che fa della produzione vinicola del suo tempo è impietosa: a parte poche situazioni, la qualità dei vini è molto scarsa. Nonostante le migliorie del settore degli ultimi decenni, la viticoltura italiana è scarsa in innovazione, cristallizzata sul passato.

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Secondo Dalmasso una delle più gravi cause di debolezza del vino italiano è da imputare alla bassa qualità dei vecchi vigneti. Sono fatti in modo confuso: accanto a vitigni di pregio si mescola una “folla oscura, sovente anonima” di varietà scadenti o poco produttive o di pessima qualità. Tutte queste uve vengono poi vendemmiate insieme, oltretutto alcune ben mature e altre quasi acerbe. La situazione è desolante: per questo (e altri motivi) la maggior parte dei vini italiani sono mediocri. I costi di produzione sono alti ma data la scarsa qualità si spuntano prezzi modesti che in anni difficili diventano addirittura disastrosi. Di qui la necessità di svendere o di avviare alle distillerie e agli acetifici una parte della produzione vinicola. Solo pochi produttori illuminati, che hanno saputo rinnovare le loro vigne, hanno mostrato un miglioramento notevole.

È quindi necessaria la ristrutturazione delle vigne d’Italia. In questo senso potrebbe quasi diventare un’importante occasione di rinnovamento la grande crisi della fillossera (evidentemente negli anni ‘30 non si era ancora superato del tutto il problema, anche se il rinnovo delle vigne era iniziato con la fine dell’Ottocento). La ricostruzione delle vecchie vigne distrutte potrebbe essere l’occasione di questo grande cambiamento.

Tuttavia Dalmasso sottolinea come non sia solo la scelta varietale a dare qualità. Deve cambiare anche l’impostazione produttiva generale, le forme di allevamento, le potature, ecc.. Inoltre, l’introduzione di nuove varietà su larga scala avrebbe bisogno prima di sperimentazioni adeguate, per verificare l’adattamento a quel determinato territorio. Lo stesso vale per le esigenze colturali: anche un buon vitigno può dare risultasti mediocri se coltivato in modo improprio.

Questo libro ci apre gli occhi su un momento fondamentale di quello è stato il grandissimo cambiamento della viticoltura italiana. Pochi illuminati stanno seguendo o seguiranno a breve questa via. Mi viene spontaneo pensare al primo grande motore del risorgimento della viticoltura del nostro territorio: Mario Incisa della Rocchetta. Pochi anni dopo questo libro, si parla degli anni ‘40, sicuramente ispirato dal fermento rinnovatore del suo tempo, fu fra quei pochi che dedicò anni di lavoro e sperimentazione alla ricerca di varietà più adatte al nostro territorio, per andare oltre alla massa anonima usata fino ad allora.

All’epoca in cui scrive Dalmasso, le varietà hanno già iniziato ad avere nomi, personalità ed esigenze colturali definite. Eppure il mondo produttivo fa molta fatica ad accogliere questi cambiamenti e ci vorranno ancora molti anni prima che siano recepiti in modo diffuso.

La spinta all’innovazione del primo Novecento italiano trova le sue basi nella nascita recente di una disciplina fondamentale in questo senso (e a cui lo stesso Dalmasso dà un notevole contributo): l’ampelografia.

Tuttavia la sua nascita non fu facile .... (CONTINUA qui  qui e qui)

 

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La presentazione del nuovo catalogo di Cuzziol Grandi Vini

Mario Affinita del Ristorante Don Geppi presso Majestic Palace Hotel – Sorrento (NA)
Mario Affinita del Ristorante Don Geppi presso Majestic Palace Hotel – Sorrento (NA)

Domenica e lunedì scorsi c’è stata la presentazione ufficiale del catalogo di quello che è diventato il nostro nuovo distributore per l’Italia: Cuzziol Grandi Vini. Ho partecipato alla manifestazione a Conegliano per presentare me stesso, la nostra filosofia di lavoro ed i vini agli agenti e ai clienti di Cuzziol intervenuti.

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L’evento è stato molto bello, organizzato in modo impeccabile. Inoltre ho trovato notevole affinità con Luca Cuzziol, Paolo Leone e gli altri collaboratori, che hanno capito subito il nostro modo di lavorare legato al territorio, all’artigianalità del prodotto, oltre che ai nostri discorsi su una sostenibilità a 360 gradi. Hanno saputo apprezzare i nostri vini assolutamente non banali, la loro cura e l’originalità nell’ambito del territorio di Bolgheri. Da parte mia, esco sempre arricchito dall’incontro e dal confronto con persone di questo settore di grandissima professionalità (e a Conegliano ce ne erano tante).

Alcuni chef ci hanno deliziati anche con i loro piatti (e questo è il lato godereccio di queste giornate….). Sono stato contento (ed orgoglioso) che Luca Cuzziol abbia deciso di ringraziarli donando loro una magnum del nostro Bolgheri Superiore, l’Atis 2013 (a sue spese). È stato il segno tangibile della stima reciproca che è alla base di questa nuova collaborazione.

Michele Scienza

Andrea Campani – chef de Osteria del Borro – San Giustino Valdarno (AR)
Andrea Campani – chef de Osteria del Borro – San Giustino Valdarno (AR)
Eros Buratti – affinatore formaggi e titolare de La Casera – Verbania-Trobaso (VB)
Eros Buratti – affinatore formaggi de La Casera – Verbania-Trobaso (VB) e Luca Cuzziol
Remo Capitaneo ed Enrico Bartolini del Ristorante Enrico Bartolini – Milano
Remo Capitaneo ed Enrico Bartolini del Ristorante Enrico Bartolini – Milano

 

 

Aniello Falanga, pizzaiolo de Haccademia – Terzigno (NA)
Aniello Falanga, pizzaiolo de Haccademia – Terzigno (NA)
Luca Cuzziol con Lionello Cera, chef de Antica Osteria da Cera – Lughetto di Campania Lupia (VE)
Lionello Cera, chef de Antica Osteria da Cera – Lughetto di Campania Lupia (VE)

L’evoluzione del nostro Guado al Melo Bianco: nasce Criseo Bolgheri DOC Bianco.

 

Criseo piccolo

Con la nuova annata 2015 il nostro Guado al Melo Bianco diventerà Criseo Bolgheri DOC Bianco.

Criseo è il frutto di un percorso importante che ci ha portati a produrre un bianco d’invecchiamento di notevole spessore in una terra di grandi vini rossi. Abbiamo tracciato una nuova strada di grande qualità a Bolgheri.

 

Questo vino è nato con l’azienda stessa, a causa della nostra passione per i grandi vini bianchi da invecchiamento. Ormai sono passati quasi quindici anni: è nato infatti con la nostra prima vendemmia, nel 2002.

Eravamo pionieri a Bolgheri per un vino di questo tipo, oltretutto basato sul Vermentino, uva da cui non volevamo discostarci per il legame antico che ha con le nostre vigne (ma usato localmente solo per produrre vini giovani). Abbiamo sperimentato e provato a lungo. Questo ci ha fatto procedere con circospezione, decidendo di declassarlo tutti gli anni a IGT Toscana fino a quando non ci saremmo sentiti pienamente sicuri di una qualità eccelsa e consolidata.

Michele ha subito intuito che il Vermentino avrebbe avuto bisogno di un piccolo blend che lo supportasse nell’invecchiamento. Soprattutto serviva per integrare l’acidità, notoriamente carente in questa varietà ma fondamentale in un vino strutturato (perché ci siano comunque equilibrio ed eleganza). Nel 1998 piantò un'unica piccola particella (non è una grande produzione, circa 4000 bottiglie l’anno) con le proporzioni desiderate di Vermentino (circa 80%), Verdicchio, Fiano, Incrocio Manzoni, Petit Manseng e Vionier. Quest’ultimo è stato eliminato (sovrainnestato) dopo pochi anni, in quanto la sua aromaticità così spiccata ci sembrava troppo pesante e sovrastante tutto il resto.

L’affinamento ora è fatto in acciaio per un anno, sulla feccia fine, e poi in bottiglia. Per i primi anni una piccola parte di mosto (circa il 15%) era affinato in legno (non nuovo). Abbiamo però abbandonato totalmente il legno dopo pochi anni.

Infine Michele ha lavorato molto sul capire i momenti migliori di raccolta (in modo che ogni varietà raggiungesse la maturazione ideale) e sulla vinificazione. Ha fatto numerose sperimentazioni negli anni, procedendo in parallelo con fermentazioni separate e combinate delle diverse varietà. Ha potuto così capire come queste variabili influissero soprattutto e in maniera importante sull’espressività aromatica primaria e poi evolutiva di questo vino, fin quando non ha trovato la via che maggiormente lo convinceva.

Ebbene dopo quindi anni di intenso lavoro, dopo anni che hanno dimostrato che la qualità raggiunta fosse ormai consolidata, dopo aver prodotto uno storico sufficiente di cui abbiamo seguito l’evoluzione in bottiglia, ci siamo sentiti finalmente di fare il grande salto: dall’annata 2015 il vino non sarà più declassato ad IGT ma uscirà come un grande Bolgheri DOC Bianco.

L’evento richiedeva giustamente un po’ di celebrazione e allora siamo passati ad una nuova bottiglia dalle forme sinuose, un nuovo nome evocativo, una nuova scatola dedicata.

Satiro danzante. Nella mano sinistra ha il kantharos, coppa per bere vino simbolo stesso di Bacco, e nella destra uno strumento a sonagli.

L’etichetta invece non cambia, col suo giallo intenso e i bei satiri danzanti. Criseo significa “fatto d’oro”, per richiamare il colore dorato del vino e quella mitica Età dell’Oro a cui gli antichi aspiravano. Si pensava che i doni di Bacco all'umanità (il vino, la musica e la danza), rappresentati in etichetta, permettessero addirittura di accedere alla visione dell’Età dell’Oro (Aurea Aetas), quel periodo mitico e felice, sotto il regno di Saturno, in cui ancora non esisteva la corruzione del tempo, il dolore e la fatica.

I satiri danzano a piedi nudi. In antichità denudare i piedi era un atto sacro, necessario per entrare in contatto con la Terra e le sue presenze.


Chiusura natalizia

Saremo chiusi per ferie nel periodo natalizio dal 24 dicembre al 8 gennaio compresi. Buone feste a tutti.


E' nata la FIVI Toscana, l'associazione dei Vignaioli Indipendenti locale

È nata proprio in questi giorni la "costola" toscana della FIVI.

FIVI sta per Federazione Italiana dei Vignaioli Indipendenti, associazione a cui aderiamo da diversi anni.

Questa nascita scaturisce dalla necessità, sorta fra alcuni soci toscani, di avere la possibilità di affrontare problematiche più locali: infatti ci sono diversi aspetti del mondo vitivinicolo che hanno base regionale e che un'associazione nazionale non può (ovviamente) essere in grado di seguire. La spinta è venuta anche dalla voglia di un confronto più diretto con i propri "vicini", scambi di idee,  proposte ed esperienze che avvengono più facilmente e velocemente nel piccolo. Poi dal locale queste idee possono essere portare all'associazione nazionale (pur restando il fatto che ogni socio può rappresentare comunque se stesso in modo indipendente presso la FIVI "madre").

Per sottolineare l'assoluta aderenza all'associazione originaria, si è deciso che può iscriversi a quella toscana solo chi è già socio della FIVI nazionale, quindi valgono le stesse regole di ammissione ed obiettivi. Naturalmente non vale il viceversa (c'è chi può decidere di essere iscritto o iscriversi all'associazione nazionale e decidere di non aderire a quella locale).

La Toscana è comunque la prima regione ad organizzarsi in questo senso e sicuramente (speriamo) farà da apripista per le altre regioni. Intanto deve ancora partire e crescere: ci auguriamo che sia una esperienza positiva come per l'associazione originaria.

Tutto questo avviene in un momento molto importante per la FIVI che nell'ultimo periodo ha visto crescere in modo vertiginoso i propri iscritti.

Non poteva essere altrimenti: una parte rilevante del vino in Italia è prodotto da aziende di vignaioli indipendenti (intesi come aziende di piccole-medie dimensioni che seguono personalmente la produzione, dalla vigna fino alla bottiglia finita). Nonostante questo finora era una categoria senza voce, con la politica del vino dominata dai grandi gruppi e dalle cooperative.  FIVI è nata come la voce di noi vignaioli e ha già ottenuto alcuni traguardi importanti (anche se la strada è ancora lunga e tortuosa).

Non sottovalutiamo cosa è FIVI e cosa è riuscita a fare finora. E quello costruito fino ad adesso deve essere mantenuto perchè niente è scontato e i traguardi raggiunti possono dissolversi senza l'impegno di tutti.

FIVI è riuscita a tenere insieme tante anime diverse, tutti uniti intorno alla figura del vignaiolo indipendente, senza porre paletti alla filosofia produttiva che ognuno ha deciso di seguire. Questo non è affatto banale. Il grosso rischio (all'italiana, diremmo) è di chiudersi ciascuno nella propria piccola "parrocchia", utile magari sul piano promozionale o altro ma poco influente su quello politico. Senza unità  saremmo anche senza voce (dove conta).

Tutti noi vignaioli puntiamo ad una produzione di eccellenza, fatta nel rispetto della Terra e dei nostri clienti finali. Tuttavia possono esserci diverse vie per cercare di arrivare alla meta. Tutti noi crediamo profondamente in quella che abbiamo scelto ma è anche importante cercare di mantenere la mente aperta, senza chiudersi in posizioni intransigenti verso scelte diverse, fatte con onestà e che puntano nella stessa direzione.

Per questo ringraziamo di cuore i primi che  hanno creduto e costruito la FIVI con questi principi. Pensiamo a quelli che conosciamo e stimiamo personalmente, come Walter Massa e Mario Pojer, e anche tutti gli altri che hanno già dimostrato grande impegno ed abnegazione, come ad esempio l'attuale presidente Matilde Poggi e gli altri soci operanti.


Guado al Melo News 2016 ricordi di un anno

Ecco sotto il file in PDF del nostro Guado al Melo News 2016. Buona lettura! (E' in italiano, inglese e tedesco).

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Asta dei grandi vini di Bolgheri a favore dei terremotati

Sabato 10 dicembre alle ore 17,00 a Bolgheri si terrà un’asta di beneficienza a favore delle popolazioni terremotate. Saranno battute bottiglie di vini del territorio, offerte dalle aziende che producono nella Denominazione Bolgheri. Naturalmente ci saranno anche i nostri vini, nello specifico il nostro Atis Bolgheri Superiore sia nel formato Magnum che da 750 ml.

Maggiori informazioni sul sito del Comune: http://www.comune.castagneto-carducci.li.it


Quindici vendemmie a Guado al Melo

Guado al Melo vede col 2016 la sua quindicesima vendemmia. Tutti insieme abbiamo festeggiato l'avvenimento nel consueto pranzo finale.


I mutamenti del paesaggio di Castagneto nella storia

Proprio nel pieno del dibattito in Toscana su paesaggio e agricoltura, mi è capitato di legge uno studio* dell’Università di Firenze sui cambiamenti del paesaggio agricolo di Castagneto. Leggerlo mi ha fatto riflettere su come spesso si conosca molto poco la vera storia del territorio e come spesso si creino suggestioni che hanno poco a che fare con la realtà.

(* “Paesaggio rurale e sostenibilità: studi e progetti. Il ruolo del vigneto nel paesaggio di Castagneto Carducci fra l’Ottocento e l’attualità”, M. Agnoletti, S. Paletti, DISTAF – Facoltà di Agraria – Università di Firenze.)

Lo studio investe ben due secoli di storia locale. I ricercatori hanno potuto risalire fino ai primi anni dell’800, seguendo le modifiche fino ai giorni nostri, fotografando a confronto, in particolare, tre momenti storici: il 1820, il 1954 e l’attualità.

Innanzi tutto questo studio dimostra quanto sia cambiato il paesaggio di Castagneto e non solo negli ultimi anni. Seguire l’evoluzione di un territorio fa riflettere su come tutto scorra in modo inesorabile per dinamiche strettamente connesse alla storia delle gente che abita quelle terre e, anche, per cambiamenti economici più vasti.  Il territorio è in continuo movimento e non esiste un cliché prestabilito che faccia da riferimento immobile (all’Ottocento? Agli anni ’50?), a meno che non lo si voglia imporre con un atto del tutto arbitrario.

Ma allora cosa qualifica il paesaggio? Semplicemente la sua storia e la storia è data dai cambiamenti umani ed economici, da flussi spesso ingovernabili e impossibili da stabilire a priori. Certo qui si parla di evoluzione in agricoltura, non certo di abbandonare il territorio alla cementificazione selvaggia o altro.

La situazione attuale di Castagneto.

Infatti, dallo studio emerge che il Comune di Castagneto sia caratterizzato ancor oggi da una forte connotazione agro-forestale, nonostante le varie spinte (che ogni tanto riemergono) di urbanizzazione legate al turismo balneare. Anzi, gli autori sembrano suggerire che forse proprio il successo del vino Sassicaia (e il conseguente nuovo impulso al settore agricolo) ha salvato il territorio da una cementificazione troppo dissennata.

D’altra parte questo impulso ha anche introdotto un cambiamento paesaggistico evidente. Eppure i numeri rilevano che la viticoltura non è la monocultura dominante del territorio, anche se è quella che ha avuto il maggior incremento nei tempi recenti: su un totale di 5.890 ha (terreno agricolo) il 56% è dominato dal seminativo, seguito dall’ulivo (21,28%) e poi dal vigneto (18,77%).

I vigneti caratterizzano in modo importante alcune aree della zona pianeggiante, in modo meno rilevante quella collinare. A parte qualche singola situazione, in generale hanno un’estensione media abbastanza bassa (corpi unici di poco più di 7 ha), inframmezzati da altre colture, boschi o almeno da filari di ulivi, salvaguardando in genere una certa variabilità paesaggistica.

Oggi il vigneto ricopre 1105,5 ha di superficie, con un incremento dal 1954 di ben 11 volte ma di solo 7 volte rispetto al 1820 (il 1954 fotografa il minimo storico toccato dalla viticoltura a Castagneto, periodo problematico per la vite anche in tutta la Toscana, se non l’Italia intera).

Questo cambiamento è notevole ma non è comunque il primo. Seguendo la storia locale ci si accorge che ci sono stati mutamenti anche più importanti sul territorio, cambiamenti oggi accettati e considerati ormai come tratto tipico del paesaggio locale.

 

I grandi mutamenti del paesaggio.

Per via della palude (Maremma) nella zona pianeggiante verso il mare, le popolazioni locali per secoli hanno vissuto strettamente nella zona delle colline, dominate da boschi e da pascoli. Fino quasi all’Ottocento non ci sono state grandi variazioni: l’economia era per lo più legata alla pastorizia e all’uso dei boschi (legname e pascolamento animale), con poca agricoltura promiscua ristretta intorno ai nuclei abitati.

L’Ottocento ha visto l’aumento dei poderi collinari, quindi delle superfici agricole. Dal 1820, col calo dei prezzi del grano, vi fu un incremento della viticoltura, che da elemento marginale divenne complementare, occupando l’11% delle terre coltivate.

Dalla seconda metà dell’Ottocento iniziarono le bonifiche della palude (l’Alta Maremma), che permisero la progressiva colonizzazione della pianura litoranea.  L’interesse economico ed abitativo si spostò sempre più verso di essa, incidendo in modo significativo negli equilibri di collina fra territorio coltivato e quello boschivo.  Infatti in questa fase (1820-1954) i boschi si riappropriarono delle colline  via via “abbandonate” dall’uomo, riconquistando il 54% della loro superficie, a discapito di pascoli e aree coltivate. A questo fenomeno si accompagnò una progressiva diminuzione della viticoltura, a vantaggio della crescita esponenziale dell’ulivo in monocultura (+300% in tutta la provincia di Livorno).  Dal secondo dopoguerra la pianura era dominata dalle grandi estensioni dei cereali, dei frutteti e degli uliveti. La viticoltura raggiunse nel 1954 il suo minimo storico, con soli 7.8 ettari censiti, diminuita del 77% rispetto all’Ottocento.

La rimonta della vite ha le sue radici negli esperimenti del Marchese Incisa iniziati dagli anni ’40, ma vede un grande incremento solo con gli anni ’80 e, soprattutto, ’90 e primi del 2000. Arriva così a crescere di 11 volte rispetto al 1954, ma solo 7 volte di più del 1820.

 

Conclusione.

Sicuramente l’incremento della viticoltura, soprattutto degli ultimi 30 anni, ha inciso sul territorio di Castagneto. Non è il primo (ne sarà l’ultimo) dei cambiamenti di questo territorio.  L’agricoltura è un fattore economico, deve dare reddito e lavoro per sussistere. Nel tempo cambiano le condizioni e cambiano anche le colture redditizie.

Questo non può certo far passare sopra ad altri problemi reali, che sono comunque al primo posto anche per lo stesso mondo del vino.  La sostenibilità è ormai imprescindibile per il presente e il futuro di tutta l’agricoltura.


Gran verticale di Atis Bolgheri Superiore

Abbiamo fatto una bellissima degustazione di tutte la annate finora prodotte del nostro Atis, il Bolgheri Superiore.   In linguaggio tecnico una degustazione così viene chiamata “verticale” ma di ginnastica ce n’è stata ben poca, se non la stappatura di tutte le bottiglie.  Le annate degustate sono state: 2003, 2004, 2005, 2006, 2007, 2008, 2009, 2011.  Il 2010, come vedete, non è stato prodotto, annata giudicata troppo “debole” per la riserva dell’azienda.  Stessa sorte capiterà al 2014.
Questo vino ha visto la nascita col nome di Guado al Melo Bolgheri Superiore.   Con l’annata 2009 è diventato Atis, dal nome del leggendario re della Lidia, nipote di Zeus, da cui un mito fa discendere la civiltà etrusca.  L’etichetta è rimasta però la stessa, a parte il cambio di nome, piccola con fondo nero e profili argentati.  Il disegno ha una doppia valenza: è una vite maritata etrusca (il richiamo a questa civiltà c’è un po’ in quasi tutte le nostre etichette e nomi dei vini, omaggio al popolo che fu il primo a coltivare la vite in Italia e proprio sulle nostre terre!!).  Ha per noi anche un significato allusivo: è una vite che abbraccia un albero, che potrebbe essere un melo, il nostro Melo di Guado al Melo.

E’ la riserva dell’azienda, cioè esprime il meglio dei nostri vigneti, da fa da padrone incontrastato il Cabernet sauvignon (80%), giusto un poco di Merlot e Cabernet franc (10%-10%).  C’è quindi dietro un notevole lavoro di selezione, prima di tutto in vigna, nell’individuare le particelle che danno l’eccellenza.  Ci sono poi rese di produzione più contenute della tipologia Bolgheri Rosso e una forte selezione sulle uve.  E’ invecchiato in barriques non nuove per circa 2 anni, di cui i primi 6-8 mesi sui lieviti, con batonages settimanali.  Seguono almeno 12 mesi di affinamento in bottiglia.  La scelta delle barriques non nuove, attuata fin dall’annata 2003, cioè dalle origini, sta nel nostro intento di fare vini che siano grandi rossi di territorio, dove il legno è perfettamente integrato.

Dopo tanti preamboli, veniamo alla descrizione dei vini. Tutte le annate hanno dato grandi risposte, ovviamente diverse (in quanto i nostri vini non sono omologati in cantina per essere tutti gli anni uguali), ma sono tutti vini vivi, assolutamente emozionanti.  Tutte le annate sono accumunate da una bella tonalità di rosso rubino, a volte più intensa e a volte un poco meno.  Torna spesso anche un certo profumo balsamico che da anni identifichiamo come l’impronta del nostro terroir.

Il 2003 è la prima annata prodotta.  Fu un anno molto caldo e siccitoso (il più caldo finora).  E’ l’anno che infine ci ha stupito più di tutti.  La colorazione è un po’ scarica ma sempre su tonalità vive. Al naso si sentono note dolci come di miele, un sentore balsamico, albicocca secca, prugna e (dopo un po’ dall’apertura) intense note di curry.  In bocca colpisce l’acidità ancora buona, mentre il tannino è un poco evanescente.  Ci ha veramente sorpreso in positivo.

Il 2004 invece è stata una annata climaticamente perfetta, con le viti però ancora un po’ provate dal difficile anno precedente.  Il vino ha un colore più carico del precedente, il naso è più complesso con sentori di frutta matura, goudron, inchiostro e tabacco.  Il tannino è più ricco del 2013 e l’acidità ancora viva.  Un vino veramente molto interessante.

Il 2005 è invece stata un’annata media: in generale abbastanza calda ma con la vendemmia un po’ bagnata.  La tonalità del colore, unica fra tutte le annate, è quella che ha riflessi leggermente mattonati.  E’ stato definito da Michele “molto francese”: al naso è un po’ ridotto, col classico odore da “pollaio”, note di fieno, di affumicato e di tabacco.  In bocca è  largo, più morbido dei precedenti, con un’acidità ben bilanciata e un tannino vivace. Adatto a chi ama i vini molto eleganti.

Il 2006 è invece un grande vino di una grande annata, il consenso è stato unanime.  Il colore è intenso e scuro.  Al naso prevalgono note di marasca e di coriandolo, con punte di curcuma (uno speziato dolce). Ha un grande corpo, molto equilibrato, tannino ben integrato e finale incredibilmente lungo.  Ha quel giusto compromesso fra ricchezza ed eleganza che amo tantissimo.

Il 2007 è un’altra annata interessante solo un poco più fresca del 2006.  Il colore è sempre intenso ma il naso all’inizio era molto chiuso.  Abbiamo dovuto aspettare diversi minuti prima che iniziasse ad aprirsi.  Dopo un po’ ci ha finalmente appagati con profumi di mora, mirtillo, un poco di peperone.  La bocca ricalca alla grande le caratteristiche del 2006.   Un grande vino, comunque.

Il 2008, annata parecchio fresca, è infatti il più sottile in bocca, molto elegante.  Al naso predominano note soprattutto balsamiche, di pepe verde e un poco erbacee.

Il 2009 è invece stata un’annata calda ma abbastanza equilibrata.  Il colore è un bel rosso rubino. Anche questo è un po’ chiuso ma appena si è aperto ci ha gratificato con profumi di ribes nero e goudron.  In bocca è notevole, molto equilibrato e con tannino vivace.

Col 2011 torna una grande annata, ha solo un tannino ancora un po’ giovane ma non disturba (a meno che non si sia abituati a bere solo vini super-morbidosi): ci rivela solo una grandissima potenzialità di invecchiamento e margini di ulteriore miglioramento.  Al naso si sente una nota fruttata con lievi accenni vegetali di non facile identificazione.  Dopo tanta concentrazione e voli di fantasia, abbiamo concordato sull’uva spina rossa, la guava e il tamarindo.  La parte speziata è più delicata e si sente soprattutto il pepe bianco.  Dopo qualche minuto nel bicchiere si iniziano a sentire note di tabacco.   In bocca è ricco ed elegante allo stesso tempo e ben lungo.


Droni nel vigneto

Droni a Guado al Melo: stiamo sperimentando nel nostro vigneto l’impiego di droni nella viticoltura di precisione. Ecco una foto della prova di ieri, altre immagini e un piccolo video sono sulla nostra pagina FB.
Il principio della viticoltura di precisione è avere una “mappatura” del vigneto, la più precisa possibile e particolareggiata, per i parametri che ci interessano (grado di vigore delle piante, maturazione degli acini,…). In questo modo, con un sistema satellitare di geolocalizzazione, è possibile intervenire nel vigneto in modo molto preciso. Ad esempio, con questo sistema non si mette concime in tutto il vigneto e nella stessa quantità, ma lo si dosa zona per zona a seconda delle esigenze (dove non serve, non si mette neppure!). Con questi metodi la viticoltura è sempre più rispettosa dell’ambiente: qualsiasi prodotto (che sia organico o di sintesi) viene comunque impiegato in dosi minime, solo quando e dove serve.
Tornando ai nostri droni, a questi si applicano dei sistemi di rilevamento (fotocamera ad infrarossi oppure un puntatore laser..) capaci di raccogliere i dati e creare una mappa molto dettagliata della situazione nel vigneto. Finora questi rilevamenti erano fatti con dei mezzi su ruota (ad esempio i quod) che percorrono il vigneto con i sistemi di rilevamento e lo mappano. I dorni presentano però numerosi vantaggi, primo fra tutti la maggiore velocità e facilità di tutta l’operazione, pur mantenendo una grande precisione.
E’ una strada molto interessante per rendere l’agricoltura (viticoltura nel nostro caso) sempre più sostenibile e noi riteniamo molto importante sia adottare questi metodi nei nostri vigneti ma anche di contribuire alle sperimentazioni e al continuo miglioramento degli stessi.