La guida Veronelli premia Atis 2016

Siamo veramente felici di comunicare che la prestigiosa guida Veronelli ha assegnato questo importante riconoscimento al nostro Atis Bolgheri DOC Superiore 2016.

Fra l'altro, è la terza volta consecutiva che premia Atis (tolto il 2014 che abbiamo scelto di non produrre), con tre annate notevoli per il nostro territorio: 2013, 2015, 2016.
Grazie di cuore alla redazione.


Al Criseo 2017 il premio TreBicchieri del Gambero Rosso

Con grande emozione riceviamo i TreBicchieri per il nostro Criseo Bolgheri DOC Bianco 2017.

Per noi è una grande soddisfazione soprattutto perché, non credo di sbagliarmi, è anche il primo vino bianco di Bolgheri a ricevere questo ambito riconoscimento.

Ci emoziona particolarmente perché non possiamo nascondere che non sia stato facile in questi anni proporre e sostenere un vino come il Criseo, un bianco da singola vigna, con in complantazione 5 varietà, un uvaggio come una volta, affinato sui lieviti, in un territorio ormai considerato la patria di grandi vini rossi e (per i detrattori) adatto per lo più per vini bianchi piacevoli ma senza troppe pretese.

Criseo ha invece dimostrato la grandezza in tutti i sensi di Bolgheri e dell’idea concepita ormai vent’anni fa da Michele. Un’idea che non è nata dal nulla, ma dalla consapevolezza di avere un grande terroir viticolo alle spalle, o genius loci (come noi amiamo più dire, alla latina), in grado di dare consistenza alle sue idee e passioni.

Michele ha valutato a fondo le caratteristiche di clima e suolo di questa piccola vigna (Campo Bianco, 0,7 Ha) fra le colline bolgheresi, oltre che una storia antica di viticoltura locale ampiamente dedicata ai vini bianchi, anche se ormai quasi dimenticata e (per molti versi) sottovalutata. A tutto ciò ha aggiunto forse qualcosa la sua origine e formazione nordica, nel saper misurarsi in cantina con tutto quel rispetto e quella sensibilità di gestione delle uve indispensabili per ottenere un grande vino bianco, equilibrio perfetto di complessità e finezza, capace di durare nel tempo.

L’unico rammarico è che l’annata 2017, così difficile da un lato ma che ci ha anche dato tanto in qualità dall’altro, sia stata segnata dalla produzione più bassa in quantità di sempre.

 


Atis 2016 fra i migliori vini di Bibenda

Ringraziamo la Fondazione Italiana Sommelier che ha premiato il nostro vino Atis Bolgheri DOC Superiore 2016, assegnandogli i 5 grappoli (massimo punteggio) nella loro guida dei vini "Bibenda".

 

 


La Vinitaly International Academy a Guado al Melo, i futuri ambasciatori del vino italiano nel mondo

Venerdì 27 settembre ospiteremo a Guado al Melo lo staff e un gruppo di corsisti della Vinitaly International Academy (VIA).

Vinitaly-International-Academy-467397462Il VIA è nato in seno a Vinitaly, con finalità educativa sul vino italiano. Grazie a corsi di alto profilo tenuti in giro per il mondo, sta formando una rete globale di professionisti del settore, altamente qualificati, che saranno gli ambasciatori nel loro paese del nostro grande patrimonio vitivinicolo, con la sua incredibile molteplicità, storia e cultura. L’amministratore delegato è la giornalista americana Stevie Kim, il direttore scientifico è il prof. Attilio Scienza.photo-on-top-of-manifest-page

Il gruppo starà tre giorni a Bolgheri, per conoscere la Denominazione, visitando anche diverse aziende del territorio. È composto dai corsisti, i futuri Ambassador, professionisti provenienti da Cina, Canada, Australia, Slovenia, Stati Uniti, UK, Ungheria e Germania. Sarano guidati dallo staff del Via, fra cui Stevie Kim e il giornalista inglese Monty Waldin, che è anche il conduttore dell’Italian Wine Podcast (il podcast in lingua inglese ideato da Stevie Kim sul vino italiano www.italianwinepodcast.com).

La mattina di venerdì 27, a Guado al Melo, sarà dedicata alla visita della cantina e alla degustazione dei nostri vini, guidata dal proprietario ed enologo Michele Scienza. Seguirà il seminario sulla Denominazione tenuto dal prof. Attilio Scienza nella biblioteca di Guado al Melo. Nel pomeriggio i corsisti saranno accompagnati dal professore a vedere le diverse unità di paesaggio definite dagli studi di zonazione viticola del territorio. Sabato ci sarà anche una masterclass presso il Consorzio di Tutela dei Vini di Bolgheri.


Vini di Chio: gli Etruschi e l'ipotesi di un'antica contraffazione

Il commercio etrusco di vino (di cui abbiamo già parlato qui) mostrava anche degli aspetti d'ombra? Già all'epoca, le guerre commerciali prevedevano anche contraffazioni o copie di prodotti di successo? Ce lo racconta il prof. Attilio Scienza in questo articolo pubblicato originalmente su Hello Taste.

anfore-vino-chioI frequenti ritrovamenti di anfore chiote (a lato) hanno rappresentato per molto tempo degli indicatori efficaci dell’espansione commerciale greca nel Mediterraneo, ma hanno anche posto numerosi interrogativi agli archeologi relativamente alla loro numerosità nettamente sproporzionata alla esigua produzione di vino dell’isola, aspra e poco fertile. Inoltre in epoca ellenistica (II sec a.C.) compaiono forme di anfore di Chio a collo rettilineo e di colore rosso vinoso, molto diverse da quelle di epoca classica. Si fa quindi strada l’ipotesi dell’esistenza di un vasto fenomeno contraffattivo.

I dubbi relativi al riconoscimento delle anfore di Chio originali con quelle chiamate di imitazione vengono chiariti alla fine degli anni ’90 attraverso le analisi chimiche delle argille con le quali sono prodotte. Infatti le argille delle anfore provenienti da Chio sono molto più ricche di cadmio, un metallo cosiddetto pesante, di quelle prodotte altrove. Ma dove?

L’arcano viene chiarito quando si scopre che le altre anfore provengono quasi tutte da una zona a cavallo degli attuali confini tra Lazio e Toscana, in piena koinè etrusca, famosa per la presenza di numerose fornaci per anfore. Gli etruschi senza troppi scrupoli, in seguito alla flessione del commercio del loro vino verso la Francia a causa della migliore qualità dei vini greci, imitano le anfore di Chio e cercano anche di imitarne il contenuto.

Qualche anno fa, analizzando il DNA di un set di vitigni dell’Isola del Giglio e della Toscana tirrenica e confrontandoli con altri provenienti dal bacino del Mediterraneo, i ricercatori del DIPROVE dell’Università di Milano ebbero la sorpresa di trovare delle notevoli analogie genetiche tra il vitigno Ansonica-Inzolia e due vitigni provenienti dall’Egeo orientale, il Rhoditis ed il Sideritis, varietà caratterizzate da avere una buccia molto resistente ed una polpa croccante, molto adatte quindi alla manipolazione ed all’appassimento.

Quindi gli etruschi non avevano solo imitato le anfore ma anche importato i vitigni e forse la tecnica di appassimento e di vinificazione, come testimoniano le centinaia di palmenti dell’isola del Giglio, certamente uno dei luoghi deputati a produrre uva destinata a produrre vini dolci, date le sue caratteristiche climatiche.

Un altro aspetto interessante che collega il vino di Chio con quelli riprodotti sulla costa tirrenica è rappresentato dalla frequentazione dei naviganti eubei delle isole greche e dei porti del Mediterraneo occidentale. Dove questi esperti marinai–commercianti hanno lasciato tracce delle loro ceramiche, si ritrovano i vitigni che appartengono al gruppo numeroso dei Rhoditis.

I vini di Chio

vini-chio-mareI vini di Chio, piccola isola dell’Egeo orientale, facevano parte di quella ristretta elite di vini greci che erano considerati, sul ricco mercato di Marsiglia e successivamente di Roma, prodotti di lusso, paragonabili solo al mitico Falerno. Varrone li definiva “vini dei ricchi” e, come ricorda Plinio, Cesare li offrì al banchetto per celebrare il suo terzo consolato.

Come i vini di Lesbo Samos o di Thaso, quello di Chio era un vino dolce ed alcolico, unica garanzia per sopportare i trasporti via mare, ma aveva qualcosa che gli altri vini non avevano e che i produttori di Chio celavano gelosamente e che rendeva questo vino particolarmente aromatico e serbevole. L’isola di Chio era l’unico luogo dove cresceva una pianta, il terebinto, dalla quale si estrae una oleoresina usata per rendere impermeabile l’argilla delle anfore e che aveva anche un importante ruolo nella conservazione del vino.

Inoltre, a potenziare questo effetto antiossidante ed antisettico, la presenza nel vino del sale derivante dalla pratica dell’immersione per qualche giorno nel mare dell’uva chiusa in ceste, con lo scopo di togliere la pruina dalla buccia ed accelerare così l’appassimento al sole, preservando in questo modo l’aroma del vitigno.

Il commercio del vino di Chio

afroditeGli abitanti di Chio erano così consapevoli della qualità del loro vino e così convinti di difenderne l’identità da chiedere a Prassitele, famoso scultore greco che per primo rappresentò il nudo femminile in una statua, di disegnare un'anfora da utilizzare per il commercio del loro vino.

Questa anfora si caratterizza per un corpo ovoide ma soprattutto per il collo tozzo e bombato. Oltre alla forma, che nel tempo subì alcune modifiche, le anfore erano riconoscibili per un timbro che rappresentava una sfinge, immagine che era anche riprodotta sulle monete dell’isola.

L’apparizione attorno al VII sec a.C. del vino di Chio sui mercati del Mediterraneo occidentale determina un profondo cambiamento nella domanda di vino: il vino etrusco che fino ad allora aveva monopolizzato il commercio del vino verso Marsiglia viene sostituito da quelli provenienti dalla Grecia orientale.

Come tutti i commercianti greci, anche quelli del vino di Chio fanno scalo, sulla via del ritorno in patria, all’isola d’Elba ed a Piombino per caricare materiali ferrosi da fondere o nell’isola d’Ischia o nella madre patria, venendo quindi a contatto con il mondo etrusco.

I ritrovamenti di anfore in relitti di navi affondate, nelle tombe o per costruire drenaggi testimoniano i luoghi di maggior frequentazione dei commercianti di Chio, identificati in molte città costiere della Sicilia, della Toscana etrusca e Marsiglia.

Il dinamismo mercantile spinse inoltre gli abitanti di Chio a portare il loro vino fino alle coste orientali del Mar Nero.


Jassarte 2016 premiato dalla guida AIS Vitae

Grazie di cuore ai sommelier AIS della guida Vitae che hanno voluto dare il loro massimo riconoscimento, le 4 viti, al nostro Jassarte 2016 Toscana IGT Rosso. Per noi è un grande onore.

Questa annata sta ancora completando il suo affinamento in bottiglia, loro l'hanno assaggiata in anteprima.

La sua prima uscita ufficiale sarà proprio in occasione della premiazione AIS, sabato 26 ottobre, dalle ore 11.00 alle 19.00, a Roma, presso la "Nuvola" di Massimiliano Fuksas (viale Asia, 40, Roma Eur).

 


Il prossimo fine settimana: Jazz, vino, sport ed Etruschi

Tanti eventi sul nostro territorio in settembre, non solo la vendemmia! Ce n'è per tutti i gusti.

Ricordiamo che torna l'appuntamento orami classico del Jazz e vino. In degustazione anche i nostri.

Presso il Museo di Cecina, al termine della presentazione, ci sarà la possibilità di degustare un nostro vino sperimentale, Zever, fermentato in anfora, come in epoca antica.

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Infine sport, tra gare di enduro per le ripide vie di Castagneto Carducci ed un torneo di tennis al nostro circolo. Noi siamo fra gli sponsor, oltre che troverete le nostre bottiglie come ambiti premi.

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Gli Etruschi e il vino (VI): quando la vite uscì dal bosco

I popoli del Mediterraneo cominciarono ad emergere dalla barbarie quando impararono a coltivare la vite.

(Tucidide, V sec. a.C.)

 

Finora abbiamo parlato della bellissima storia della vite maritata etrusca, sopravvissuta per oltre tremila anni (si veda qui). Eppure è una forma di viticoltura già evoluta.

Come è nata?

Come  e quando gli Etruschi hanno imparato a coltivare la vite?

Nei vecchi libri di storia del vino si trova ancora che gli Etruschi hanno imparato la viticoltura e la produzione del vino dai Greci. Gli studi degli ultimi decenni hanno invece dimostrato che fu uno sviluppo proprio.

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In passato si è a lungo creduto che che la domesticazione della vite (e la produzione di vino) fosse iniziata in un singolo punto (la cosiddetta Ipotesi di Noé). L'origine ancestrale era localizzata nel Caucaso, da cui si sarebbe poi diffusa nel Medioriente e nell'area Mediterranea. Gli studi degli ultimi decenni hanno invece sempre più dimostrato che l'approccio alla vite e la vino è avvenuto in diversi luoghi in modo indipendente. Questo fatto non stupisce molto, data la grande estensione dell’areale di distribuzione naturale della vite selvatica ed il suo fisiologico incontro con le popolazioni locali. In alcune zone è avvenuto prima, in altri dopo. Nell'immagine, nei cerchi in nero si evidenziano le zone di avvio indipendente di forme di proto-viticoltura, che sono molto difficili da datare. Durante questi periodi nacque anche la trasformazione in vino. Più inquadrabili temporalmente sono le fasi successive di domesticazione, evidenziate con le aree viola e numerate in ordine cronologico, in base alle evidenze documentali. Ia-Ib: dal VI-IV millennio a.C.; IIa-IIb: V-III millennio a.C.; III (Italia centro-meridionale): III-II millennio a.C.; IV (Italia centro-settentrionale, sud della Francia e penisola iberica): II-I millennio a.C.; VI (Europa centrale): epoca romana imperiale.

Non è facile indagare queste epoche così remote, dove mancano documenti, i resti di riferimento sono di natura altamente deperibile, oltre tutto difficili da studiare in un paese come il nostro con tante stratificazioni. Un esempio classico è rappresentato dai palmenti (di cui ho parlato qui): sono stati usati per secoli, se non per millenni, e questo rende veramente difficile risalire alla loro datazione più antica.

Tuttavia negli ultimi decenni le tecniche d'indagine sono andate sempre più migliorando, integrando fra loro diverse discipline. Viene messo insieme il lavoro di archeologi, paleobotanici, biologi molecolari ed esperti viticoli. Si studiano resti di polline antico, vinaccioli, i sedimenti sugli strumenti di lavoro e nei contenitori, la genetica delle viti selvatiche ancora presenti sul territorio e quelle prossime ai siti archeologici, ecc. In Toscana, in particolare, ricordo a tal proposito i progetti Vinum, Archeovino e Senarum Vinea, ai quali faccio principale riferimento per questo post. Questi ed altri studi stanno facendo sempre più luce sulla nostra storia viti-vinicola più antica.

In moltissime zone italiane vi è stata una nascita indipendente di forme di viticoltura embrionale, anche molto antiche. Per molte di esse però il passaggio ad una viticoltura vera e propria è stato fortemente influenzato da culture più avanzate (Greci e Fenici).

Così non è stato per gli Etruschi, i primi viticoltori in Italia che tolsero la vite dai boschi e la coltivarono col sistema della vite maritata all’albero. Dalla proto-viticoltura iniziale,  svilupparono una forma di viticoltura autonoma, diventata poi parte marcante del paesaggio agricolo italiano per millenni, considerata anche una frontiera culturale.
Il contatto con i Fenici ed i Greci arricchirà poi anche la loro viticoltura e produzione vinicola, ma manterranno sempre una forte identità.

In Europa occidentale possiamo infatti tracciare le antiche frontiere culturali grazie anche al tipo di viticoltura storica del territorio. I Greci hanno plasmato la viticoltura del sud d'Italia e della Francia mediterranea. Gli Etruschi hanno influenzato quella del centro e del nord d'Italia, Roma compresa. I Romani, più tardi, l'hanno sviluppata nei territori dell'Europa centrale, portandola anche in aree che non avevano mai visto prima la vite.

Torniamo però agli Etruschi e al lungo e complesso percorso di nascita della viticoltura. Per semplificare, gli studiosi lo hanno suddiviso in fasi. Alcuni aspetti sono comuni a tutte le popolazioni che hanno intrapreso questo processo. Altri sono esclusivi degli Etruschi.

 

 

La fase della pre-domesticazione.

I nostri lontanissimi antenati, in epoca Preistorica, raccoglievano l’uva selvatica nei boschi, prendendo quello che la natura dona spontaneamente. Sono stati trovati resti di vinaccioli di vite in contesti antropici almeno dal Neolitico antico. Non è però escluso che avvenisse anche in epoche precedenti, si pensa almeno dal Paleolitico.

In questo periodo l'uomo raccoglieva il frutto selvatico (a destra, uva selvatica a Guado al Melo) ma non sembra ci siano tracce di vinificazione.

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Esistono ancora oggi le viti selvatiche?

Nei nostri boschi è ancora possibile trovarle (a sinistra, vite selvatica spontanea a Guado al Melo), infatti su di esse ha lavorato il progetto Vinum. Non è però molto facile, sono diventate rare e rischiano sempre più di sparire. Infatti crescono soprattutto lungo i torrenti ed i fossi, aree da secoli costantemente ripulite dai contadini per la salvaguardia del territorio. Fra le viti che si possono oggi trovare in un bosco ci sono però diverse situazioni: viti realmente selvatiche, viti domestiche rinselvatichite (perché lì prima magari c’era un podere abbandonato, ecc.), ibridi spontanei nati fra la vite selvatica e la domestica.

Le viti selvatiche attuali sono identiche a quelle delle origini?

Non è credibile pensarlo: in millenni di intensa viticoltura, è molto probabile che anche le viti nei boschi abbiano avuto scambi genetici con le viti domestiche.

 

La Toscana e l'alto Lazio sono le regioni italiane che hanno ancora oggi il maggior numero di esemplari di viti selvatiche, concentrati prevalentemente proprio nei boschi della Maremma affacciati sul litorale tirrenico. Il nostro territorio, l'Alta Maremma, ne rappresenta la parte più a nord (freccia gialla nella mappa sotto, da Attilio Scienza).

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La grande importanza della vite per il nostro territorio in epoca antica si riflette anche nel nome di Populonia, la città-stato Etrusca che lo dominava. Era chiamata Pupluna (o Pufluna o Fufluna) che deriva da puple = germoglio (di vite). Plinio racconta che in città vi era una statua di Giove interamente scolpita in un unico grande tronco di vite (Naturalis Historia, XIV, 9). A Giove, ricordo, fu assimilata la principale divinità etrusca, Tinia, sotto la cui tutela essi ponevano la viticoltura. Ancora oggi, i ricercatori del progetto Vinum hanno trovato in questi boschi numerose viti selvatiche. Alcune di esse sono da noi, a Guado al Melo, allevate su tutore vivo, all’Etrusca (il nostro filare n.1).
Fase della Lambruscaia.

Si pensa che la prima forma primitiva di viticoltura nell'Italia centrale sia iniziata verso la fine del secondo millennio a.C., nell’Età del Bronzo. Siamo all'inizio di quel periodo che gli studiosi hanno chiamato fase della lambruscaia, una via di transizione fra la raccolta spontanea e una forma di viticoltura vera e propria. Si tratta di una viticoltura embrionale, che ha portato alla prima para-domesticazione.

In questo periodo l’uomo da raccoglitore passivo divenne attivo: iniziò a prendersi cura delle viti selvatiche nei boschi, nei luoghi dove queste nascevano spontaneamente.

Questa viticoltura assomiglia a quella che ci racconta Omero, a proposito dei Ciclopi (tradizionalmente posti in Sicilia):

“Nulla piantano con le mani, né arano; tutto cresce per loro senza semina né aratura: e grano, e orzo, e viti che producono vino da grossi grappoli, e la pioggia di Zeus li rigonfia” (Odissea IX, 108-111).

La cura e la protezione dai predatori rendeva la disponibilità dei frutti più costante e forse anche più abbondante. Non si escludono in questa fase delle prime selezioni, nella scelta di curare le viti più produttive o più gradevoli nel gusto o le più resistenti alle avversità.

uvaNon sappiamo come gli Etruschi o, meglio le genti Villanoviane da cui si svilupperà la civiltà Etrusca, chiamassero le viti selvatiche. Sappiamo che più tardi (e per secoli) saranno indicate come “labrusca”. Si usava invece il termine "lambruscaia" per identificare gli assembramenti di viti selvatiche spontanee nei boschi. Infatti queste piante tendono a crescere a gruppi nei nostri boschi mediterranei, dove trovano più disponibilità d’acqua (ad esempio vicino ai torrenti).

La parola labrusca compare per la prima volta in un documento scritto in Virgilio (I secolo a.C.). Gli studiosi pensano però che sia molto più antica, forse di derivazione paleo-ligure. Attenzione a non confonderla con la specie Vitis labrusca L., una vitacea di origine americana, arrivata da noi nel XIX secolo. Qui parliamo sempre di Vitis vinifera L., l’unica specie europea, nella sua forma selvatica, cioè la sottospecie sylvestris.

La parola labrusca o forme derivate da essa erano ancora in uso fino a non molti anni fa per indicare la vite selvatica, fra la Toscana del sud e l’alto Lazio (e non solo). Ogni zona aveva una sua variante: labrusca / lambrusca, abrusca, brusca, ciambrusca/cianfrusca, abrostola, abrostina, fino ai più originali raverusto e zampina. In Toscana nei secoli passati si usava il termine averusco o abrostine per indicare il vino fatto ancora con uva selvatica. Queste parole riecheggiano ancora nei nomi di diverse varietà attuali, anche molto diverse geneticamente fra loro, accomunate dal fatto di ricordare nel nome la loro ancestrale origine selvatica. I più famosi sono i numerosi Lambruschi, ma ci sono anche Abrostine, Abrusco, Abrostolo, Raverusto di Capua (Asprinio dell’Aversano), ecc.

 

La prima comparsa della parola labrusca, per indicare la vite selvatica, è nella V Egloga delle Bucoliche (42-39 a.C.) di Virgilio: "Aspice, ut antrum silvestris raris sparsit labrusca racemis" "Guarda, come la vite silvestre ha coperto l'antro con rari grappoli". Il richiamo è presente anche in una sua opera giovanile meno conosciuta, il Culex (La Zanzara), dove descrive una vite selvatica che viene mangiata dalle capre che si arrampicano sulle rocce. Qui usa però il termine che indica il frutto (labruscum), l’uva selvatica: "... pendula proiectis carpuntur et arbuta ramis, densaque virgultis avide labrusca petuntur". Servio (IV-V sec d.C.), che scrisse commenti esplicativi all’opera di Virgilio, ci dice: "Labrusca= vitis agrestis, quae quia in terrae marginibus nascitur, labrusca dicta est a labri set extremitatibus terrae”, cioè "Labrusca= vite agreste che nasce nelle terre ai margini, è detta labrusca quella che sta ai limiti delle terre coltivate".

La coltivazione delle lambruscaie nei boschi è un elemento primordiale caratteristico del paesaggio agricolo italiano, come ricorda anche Emilio Sereni ("Storia del paesaggio agrario italiano", 1961), una realtà nella quale il confine fra ambiente naturale ed agrario è stato spesso molto sfumato. Infatti le lambruscaie non spariranno mai del tutto, anche dopo queste epoche remote, nonostante il passaggio a forme di viticoltura più evolute. Soprattutto nelle aree maremmane, i contadini le hanno usate ancora per secoli, fino almeno all'inizio del XIX sec. (anche se in forma marginale).

Comunque, in questo periodo è documentata una raccolta sistematica dell’uva.  Ma ci facevano veramente vino?

Sembra proprio di sì. In alcuni siti archeologici dell’Età del Bronzo iniziale (lago di Massaciuccoli), medio (San Lorenzo a Greve) e finale (Livorno-Stagno, Chiusi, Tarquinia) e altri, sono stati trovati ingenti resti di vinaccioli, alcuni con i caratteri selvatici e altri con già elementi di para-domesticazione. Quindi, una quantità rilevante di grappoli d’uva erano stati raccolti, portati nell’abitato e non consumati subito, ma riposti in un strutture usate per le riserve alimentari. I palmenti più antichi finora trovati sembrano risalire proprio all’Età del Bronzo (ho parlato delle tecniche produttive etrusche e romane qui).

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La morfologia dei semi d'uva è d'aiuto per riconoscere quelli di vite selvatica (le due righe in alto) da quelli della vite paradomestica o domestica (in basso). I primi sono più tondeggianti, i secondi più appuntiti e periformi. Qui i semi sono stati anche bruciati, per simulare lo stato in cui sono realmente trovati nei siti. Immagine da Mariano Ucchesu et al., "Predictive Method for Correct Identification of Archaeological Charred Grape Seeds: Support for Advances in Knowledge of Grape Domestication Process",  in PLoS ONE 11(2) · February 2016

Comunque, in questo periodo, il vino prodotto era poco, abbastanza lontano dal gusto a cui siamo abituati oggi. Date le caratteristiche dell’uva selvatica, era molto probabilmente molto leggero, aspro e ricco di tannino. Ad esso erano affiancate altre bevande fermentate, come quelle ottenute dal corniolo, dal sorbo o altri frutti. Eppure sarà la bevanda ottenuta dalla fermentazione dell’uva a vincere nel tempo, per un’indubbia superiorità gustativa e conservativa su tutte le altre.

La viticoltura primordiale andò poi oltre le lambruscaie, a seguito di diversi miglioramenti produttivi e anche all’introduzione di strumenti più evoluti, come il pennato a manico lungo.

 

Fase Numana.
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Semi di vite germogliati spontaneamente nella zona di compostaggio degli "scarti verdi" nella nostra azienda.

Ad un certo punto la vite venne portata fuori dal bosco. Non si sa se questo passaggio verso una coltivazione vera e propria sia stato razionale o sia nato dall'osservazione di fatti casuali. Una delle ipotesi più accreditate in questo senso è quella detta "dell'immondezzaio" o, più elegantemente, "degli orti spontanei". Secondo questa teoria l'uomo iniziò a veder crescere le piante utili (in questo caso la vite) vicino al proprio insediamento, nei luoghi dove abbandonava i suoi rifiuti. In questi posti gli umani antichi lasciavano resti di cibo ed anche le proprie deiezioni. I semi, buttati o presenti nelle feci, germinavano e si sviluppavano molto facilmente, grazie alla ricchezza di materiale organico ed umidità.

Dalla seconda metà dell’VIII secolo circa, in un modo o nell'altro, la vite selvatica uscì dal bosco, venne portata ai suoi margini, presso gli insediamenti umani. Iniziò la strutturazione di una vera e propria viticoltura, una nuova  fase, chiamata dagli studiosi Numana.

In questa fase nacque la vera e propria viticoltura etrusca. Nacque imitando comunque la natura, nella forma di vite maritata all’albero (di cui abbiamo già parlato qui). Il ciclo di lavoro del viticoltore divenne completo, comprendendo non solo la cura, ma anche l’impianto della vigna ed il rinnovo alla fine della vita del vigneto. Non a caso si è scelto il nome di Numa Pompilio: è l'epoca della "normalizzazione" della viticoltura che, fra l'altro, dall'Etruria venne trasmessa anche alla nascente civiltà romana.

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Per il nome di questa fase si è scelta la figura emblematica di Numa Pompilio, secondo re di Roma. È ricordato soprattutto per aver consolidato la nascente civiltà romana con l'introduzione di una serie di norme civili e religiose che, secondo la tradizione, gli furono dettate dalla ninfa Igeria. Fra queste, introdusse l’obbligo della potatura, vietando il consumo rituale del vino ottenuto da viti non potate. Il potere centrale cercò quindi di migliorare la produzione, spingendo la popolazione a superare le forme ancestrali proto-viticole. Introdusse anche il divieto di spegnere le fiamme dei roghi funebri col vino, sottolineando la preziosità della bevanda all'epoca.

La coltivazione comportò inevitabilmente una pressione selettiva sempre più intensa. Si sceglievano di impiantare e propagare le viti migliori, quelle ermafrodite (ricordo che la vite selvatica invece è prevalentemente a sessi separati), quelle più produttive o le più precoci, quelle più resistenti alle intemperie o alle malattie, ecc. Si parla in questa fase di proto-domesticazione vera e propria.

Idria (anfora per l'acqua) con scena di Dioniso e satiri che vendemmiano da viti allevate su tutore vivo (circa 530 a.C.). Rinvenuta a Caere, sembra che sia stata realizzata da artigiani greco-orientali trapiantati nella città etrusca.

In questo periodo arrivarono anche i primi vini d'importazione e le varietà di vite orientale, portate in Italia dai Greci e dagli stessi Etruschi. Queste vennero coltivate tal quali, ma anche innestate ed incrociate (più o meno volontariamente) con le varietà locali. Iniziò quell’immenso processo di intricatissimi intrecci genetici che rappresenta la domesticazione vera e propria (che è ancora in corso da allora) e che ha generato nei secoli le varietà attuali.

Nell'ambito linguistico etrusco-romano, è probabile che risalga a questa fase anche il passaggio dalla parola antica temetum (che in origine poteva indicare anche diverse bevande fermentate, non solo quella fatta con l’uva) a quella di vinum, di influenza greca. Quest’ultima diventerà la più usata nella lingua Etrusca e nel Latino, prima di giungere fino a noi.

 

 

Fase del paesaggio organizzato nelle campagne.

Dalla parte finale VII secolo avanti Cristo, iniziò una concezione agricola più simile alla nostra, che è stata chiamata fase del paesaggio organizzato nelle campagne.

S'accentuò sempre più il distacco fra la vita urbana e quella delle campagne al servizio delle città-stato. Nacquero sempre più edifici rurali circondati da terre coltivate, vere e proprie fattorie dedite alla produzione di vino, olio, cereali, ecc. Le viti maritate, poste ai margini delle terre arate, erano ormai sottoposte a potature e a cure sempre più evolute, così come migliorò ancora la produzione del vino. Le tecniche e gli strumenti di lavoro si affinarono sempre più, grazie anche al sempre maggiore scambio culturale col mondo greco e fenicio.

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Ricostruzione di edificio rurale etrusco (fine VI - inizio V sec. a.C.) a Podere Tartuchino (Semproniano, GR), da https://intarch.ac.uk/journal/issue4/perkins/2_0.html

La società Etrusca era ormai molto evoluta e la richiesta di vino divenne sempre più esigente. Si consumavano vini locali ma anche importati. Si richiedeva sempre più vino di differente qualità, con una grande circolazione di varietà di diversa derivazione. La produzione sempre più consistente portò anche a sviluppare un commercio oltremare, diretto soprattutto verso i Celti del Sud della Francia (si veda qui).

 

Fase della romanizzazione

Questa fase avvenne più o meno a partire dal III sec. a. C., con l'inizio della conquista romana dell'Etruria. In realtà l'influenza di tecniche viticole provenienti da Roma precedette anche la conquista militare vera e propria, che si completerà entro il I secolo a.C.  La viticoltura Romana era comunque la stessa, quella delle viti maritate agli alberi, anche se poi ingloberà anche quella di cultura greca e ne svilupperà di nuove. Comunque non finirà qui: la vite maritata, etrusca e romana, continuerà a vivere per millenni, arrivando fin quasi ai nostri giorni.

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Vendemmia di amorini da vite maritata, fregio della Casa dei Vettii (Pompei)

 

 

 

 

Da A. Cianci et al. “Archeologia della vite e del vino in Etruria” Ed. Ci.Vin 2007

Da slides ed appunti del prof. Attilio Scienza


Jassarte 2015 Medaglia d'Oro a Zurigo

Siamo felici di comunicare che il nostro Jassarte 2015 è risultato fra i migliori vini al concorso internazione di Expovina 2019 a Zurigo, vincendo la medaglia d'oro per la categoria Vini Italiani.

Ecco qui il link della pagina ufficiale

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Gli Etruschi e il vino (V): un intenso commercio europeo

Sappiamo già tutti che gli Etruschi furono grandi navigatori e commercianti ma forse è meno noto che commerciarono ampiamente anche il loro vino, una sorta di primordiale export dalla Toscana. Col prodotto ne diffusero anche la cultura, esportando gli oggetti del corredo del simposio nell'Europa occidentale che ancora non lo conosceva.

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La storia del commercio etrusco iniziò circa nel IX sec. a.C., ma s’intensificò soprattutto a partire dall’VIII sec., interrompendosi solo con la conquista romana (II-I sec. a.C.). Situati in una regione cardine per i traffici commerciali tra Oriente ed Occidente, gli Etruschi seppero sfruttare al meglio questa posizione di favore. I mercanti etruschi divennero noti in tutto il Mediterraneo ed il mar Tirreno, controllato dalla flotta, divenne quasi uno spazio esclusivo. Frecce marroni: le vie del commercio e la grande diffusione dei prodotti Etruschi.

Il commercio del vino fu molto intenso fra il VII sec. e la prima metà del V sec. a.C. Da quel periodo infatti, grazie al notevolmente miglioramento delle tecniche viti-vinicole, vi fu un forte incremento produttivo che creò un’eccedenza rispetto al consumo interno, spingendo alla commercializzazione.

Fu un commercio vasto, documentato dal ritrovamento di anfore vinarie etrusche in molte regioni: nel Lazio, in Campania, nelle colonie greche della Sicilia orientale, in Calabria, in Sardegna, in Corsica, nella Francia del sud e nella penisola iberica, sia sulle coste mediterranee che quelle dell’Atlantico meridionale. Vi fu anche un commercio minore via terra, sia interno che verso i territori dell'Europa centrale transalpina, dove sono stati trovati numerosi oggetti del simposio etrusco.

Il mercato più importante di tutti era quello degli insediamenti celto-liguri del Sud della Francia, come Saint-Blaise in Provenza, Lattes e La Monedière in Linguadoca, penetrando per alcune decine di Km all’interno lungo le vie fluviali.  Nei resti archeologici di più di 70 siti della regione sono stati trovati grandi quantità di vasi in bucchero ed anfore da vino etrusche.

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L'area tratteggiata in grigio indica la diffusione delle anfore vinarie etrusche nella Gallia Meridionale. Le frecce indicano le principali rotte delle navi, mentre i numeri indicano i relitti ritrovati (da Cristofani, Gli Etruschi una nuova immagine, ed. Giunti 2000).

Possiamo anche seguire le rotte di questi viaggi grazie ai resti dei naufragi rinvenuti lungo l'antico percorso, a Cap d’Antibes, Bon Porté, Point du Dattier e altre località. Dall’Etruria, i mercanti seguivano le isole dell’arcipelago toscano e passavano dalla Corsica. Sui fondali marini sono state trovate navi etrusche con interi carichi di anfore vinarie e vasellame pregiato da mensa.

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Questo allestimento del museo di Populonia ricostruisce l'aspetto dei ritrovamenti dei resti dei naufragi sul fondale marino.
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Esempio di carico di nave etrusca, affondata a Cap-d’Antibes nel secondo quarto del VI sec. a.C.: (a) anfore vinarie, (b) buccheri, (c) ceramica etrusco-corinzia, (d) olle e tazze non dipinte usate dai marinai. (sempre da Cristofani, ed. Giunti)

All’epoca nel sud della Francia il vino non era ancora conosciuto e, in cambio, gli Etruschi si approvvigionavano di merci varie, probabilmente pelli, bestiame, schiavi, soprattutto di stagno che, lungo la via del Rodano, proveniva dalla Cornovaglia (ricordo che lo stagno era fondamentale per la produzione del bronzo, in lega col rame).

Questo commercio di vino venne meno dal VI sec. a.C. per via della colonizzazione dei Focei (provenienti da Focea, città greca della Ionia, nell’attuale Turchia). Questi pian piano soppiantarono gli Etruschi, imponendo un vero e proprio dominio territoriale, soprattutto verso la fine del secolo.

Da quel momento i mercati della Francia Meridionale iniziarono ad usufruire principalmente della produzione vinicola di Marsiglia (allora Massalia), che era stata fondata dai Focei intorno al 600 a.C.  Il commercio etrusco del vino diminuì sensibilmente e si focalizzò principalmente sui prodotti dell’artigianato e dei beni di lusso.

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Anfora vinaria etrusca rinvenuta in mare nei pressi di Populonia, dal museo del Territorio di Piombino (per gentile concessione)
Il vino era trasportato in anfore di terracotta, usate anche per la conservazione, antenate delle più note anfore romane. L’anfora etrusca sembra sia nata su modelli fenici e comparve con l’inizio della commercializzazione del prodotto. All’inizio presentavano iscrizioni a vernice rossa, come ad evocare la pratica del dono. Tuttavia poi si standardizzano, diventano tutte identiche, senza decorazione, una vera e propria produzione in serie.  All’interno erano spalmate di resina e chiuse con tappi di sughero sigillati con pece.  La forma era diversa a seconda del luogo di produzione ed evolvette nel tempo verso forme sempre più allungate, per facilitare lo stivaggio nelle navi.
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Diverse tipologie di anfore vinarie etrusche (da Cristofani, ed. Giunti)
Il disegno ricostruisce la scena di carico di una nave nel porto di Populonia, con anfore di vino (dal museo del Territorio di Piombino)

Nelle stive le anfore erano impilate in file parallele, le une sopra le altre, sfruttando gli spazi tra ansa e ansa della fila sottostante per infilarvi il puntale di quella soprastante.  I carichi erano bilanciati in modo da evitare il disequilibrio del battello.  Gli interstizi fra le anfore erano riempiti con ramaglie di ginepro o erica, giunchi o fascine, per evitare rotture e movimenti durante il trasporto.

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Ricostruzione grafica della stiva di una nave antica
Gli Etruschi rapiscono Dioniso

Dal VI sec. a.C. il mercante etrusco apparve raffigurato nella letteratura greca come un pirata, mentre il fenicio aveva il ruolo del commerciante scaltro. Quello greco, ovviamente, trionfava progressivamente sugli ostacoli, imponendosi sugli altri.  Tale iconografia, ovviamente molto di parte, aveva comunque un fondo storico: i viaggi commerciali dell’epoca non erano del tutto estranei ad episodi di razzie. Tuttavia si pensa che, più che atti pirateschi, si trattasse di una sorta di guerra corsara.

La figura dell’etrusco-mercante, ma soprattutto dell’etrusco-corsaro, provocò la diffusione di un mito che racconta il rapimento di Dioniso da parte dei pirati etruschi, rappresentato sui vasi greci a partire dal VI sec. a.C. Questo mito compare per la prima volta nel VII inno attribuito ad Omero, probabilmente riportando narrazioni orali arcaiche.

Il mito racconta che gli Etruschi trovarono su un’isola un bel giovinetto addormentato, dai riccioli neri ed un ricco mantello color porpora.

... dei pirati Tirreni arrivarono sopra una solida nave, avanzando veloci sul mare violaceo: un triste destino li guidava...

Pensando fosse il figlio di un re, lo presero per chiederne il riscatto. Dioniso, svegliatosi legato sulla nave, si trasformò in orso e poi in leone, mentre tralci di vite s’avvolgevano all’albero maestro. I pirati, atterriti, si gettarono in mare e furono trasformati in delfini. Il Dio risparmiò solo il timoniere, che si era opposto fin dall’inizio al tentativo di legarlo, in quanto aveva intuito la natura divina del ragazzo.

Exekias, Kylix con il mito di Dioniso e dei pirati tirreni trasformati in delfini (530 a.C. circa; ceramica a figure nere, diametro 30,5 cm, altezza 13,6 cm; Monac
kylix di origine attica (Grecia) ritrovata in Etruria, a Vulci (530 a.C.). Rappresenta la scena conclusiva del mito: Dioniso è sulla nave, con la vite che è cresciuta intorno all'albero e i pirati-delfini che nuotano intorno.

Sembra che gli Etruschi apprezzassero questo mito, infatti loro stessi lo rappresentarono, come nell’idria di Toledo.

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Hydria etrusca, detta di Toledo (perchè conservata a Toledo, in Ohio, USA), del Pittore del Vaticano 238, fine del VI-inizi del V sec. a.C.

A parte Omero, questo mito è ricordato di rado nella letteratura greca, se non in epoche successive, dove compare con diverse aggiunte o varianti. In epoca Ellenistica Pindaro sostiene che il rapimento è stato “commissionato” da Era, con Sileno ed i Satiri che partono alla sua ricerca. Torna ancora più frequente nella letteratura greca di epoca romana , con Apollodoro, Nonno di Panopoli ed altri autori.

A Roma il mito è citato da Ovidio nelle Metamorfosi, secondo il quale il rapimento sarebbe avvenuto sull’isola di Chio. Quando il giovane si risveglia, chiede di essere portato a Nasso. I pirati fingono di assecondarlo e, quando Dioniso se ne accorge, iniziano i prodigi. L’edera e la vite si avvolgono all’albero della nave, compaiono le diverse fiere. I pirati che si gettano in mare sono descritti in diverse fasi della metamorfosi in delfini. Poi emergono ed intrecciano una danza intorno alla nave. Si salva anche qui solo il timoniere, che giunge a Delo e diventa seguace del culto del Dio.

Nell’Edipo di Seneca i prodigi sono ancora diversi: il mare diventa un prato, con anche alberi ed uccelli. Igino racconta che i compagni di Dioniso (non era solo in questo caso) iniziano a cantare una canzone meravigliosa che affascina i pirati, i quali iniziano a danzare e nell’impeto cascano in mare. Luciano riprende questo passo, dicendo che Dionisio usa la danza per sottomettere i Tirreni, sottolineando l’importanza di essa nel culto del Dio.

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Mosaico romano di Dougga (Tunisia) (253 - 268 d.C.)

Gli studiosi pensano che originariamente il mito si ricollegasse ai riti d’iniziazione ai misteri dionisiaci, come insegnamento oppure come dimostrazione della punizione per chi non volesse riconoscere il Dio. Poi divenne una sorta di propaganda greca contro gli atti di pirateria etruschi.

In epoca ellenistica e romana prese però anche una connotazione escatologica, connessa al culto misterico di Dioniso, Dio della trasformazione e del rinnovamento, che può portare l'uomo alla salvezza. Il rapporto fra Dioniso (il vino) e il mare sono elementi e metafore del passaggio fra la vita e la morte, comunque molto presenti nella cultura greca e poi anche in quella etrusca. Il viaggio per mare rappresentava metaforicamente il viaggio verso l’Aldilà. Gli Etruschi credevano che fossero proprio i delfini ad accompagnare i defunti verso l’Isola dei Beati. La figura del delfino è proposta infatti nell’arte etrusca con significato simbolico-rituale legato alla morte, come in diverse tombe, ma anche di buon auspicio. Sicuramente questi animali acquatici era ben famigliari a questo popolo di navigatori.

530 a.C.; affresco; Tarquinia, Tomba della Caccia e della Pesca
530 a.C.; affresco etrusco di Tarquinia, Tomba della Caccia e della Pesca

Anche nell’arte romana rimarrà questo legame, con la rappresentazione del mito nei monumenti funerari. Viene però anche proposto in mosaici di abitazioni private.

Mi piace però pensare a questo mito in modo anche diverso: gli Etruschi rapiscono il Dio del vino, Dioniso, o meglio l’anima stessa del vino, e la portano in Occidente, in Italia, che diventerà sempre più la terra del vino per eccellenza.

Ora proseguiamo facendo un passo indietro: vediamo nel dettaglio come gli Etruschi passarono dalla raccolta dell'uva selvatica alla viticoltura vera e propria (qui)

Inno di Omero

Canterò Dionisio, il figlio dell’illustre

Semele. Apparve su un promontorio, lungo la riva

del mare infecondo, con l’aspetto di un giovane

nel fiore dell’età: aveva bei capelli scuri

e fluenti, e un manto purpureo gli copriva le forti

spalle. Subito dei pirati tirreni arrivarono

sopra una solida nave, avanzando veloci sul mare

Violaceo: un triste destino li guidava. Come lo videro,

si scambiarono un cenno, saltarono a terra, lo afferrarono

e subito le deposero sulla loro nave, pieni di gioia.

Pensavano infatti che fosse il figlio di sovrani

potenti, e decisero di legarlo con nodi crudeli.

Ma i nodi non lo stringevano, e i lacci caddero lontani

Dalle mani e dai piedi. Il dio rimaneva seduto, e sorrideva

con gli occhi scuri; il timoniere capì,

e subito parlò in questo modo ai compagni:

“Amici, chi è questo dio potente che avete preso

E tentate di legare? La nave ben fatta non ne regge il peso:

costui o è Zeus o Apollo dall’arco d’argento

o Poseidone, perché certo non assomiglia agli uomini

mortali, ma agli dei che abitano le case dell’Olimpo.

Presto, lasciamolo subito libero sulla terra

nera: non mettetegli le mani addosso, perché se si adira

può scatenare venti crudeli e una tempesta violenta”.

Così disse, ma il capo lo rimproverò con dure parole:

“Disgraziato, pensa al vento, e aiutami a tendere la vela:

tu tira i cavi, a costui provvederanno gli uomini.

Credo proprio che ce lo porteremo in Egitto o a Cipro

o fra gli Iperborei, o ancora più lontano; ma alla fine

ci dirà dove sono i suoi amici e le sue ricchezze

e i suoi parenti, perché ce l’ha mandato un dio”.

Così dicendo drizzava l’albero e la vela della nave.

Il vento gonfiò il centro della vela, e i marinai tendevano

i cavi. Ma presto si manifestarono ad essi dei prodigi:

prima sulla nera nave veloce si sentì un gorgoglio di vino

fragrante, dolce da bere, e ne emanava un profumo soave:

tutti i marinai furono presi da stupore, a questa vista.

Poi dall’alto della vela germogliò una vite,

da entrambi i lati, e penzolavano giù molti

grappoli; attorno all’albero s’avvolgeva un’edera scura,

densa di fiori, e vi crescevano amabili frutti;

tutti gli scalmi portavano ghirlande. Allora, vedendo ciò,

essi dissero al timoniere di spingere di nuovo la nave

a terra; ma il dio, a prua della nave, si trasformò

in leone terribile, dal ruggito altissimo, e al centro

creò l’immagine poderosa di un orso dal collo villoso.

L’orso si erse minaccioso, e il leone da prua

lanciava sguardi feroci; essi si rifugiarono a poppa,

stringendosi al timoniere che aveva mostrato saggezza,

e si fermarono terrorizzati. Il dio con un balzo improvviso

ghermì il capo, e gli altri a questa vista tutti insieme

si gettarono fuori nel mare lucente, per evitare la morte,

e diventarono delfini. Del timoniere però il dio ebbe pietà,

lo trattenne e gli concesse una sorte felice, dicendogli:

“Coraggio, buon vecchio, caro al mio cuore:

io sono Dioniso, il dio fremente; mi generò Semele,

la figlia di Cadmo, unendosi in amore a Zeus”.

Salve figlio di Semele dal bel volto, nessuno

che si dimentichi di te può comporre un bel canto.

(VII Inno di Omero)

Il mito di Dioniso e i Pirati Tirreni in epoca romana, Lucia Romizzi Latomus T. 62, Fasc. 2 (AVRIL-JUIN 2003), pp. 352-361 (12 pages) Published by: Société d'Études Latines de Bruxelles

Cristofani, Etruschi, ed. Giunti.

Gli etruschi, abili commercianti e navigatori. Gli scambi, i prodotti che compravano e vendevano, gli empori di Finestre sull'Arte, scritto il 24/06/2018


Ma quando si vendemmia?

AcinoOra l’uva sta finendo di cambiare colore (invaiatura). Dal cambio completo, passeranno ancora dalle 3 alle 5 settimane alla maturità perfetta. Ogni varietà ha il suo momento, alcune sono più precoci e altre più tardive.

Ma quando si vendemmia?

Banalmente si risponde: quando l’uva è matura. Facile? Ma come si capisce?

Non basta certo assaggiarla, come potremmo fare solo per mangiarcela: per questo basta che sia abbastanza dolce da soddisfare il nostro palato. Per fare un vino qualunque potrebbe essere anche sufficiente. Per fare dei grandi vini no!

I vignaioli cercano spasmodicamente di capire come cogliere quell’attimo perfetto.

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In realtà nel passato questa ricerca della qualità non era fatta proprio da tutti: fino a circa una trentina d’anni fa e andando indietro nel tempo, la cura produttiva non era una priorità così diffusa. Si vendemmiava quando più o meno l’uva era matura, spesso quando si trovava il tempo di farlo. Nel secondo dopo guerra, in molte aziende medio-piccole, i giovani in genere facevano altri lavori, per arrotondare gli scarsi introiti derivati dall’attività agricola.

Interessiamoci però a chi cercava la qualità e proviamo a chiedere a qualche esperto.

dionysusColumella (I sec. d.C.) ci direbbe:

“… i segni della maturità delle uve variano secondo gli autori.

Alcuni hanno creduto che sia giunto il tempo della vendemmia quando si vede una parte dei grappoli diventare molle; altri invece quando vedono le uve colorate e lucide, altri ancora quando vedono che cadono i pampini e le foglie.

Ma tutti questi segni sono fallaci: sono tutti fenomeni che si possono verificare quando i grappoli sono ancora immaturi, a causa delle intemperie dovute al troppo sole o dell’anno.

Allora altri hanno tentato di testare la maturità dal gusto dell’uva, stimandolo arrivato secondo che l’uva avesse un sapore dolce o acido. Anche questo segno però presenta qualche incertezza, perché alcune qualità di uva non diventano mai (completamente) dolci per la loro eccessiva asprezza.

La cosa migliore, come io stesso uso fare, è osservare la maturazione naturale di per sé.  Ora, la maturità naturale si ha se, spremuti i vinaccioli, i quali si nascondono nell’acino, essi sono scuri di colore o alcuni nerissimi. Nessuna cosa, infatti, può dare colore ai vinaccioli se non il raggiungimento della maturità naturale …”

(De Re Rustica”, 4 – 70 ca. AD).

 

Proviamo a chiederlo al dott. Pietro de’ Crescenzi, bolognese, che ce lo racconta nel suo “Ruralium Commodorum libri XII” (1304), riportando diversi pareri  (ho un po’ modernizzato nei termini il testo, tradotto dall’originale latino in volgare da Francesco Sansovino nel XVI sec.):

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  1. “Raccogliere le uve troppo presto fa sì che il vino sia sottile, infermo e che non dura. Altri raccolgono troppo tardi e le vigne hanno perso la loro forza. Si riconosce il momento della vendemmia al gusto e all’occhio.

  2. Avicenna, Democrito e l’Africano dicono che l’uva deve star matura sei giorni e non di più. E se l’acino dell’uva non è più verde ma nero o d’altro colore come dev’essere, secondo la varietà di quell’uva, allora vuol dire che è matura.

  3. Secondo alcuni, se si spreme l’uva ed il vinacciolo uscirà fuori mondo e senza polpa, dicono che l’uva è matura e si deve fare la vendemmia. Se invece esce fuori con parte della polpa, allora non è matura.

  4. Alcuni altri congetturano che è matura quando comincia ad appassire.

  5. Altri fanno una prova di questo tipo. Tolgono un acino ad un grappolo, che sia bellissimo e folto, e passati uno o due giorni, considereranno se il luogo dove c’era l’acino è lo stesso di prima e, se gli altri acini intorno non sono cresciuti, si preparano a fare la vendemmia. Ma se il luogo dov’era l’acino sarà rimpicciolito per la crescita degli altri intorno, aspettano di vendemmiar finché l’uva cresca.

  6. Palladio dice che si conosce la maturità dell’uva se spremendo i chicchi, i vinaccioli che si nascono negli acini sono scuri e alcuni quasi neri; perché questo avviene alla naturale maturità dell’uva.

  7. Si deve allora fare la vendemmia, e massimamente essendo la luna in Cancro, o in Leone o in Bilancia o in Scorpione o in Capricorno o in Acquario. Ma finita la luna ed essendo sotterra (luna nuova), si deve far vendemmia frettolosamente, come dice Borgondio nel libro delle vendemmie, il quale egli tradusse dal greco in latino. …

  1. Le uve troppo mature fanno il vino dolce ma meno potente e meno durevole di quelle del primo tempo. Le uve troppo acerbe fanno il vino acerbo. Ma le mezzane fanno il vino potente e che dura meglio.

  2. Le uve raccolte in luna crescente fanno il vino meno durevole, in luna calante di più. …”

Pietro raccoglie il sapere degli antichi e quello del suo tempo. Più o meno esso resterà quasi immutato per secoli (compresa la bella storia della luna, che ci siamo portati dal Medioevo fino ai nostri giorni…).

Solo la comprensione del fenomeno chimico della fermentazione (dalla fine Settecento in poi) portò poi a valutare sempre di più accuratamente il momento ottimale della raccolta.

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I nostri antichi esperti avevano ragione in diversi aspetti. Alcuni di questi punti infatti sono frutto di osservazioni accurate dei mutamenti del periodo della maturazione (si veda sotto). Tuttavia, anche se vere, permettono solo una valutazione grossolana, da sole non sono sufficienti per la finezza che vogliamo raggiungere oggi nel vino artigianale. Sicuramente erano sufficienti per le epoche passate, anche se queste conoscenze non erano alla portata di tutti, data l’ignoranza largamente diffusa nel mondo contadino.

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imagesOggi il momento migliore della vendemmia viene scelto, per ogni varietà e per ogni particella di vigna, dal confronto di diversi elementi dell’uva:

  1. il contenuto in zuccheri,
  2. l’acidità,
  3. il pH,
  4. i fenoli (tannini ed antociani) per le uve a bacca scura
  5. l’assaggio delle uve: solo la persona esperta, nel nostro caso Michele, sa valutare in questo modo elementi di maggior finezza altrimenti non rilevabili in altro modo, come la maturazione dei tannini dei vinaccioli, l’evoluzione aromatica del frutto, la consistenza della buccia...

I-Grande-21827-comment-ca-marche-le-refractometre.net Tutti questi elementi però non coincidono temporalmente fra loro, per il loro momento ottimale. È (di nuovo) il vignaiolo che, con grande esperienza e conoscenza e un po’ di estro personale, sa valutare come bilanciare il loro equilibrio.

Questo bilanciamento è diverso per ogni vino che andrà a nascere, in relazione alla tipologia (bianco, rosso, fermo, frizzante, giovane, da medio o lungo affinamento, passito, ...), al territorio, alle varietà impiegate, all’annata in generale e all’andamento stagionale nel periodo della vendemmia (se particolarmente brutto, potrebbe obbligare a forzare i tempi di raccolta). Si può anche sbagliare, comunque di poco se si è abbastanza esperti.

imagesIl momento veramente perfetto rimane comunque ineffabile, un mito forse, un infinito a cui tendere, ma che non saprai mai con certezza se lo hai veramente raggiunto. Da questa ricerca senza fine nascono i vini veramente grandi.

"Non essere mai soddisfatti, l'arte è tutta qui" (Jules Renard)

 

 

 

Tornando agli antichi, quanto avevano ragione?

httpwww.wining.itColumella, il primo vero e proprio agronomo della storia, non ci delude: scarta i parametri troppo variabili e non oggettivi. Riconosce che il colore dei semi cambia  sempre con la maturità. Questo è stato uno dei parametri più usato nei secoli dagli esperti, prima di avere le nostre analisi (che danno risposte più accurate). Il salto più importante di colore dei vinaccioli è all’invaiatura, quando da verdi diventano giallognoli / marroncini. Dopo scuriscono sempre più. Diventa però molto difficile valutare le diverse gradazioni di marrone / bruno.

(immagine a lato da www.wining.it)

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scala colorimetrica dei vinaccioli, Ristic et al. 2005

Per Pietro de’ Crescenzi vado per punti:

  1. Ineccepibile
  2. L’uva quando ha cambiato colore non è matura, ha bisogno di almeno 3-5 settimane prima di essere veramente pronta, sei giorni sono veramente troppo pochi.
  3. Vero. Anche questo è un parametro oggettivo della maturità dell’uva. La polpa, nel corso della maturazione, diventa sempre più molle e non rimane più adesa ai vinaccioli (o ad altre parti) come quando è acerba. Come detto sopra, da solo però questo elemento è insufficiente.
  4. No, potrebbe già essere troppo tardi, a meno che non si voglia fare vini passiti o da vendemmia tardiva.
  5. 9fbf2f7d5b88243be2c703279817c589-1Anche questo è un sistema da grandi osservatori. L’acino accresce la sua dimensione nel corso della maturazione e smette nella fase finale.
  6. Pietro cita Palladio (Rutilius Taurus Aemilianus Palladius, IV sec. d.C., autore di Opus agriculturae o De re rustica; fu l’ultimo autore agrario dell’epoca classica). Egli, a sua volta, riprende Columella. All’epoca di Pietro de’ Crescenzi, l'opera di Columella era conosciuta solo tramite le citazioni di altri autori. Il testo completo fu riscoperto solo nel 1417 dall'umanista fiorentino  Giovanni Francesco Poggio Bracciolini. Egli ne trovò una copia, dimenticata, in un monastero tedesco.
  7. All’epoca i momenti dell’anno erano indicati con osservazioni astronomiche, degenerate (a volte) nelle fantasiose descrizioni astrologiche. Qui Pietro sembra riferirsi più ad un periodo dell’anno.
  1. Quindi l’uva ideale non deve essere né acerba né stramatura (quando è più dolce ma perde l’acidità, per cui il vino non dura).
  2. La luna rischiara le nostre notti e ci fa sognare … nulla più.

Luna Vino-20160521-111300

 

https://vinoeviticoltura.altervista.org/la-maturazione-delluva/

https://www.docsity.com/it/accrescimento-e-maturazione-della-bacca-nella-vite/727805/

RUSTIONI ET AL., MATURITÀ FENOLICA VINACCIOLI: BASI CHIMICHE E NUOVO INDICE,

http://salvybignose.blogspot.com/p/technological-vs-phenolic-maturity.html

http://www.iaraosta.isiportal.com/context.jsp?ID_LINK=458&area=15

http://www.rivistadiagraria.org/articoli/anno-2017/indici-maturazione-la-maturita-tecnologica-delluva/

 

 


Un concorso su Instagram InstaContest Summer 2019

In collaborazione col Relais dei Molini di Castagneto Carducci abbiamo lanciato un piccolo concorso fotografico.

Immortalate la vostra estate nel nostro territorio con una bella fotografia, condividetela su Instagram con gli accorgimenti scritti sotto e potrete vincere, se riceverete tanti likes, un soggiorno al Relais dei Molini ed una selezione di nostri vini.

Condizioni:

- la foto deve essere stata scattata nell'estate 2019 sulla Costa degli Etruschi

- pubblicando la foto devi condividerla con @relaisdeimolini e @guado_al_melo

- inoltre usa gli # elencati nel volantino (vedi foto)

- devi essere follower delle nostre pagine (Guado al Melo e Relais dei Molini)

- la foto deve essere pubblicata come post e non nelle storie

Sono valide le pubblicazioni fino al 30 Settembre 2019

In bocca al lupo!

 


Criseo migliore vino della costa per Sommelier Toscana

Il nostro Criseo Bolgheri DOC Bianco è recensito dalla rivista dell'AIS Sommelier Toscana, potete leggere l'articolo completo qui   68716114_2618358098195678_59586408_n


Primo Levi e il viaggio di un atomo di carbonio

Ricordiamo anche noi Primo Levi, con alcune parti del suo bellissimo racconto Il Carbonio, dall’opera Il Sistema Periodico, perché parla anche di vino e vinai:

...Fu colto dal vento, abbattuto al suolo, sollevato a dieci chilometri. Fu respirato da un falco, discese nei suoi polmoni precipitosi, ma non penetrò nel suo sangue ricco, e fu espulso. Si sciolse per tre volte nell’acqua del mare, una volta nell’acqua di un torrente in cascata, e ancora fu espulso. Viaggiò col vento per otto anni, ora alto, ora basso, sul mare e fra le nubi, sopra foreste, deserti e smisurate distese di ghiaccio; poi incappò nella cattura e nell’avventura organica.
...
L’atomo di cui parliamo, accompagnato dai suoi due satelliti che lo mantenevano allo stato di gas, fu dunque condotto dal vento, nell’anno 1848, lungo un filare di viti. Ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, e di essere inchiodato da un raggio di sole.
...
E’ entrato a far parte di una molecola di glucosio, tanto per dirla chiara... Viaggiò dunque, col lento passo dei succhi vegetali, dalla foglia per il picciolo e per il tralcio fino al tronco, e di qui discese fino a un grappolo quasi maturo. Quello che seguì è di pertinenza dei vinai...

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Il punto sugli ibridi resistenti

L'altra settimana ho partecipato alla facoltà di agraria di Pisa ad un seminario sulle varietà (ibridi) resistenti di uva da vino. Sono andata con tanto entusiasmo, anche visto che sono in origine biologa vegetale (anche se ormai sono vent’anni che sono vignaiola). Sono tornata a casa con più domande che risposte ma anche voglia di fare.

Il fatto positivo è che dall’anno prossimo (salvo allungamenti burocratici) alcuni ibridi saranno autorizzati dalla regione Toscana. Noi vorremmo essere fra i primi ad accoglierne un po’ nelle nostre vigne per poterli sperimentare. Tuttavia, a chi pensa che gli ibridi siano una facile e rapida soluzione alla sostenibilità viticola, devo dire che il percorso è ancora lungo e anche questa via presenta luci e ombre, perplessità e prospettive.

La giornata è stata forse un po’ caotica, ma ricca di spunti. Purtroppo la parte più specifica e per me più interessante, l’assaggio e la discussione dei vini sperimentali, è stata un po’ ristretta nella parte finale del programma, momento in cui si arriva sempre tutti un po’ stanchi e con tanti altri impegni che chiamano. Eppure anche la parte introduttiva è stata utilissima. Il dott. Velasco, direttore del CREA, ci ha illustrato le tecniche di produzione e le opportunità offerte da questo sistema. Il dott. Materazzi, esperto di patologia della vite, ha  invece messo in evidenza soprattutto le perplessità o meglio i punti su cui ancora bisogna fare chiarezza.

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Gli ibridi sono studiati essenzialmente per resistere alle due principali malattie della vite, l’oidio e la peronospora (ne avevo già parlato molto in generale qui, mentre spiegavo la peronospora; notizie sull’oidio le trovate invece qui). Ci si concentra su queste perché sono quelle che presentano le maggiori problematiche ancora aperte sulla sostenibilità (per altre siamo già più avanti). Sono quelle che richiedono ancora un discreto uso di fungicidi, con quantitativi più o meno importanti a seconda della zona climatica e dell’andamento stagionale, oltre che per l’approccio più o meno sostenibile dell’azienda. In questo senso l’idea delle viti resistenti è ovviamente molto interessante.

Si legge a volte che con le viti resistenti non sia necessario fare più nessun trattamento. In realtà è una comunicazione scorretta. Se i produttori lo facessero, metterebbero a rischio la propria vigna.

Gli ibridi resistenti permettono di abbassare l’uso dei fungicidi ma non di abbandonarne totalmente l’uso. Le resistenze acquisite inducono una risposta di difesa della pianta a seguito del contatto col fungo, con la necrosi cellulare delle parti attaccate. Questa risposta può essere però più lenta dello sviluppo dal patogeno, soprattutto in situazioni di alta pressione della malattia, per cui sono necessari comunque dei trattamenti almeno nelle fasi iniziali. Negli studi di campo riportati nel seminario (fatti in Friuli, in una zona con alta umidità) gli ibridi in questione hanno permesso di passare dai 12-14 trattamenti col rame (contro la peronospora) a soli 2-3. Per l’oidio (con lo zolfo) ne hanno fatti 3-4 contro 12. Mi sarebbe piaciuto vedere il confronto con la viticoltura integrata, che fa già molti meno trattamenti di partenza, ma non era nei protocolli sperimentali.

Fin qui tutto bene, almeno abbastanza, ma i problemi sono emersi dopo. Prima di tutto l’aspetto che più ha colpito i partecipanti all'incontro è quello inerente ai costi e dei tempi di lavoro. Siamo molto all'inizio ma è un percorso che si prospetta molto lungo e costoso e con esiti ancora incerti.

Finora sono stati ottenuti alcuni ibridi resistenti in Germania e in altri paesi nordici. Alcuni ibridi tedeschi sono stati introdotti nelle regioni del nord-est d’Italia, autorizzati per i vini IGT. Sempre in quest’area il CREA, con Vivai Cooperativi Rauscedo, sta lavorando ad altri. La ricerca è comunque molto all’inizio nel nostro paese. Gli ibridi già ottenuti sono specifici per climi più freddi, poco adatti o comunque poco studiati per le differenti situazioni italiane. Uno dei progetti di ricerca in corso, presentato dal direttore del CREA, è sulla ricerca di ibridi resistenti per la Glera (Prosecco). Per ora hanno ottenuto 2-3 ibridi interessanti per questa singola varietà, ma ci sono voluti circa una decina anni di lavoro e diverse centinaia di migliaia d’euro d’investimenti. Rimane poi ancora da capire se i vini derivati saranno considerati comparabili a quelli del vitigno che dovrebbero andare a sostituire, soprattutto se saranno accettati dal mercato.

Se proviamo a moltiplicare queste cifre e questi tempi di lavoro per le varietà esistenti, considerando anche di dover sviluppare diversi ibridi adatti alle diverse situazioni ambientali, ecc., arriviamo a numeri molto importanti.

Rimane però ancora incerto l'aspetto del marketing. Questa non è ricerca pura ma al servizio di un settore produttivo. Dopo tanto lavoro, quanto verranno accettati dai mercati? Si è citato l’esempio virtuoso di un gruppo di produttori di uva da tavola pugliesi, i quali hanno investito con soddisfazione nel creare alcune varietà resistenti. Il problema è che si tratta di uva da tavola, appunto. Quanti fanno a caso al nome della varietà dell’uva da tavola? La maggior parte distingue forse solo fra uva nera e bianca. Invece il mondo del vino moderno si è legato, come non mai nella storia, alle varietà. Il rischio è di investire tanto per poi trovarsi degli ibridi abbastanza buoni ma comunque difficili da far accettate al mercato, al di fuori della nicchia dei consumatori più sensibili all’argomento o più curiosi. In Germania, dove sono più avanti, i vini derivati da queste varietà rimangono ancora una nicchia di mercato. Non pensiamo ai problemi relativi ad inserirli nelle nostre DOC.

Mettiamo di impegnarci, saranno poi risolutivi? Arriviamo quindi alle problematiche più agronomiche, evidenziate dal dott. Materazzi.

La prima problematica è la possibilità di rottura della resistenza che, a fronte di lunghi studi e investimenti, potrebbe obbligare a ripartire da capo. Infatti è possibile che la sempre maggiore diffusione degli ibridi porti nel tempo a sviluppare ceppi di funghi più virulenti e con cicli biologici molto più corti, capaci di superare le resistenze. Questa selezione avrebbe importanti ripercussioni anche sulla difesa delle vigne non resistenti, rendendola ancora più difficile di oggi. Il superamento di una resistenza può anche avvenire per altri motivi, ad esempio a seguito di infezioni virali delle viti.

La seconda considerazione si lega invece ad una visione olistica della viticoltura. La vigna è un sistema molto complesso, ogni volta che si va a variare un elemento, si vanno ad alterare gli equilibri in modo spesso imprevedibile. Come si comporteranno in vigna gli ibridi sul medio-lungo periodo?

Possiamo già prospettare che la forte diminuzione dell’uso di fungicidi potrebbe comportare l’effetto collaterale dell’esplosione di malattie oggi secondarie. Ci sono una serie di altri patogeni fungini che oggi sono considerati secondari. Non danno molti problemi perché sono tenuti sotto controllo indirettamente con gli stessi interventi fitosanitari che si fanno per peronospora ed oidio. Usando gli ibridi resistenti ed abbassando notevolmente l’impiego dei fungici, queste malattie potrebbero diventare importanti. Dovremo allora ricominciare ad usare i fungicidi contro di esse? Il beneficio acquisito verrebbe reso vano. Fra queste malattie ricordiamo l'escoriosi o i marciumi vari. I cambiamenti climatici in corso fanno prevedere che diventerà sempre più un problema diffuso la gestione in vigna dei funghi micotossigeni (che causano l’accumulo nel frutto e nel vino dell’ocratossina A), per ora ristretti ad alcune aree produttive molto calde.

Un’altra problematica importante è legata al fatto che, dati i tempi ed i costi già menzionati, si rischia che la ricerca si focalizzi su un gruppo ristretto di varietà, erodendo ulteriormente la già molto rosicata variabilità del germoplasma viticolo utilizzato. Detto in parole più semplici: chi spenderà tempo e soldi per fare questi studi su varietà minori oppure per cercare ibridi adatti a territori minori (o meno ricchi)? Se penso solo all'alta biodiversità delle nostre vigne: abbiamo circa un centinaio di varietà diverse!

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Alla fine della parte teorica abbiamo potuto assaggiare alcune micro-vinificazioni di 4 ibridi (2 del Sauvignon blanc, uno di Merlot e uno di Sangiovese) creati da VCR, provenienti da campi sperimentali in Friuli. Dei due Sauvignon uno mi è sembrato un po’ scarsino, l’altro più interessante. I due rossi mi sono piaciuti un po’ meno, anche se avevano buone acidità ma profili aromatici un po’ monocorde, senza complessità. Comunque non è facile giudicare da un punto di vista organolettico delle micro-vinificazioni, per lo più senza paragoni diretti con cui confrontarsi, se non la nostra memoria sensoriale. Non è facile neppure estrapolare i limiti dovuti alla natura sperimentale dei vini. Sarebbe già stato meglio poter assaggiare le prove dei campi sperimentali toscani. Ne hanno alcuni a Montalcino, Bolgheri e nel Chianti, anche se non hanno spiegato molto a proposito e non ho capito bene a che punto siano qui con la sperimentazione. Non dovrebbero essere così indietro se stanno chiedendo alla regione Toscana l'inserimento nelle varietà ammesse. Si è chiesto di poterli assaggiare più avanti: si vedrà.

In conclusione le perplessità sono ancora tante, in linea col fatto che è un percorso molto difficile, lungo, costoso e con probabilità di successo al momento ancora difficili da prevedere. I problemi di vigna sono molteplici e i benefici forse non così dirompenti (almeno al momento).

I relatori hanno chiesto che siano le aziende ad accollarsi questi costi ma fra i produttori e tecnici presenti è emersa soprattutto una riflessione di opportunità.  Non sarebbe meno costoso, meno problematico, oltre che conservativo delle varietà esistenti, continuare ad investire e lavorare sul miglioramento della difesa in vigna? In questi ultimi vent’anni sono stati fatti passi importanti in questo senso su tutto il settore, per lo meno se paragoniamo la viticoltura di oggi a quella di 30-40 anni (e più) fa. Se pensiamo poi alle forme più avanzate (integrata volontaria, per tanti aspetti il biologico), i passi sono stati da giganti. Sicuramente si può migliorare ancora, soprattutto implementando i sistemi di lotta biologica ed agronomici di prevenzione. In un sistema sempre più integrato, si potrebbe ridurre ancor di più l'uso dei fungicidi, trovandone magari altri ancor più sostenibili degli attuali ma efficaci sui patogeni primari ed anche secondari.

Così su due piedi è sembrato anche a me preferibile continuare su una strada che stiamo già percorrendo e che basta migliorare ancora un po’, a fronte dell’enormità di lavoro e problemi emersi per i vitigni resistenti. Questa mia valutazione è forse anche condizionata dal fatto di lavorare in un territorio, quello di Bolgheri, con basse problematiche fitosanitarie. Riusciamo già oggi a gestirle in modo sufficientemente buono (salvo rare annate difficili) con la difesa integrata, sia per la qualità dell’uva che per il basso impatto ambientale. Ciò non toglie che si possa migliorare ancora.

Ci sono però territori dove la viticoltura è più difficile e la pressione della malattie fungine molto più importante. Inoltre nella ricerca un conto è ragionare sull'oggi, un conto sulle possibili conquiste future, neppure troppo di fantascienza (vedete qui sotto). A volte filoni che sembrano un po' azzardati all'inizio, sono quelli che poi nel tempo potrebbero portare alle migliori innovazioni. Per questo è meglio non precludere a priori nessuna strada.

Per gli ibridi resistenti il limite maggiore rimane soprattutto quello tecnologico. Finchè si baseranno solo sull'impiego dell'incrocio tradizionale, non so quanto futuro potranno avere. Si tratta di un sistema troppo lento, con basse probabilità di successo e quindi molto costoso. Per altre colture è stato utile, ma solo per sistemi più semplici della vite, sia per numero di malattie che per la variabilità genetica della specie e le necessità d'adattamento territoriale. Vale la pena di investire così tanti soldi in un sistema zoppo già in partenza?

Sarebbe ben diverso se si riuscisse a lavorare con tecnologie più performanti, come il sistema CRISPR/Cas (qui potete trovare una spiegazione ben fatta di questa tecnica). Permetterebbe interventi più mirati e molto più veloci, con la possibilità di trovare molto più facilmente ibridi ottimali sia per la resistenza che dal punto di vista sensoriale (dei vini). Sarebbe anche più adatto a creare multi-resistenze, contro più malattie.  Non presenta inoltre le implicazioni etiche sollevate dagli OGM. In realtà la Comunità Europea al momento tende a considerarlo alla stessa stregua e questo è il più importante impedimento allo sviluppo di questo ambito.


19 luglio ore 21.15: Il vino e "Le vie del Giornalismo"

Venerdì sera 19 luglio, alle ore 21.15, a Castagneto ci sarà la presentazione, con l'autore, del libro "Il tempo di Adriano Olivetti" di Furio Colombo, nell'ambito della manifestazione "Le vie del giornalismo.

Prima dell'evento, presenteremo un nostro vino, l'Airone Vermentino 2018. La locandina è poco leggibile qui, per cui metto il link al programma completo, per gli interessati.

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Venerdì 19 luglio Furio Colombo e Maria Pace Ottieri Il tempo di Adriano Olivetti. Un giovane giornalista, Furio Colombo, arriva in Olivetti dalla Rai, attirato dall’idea di progresso e di futuro che negli anni Cinquanta si respira a Ivrea. Ma il futuro in quegli anni è anche la musica dei Beatles e di Bob Dylan, è l’America di Kennedy e di Martin Luther King, dove Adriano Olivetti lo manda alla ricerca di nuovi talenti. Un percorso di vita ed esperienze straordinario, in cui la visione olivettiana assume una dimensione internazionale e si confronta con sorprendente lungimiranza col nostro tempo. Furio Colombo è una tra le figure più note della cultura e del giornalismo italiani. Autore di celebri reportage da tutto il mondo, è stato dirigente di importanti aziende e parlamentare in diverse legislature.

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Food & Travel Italia 2019 Awards

Siamo lieti di comunicare che Attilio Scienza ha ottenuto il riconoscimento Awards 2019 di Food and Travel Italia per la ricerca e l'innovazione. Si tratta di riconoscimenti alle eccellenze italiane ed internazionali che si saranno contraddistinte per la loro qualità e per i loro servizi. I premi saranno consegnati ufficialmente il 4 ottobre al Forte Village Resort in Sardegna


Criseo 2017 - pronto!

Il nostro Criseo Bolgheri DOC Bianco 2017 è pronto.

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Michele Scienza

L’annata 2017 è stata siccitosa, con grossi cali produttivi anche se i vini sono usciti ben concentrati ma molto equilibrati. Si è lavorato molto in selezione per eliminare gli acini appassiti. Infatti il Criseo ha una bella freschezza che bilancia in modo perfetto il corpo pieno ed avvolgente, quasi “grasso”, e lunghissimo. Il colore è dorato chiaro. L’insieme degli aromi è incredibile. Abbiamo sentito via via aromi di frutta tropicale (ananas soprattutto), albicocca, frutta candita, marmellata d’arancia, miele, lievito, zafferano, ginestra, camomilla, note minerali (kerosene), cedro, foglie di limone…

Stiamo parlando di un vino artigianale, che nasce da una singola vigna (Campo Bianco= 0,7 ettari, vicino al Guado), con diverse varietà piantate insieme: Vermentino, soprattutto, e poi anche Verdicchio, Fiano, Petit manseng, Manzoni bianco. Sono raccolte tutte insieme (come i vini prefillosserici!), cofermentate e poi lasciate sui lieviti ad affinare per 1 anno (senza legno, solo nella vasca d'acciaio) e un altro anno circa in bottiglia.

Dietro tutto questo c'è il lavoro di Michele Scienza, vignaiolo che raccoglie a pieno l'eredità della sua famiglia. 

Provatelo!mappa vigne generale


La difesa nella viticoltura sostenibile 6: di altre muffe, nobili o molto meno

Uffa! Che barba! Non hai ancora finito? Non preoccupatevi: è l'ultimo capitolo ( i primi sono qui, qui, qui, qui e qui).

Oltre ai famigerati oidio e peronospora, c'è un'altra triste serie di malattie che dipendono da funghi. Per queste però non c'è niente di meglio che la buona cura della vigna, perché una buona difesa parte prima di tutto da una buona gestione agronomica. Il lavoro preventivo parte proprio dalle origini: dalla scelta ottimale del luogo dove si fa il vigneto, dall'impostazione generale della stessa (scelta delle varietà, del portinnesto, della forma d'allevamento, dell'orientamento dei filari, dello scasso della terra, ecc.)  e la gestione di tutti i lavori dell'anno.

Una volta la difesa era molto aggressiva, quasi si dovesse sterilizzare la vigna. Oggi invece ci si è resi conto che non è proprio necessario “annientare” completamente le infezioni. È sufficiente mantenerle sotto certi limiti di tolleranza che comunque ci garantiscano un'ottima qualità dell'uva e che sia abbastanza come quantità (ci dobbiamo pur vivere). Sto parlando del concetto di perdita tollerabile, altro cardine della viticoltura integrata che qui rientra alla grande.

Il vignaiolo attento e un po' precisino, che cura con amore e passione la propria vigna, come nella vignetta qui sotto, è già un passo avanti a tutti.

da Le Figaro Vin
da « Les Ignorants » d’Etienne Davodeau

Diverse muffe sono molto dannose perché colpiscono proprio il grappolo, il frutto delle nostre fatiche in vigna. La maggior parte di esse si sviluppano in luoghi e situazioni d'umidità. I meno fortunati sono di nuovo i vignaioli che stanno in climi continentali, dove questi problemi sono ricorrenti o addirittura costanti. Nel nostro ambiente mediterraneo e ventilato invece compaiono saltuariamente e pongono problemi solo in annate particolari.

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Michele in vigna

Come detto, non è possibile combatterle con una difesa diretta. Esistono dei prodotti antimuffa (soprattutto antibotritici) ma non sono sostenibili. Inoltre siamo a ridosso della vendemmia, non vogliamo usare nulla che rischi di lasciare residui nell'uva. Per questi motivi nella viticoltura sostenibile usiamo solo metodi agronomici e preventivi. Sono fondamentali, di nuovo (come per oidio e peronospora) tutti i lavori di gestione della chioma (la massa di foglie della vite): la giungla non aiuta, crea ristagni d'umidità, facilita le infezioni, ecc. Se non è sufficiente, possiamo modificare il micro-clima intorno ai grappoli ed abbassare l'umidità con la sfogliatura: si tolgono le foglie intorno ai frutti, in modo da migliorare il ricircolo dell’aria e l’esposizione al sole. Nelle zone climatiche più umide questo lavoro è fatto praticamente sempre. Nelle zone mediterranee ad alta insolazione, come la nostra, si fa solo nelle annate in cui serve, perché l'esposizione ai cocenti raggi solari può essere anch'essa dannosa per il grappolo.

Normalmente le parti interne del frutto sono ben protette dagli attacchi dei microrganismi, grazie alla buccia che li avvolge. Se però si creano delle rotture o fessurazioni, anche microscopiche, i funghi riescono ad entrare e a scatenare la malattia. Queste lesioni possono dipendere da tanti eventi, principalmente da altre malattie o parassiti (la tignoletta e l'oidio soprattutto), da perforazioni di insetti come le vespe o i moscerini della frutta, anche da pressioni dovute all'eccessiva compattezza del grappolo (per eccesso di rigoglio vegetativo) o dalle piogge intense dopo un periodo molto asciutto (che fanno come "esplodere" l'acino), dai colpi della grandine, ecc. Non possiamo controllare gli eventi metereologici o accidentali, ma possiamo cercare d'impedire le fessurazioni che dipendono dai parassiti e dagli equilibri produttivi. Un buon lavoro di difesa non è solo fine a sé stesso, per la malattia specifica, ma serve anche a gestire altre avversità.  Allo stesso modo è importantissima la buona gestione agronomica generale, che fa trovare alle viti il giusto equilibrio.

Se si vuole fare un buon vino, è cruciale anche l'ultimo passaggio: eliminare per selezione, in vendemmia, gli eventuali grappoli colpiti. Le uve malate non sono solo brutte da vedere ma sono soprattutto alterate nei loro componenti. A seconda delle malattie si ha un abbassamento degli zuccheri, alti livelli di acido acetico, di acidi organici vari, di elementi ossidativi, ecc. Si produrrebbero vini con odori e sapori sgradevoli, facilmente esposti ad alterazioni microbiche. A livello industriale è possibile recuperare uve con lievi attacchi di questi marciumi, con interventi alteranti che nel vino artigianale non si vogliono fare. In casi di attacchi medi e gravi, si avrà sempre e comunque un vino di scarsa qualità.

La muffa grigia

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Ricordiamo la più diffusa, la botrite o muffa grigia, malattia dovuta al fungo Botrytis cinerea, che colpisce non solo la vite ma anche altre piante coltivate. Può interessare tutte le parti della vite e sviluppa una muffa grigiastra che gli dà il nome comune. Soprattutto danneggia i grappoli in fase di maturazione, i quali cascano o, soprattutto, marciscono.

La muffa grigia è veramente difficile da eliminare. È gestibile solo con la  prevenzione, come detto. Ci sono in commercio oggi anche prodotti integrativi. Alcuni dovrebbero servire ad "asciugare" le varie parti della pianta dopo le piogge (come miscele di zolfo e bentonite, polvere di roccia, silicato di sodio, ...). Inoltre ci sono anche preparati microbiologici a base di Bacillus licheniformis e Bacillus subtilis. Tuttavia tutti questi interventi sembrano, al momento, poco risolutivi in caso di attacchi gravi di botrite (fonte ARSIA Toscana). Se l'attacco è lieve, come di norma da noi, sono già sufficienti i sistemi in essere.

muffa-nobileIn certi casi, in alcuni territori vocati, con certe varietà, se ci sono determinate condizioni ambientali, la malattia si può arrestare ad uno stadio precoce che non porta allo sviluppo dei marciumi. L’acino prende delle caratteristiche molto particolari, in Italia si dice che è "infavato" o "botritizzato": cambia colore (prendendo un colore che va dal giallo-grigiastro al bruno) e concentra i composti zuccherini senza alterarsi. L’uomo ha imparato a sfruttare questa situazione per produrre vini particolari, i cosiddetti "muffati", molto dolci e concentrati. In questo caso viene detta “muffa nobile”.

Il marciume acido

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è dovuto invece ad un insieme eterogeneo di diversi microrganismi, alcuni lieviti, come i generi Candida e Klockera, e batteri acetici. I grappoli colpiti marciscono ed emanano un forte odore di aceto (da cui il nome). Gli acini si spaccano e si svuotano progressivamente. Non può essere combattuta in modo attivo e vale per essa tutto il discorso di difesa preventiva fatto sopra. Un particolare agente qui è la Drosophila, il moscerino della frutta, che oltre a bucare il frutto, porta i lieviti da acini malati a quelli sani.

Il marciume nero

000094(black rot) è causato dal fungo Guignardia bidwelli. Questa malattia fungina è originaria del Nord America, dove è più presente. Arrivata in Francia nel 1885, non ha avuto per fortuna la diffusione e l’espansione delle altre malattie americane. In Italia è poco diffusa se non localmente. Ad esempio ha causato molti problemi nelle Cinque Terre (Liguria). Può colpire tutti gli organi della pianta. Sulle foglie mostra macchie marroncine a cui segue la morte del tessuto e compaiono puntini neri caratteristici. Gli acini colpiti mostrano anche loro queste macchie marroni e poi via via avvizziscono. La difesa è molto preventiva, stando attenti ad estirpare i vigneti abbandonati che possono essere una grave fonte d'infezione. Poi si basa sull'attenta sorveglianza delle vigne e l'eliminazione delle parti infette che vanno bruciate. Aiutano anche le difese che già si mettono in campo contro oidio e peronospora. Questa malattia finora non ci ha mai colpiti.

 

Gli Aspergilli neri

common-diseases-of-grapes-and-effective-control-of-grapes-5Altri funghi, detti in generale aspergilli neri, non sono mai stati considerati un problema importante per la vigna perché arrecano danni diretti limitati, almeno fino al 1996, quando uno studio svizzero mise in evidenza per la prima volta la loro capacità di produrre una sostanza molto pericolosa, l’ocratossina A (OTA). Questa tossina naturale purtroppo rimane nel vino e comporta dei rischi di tossicità cronica (i problemi si sviluppano sul lungo periodo e sopra certe dosi). Hanno scoperto che è dannosa negli animali a livello renale (a parte i ruminanti superiori adulti), nei roditori è cancerogena, teratogena e neurotossica. Sembra essere coinvolta in una malattia endemica umana presente da tempo nei Balcani, associata allo sviluppo di tumori nel tratto urinario.

Il problema delle micotossine non è solo del vino ma di diversi alimenti, primi fra tutti i cereali. Con la scoperta dell’azione della OTA, la Comunità Europea ha stabilito per legge i limiti massimi che possono essere ammessi nel vino, in modo che non sia pericolosa. Noi non siamo in un’area soggetta a questo rischio. Grazie a questo e alle buone pratiche che conduciamo in vigna e in cantina, le analisi dei nostri vini hanno sempre dimostrato l’assenza di OTA.

Questi funghi si sviluppano soprattutto nel periodo della maturazione ed entrano nel frutto da micro-fessurazioni come i precedenti. A volte possono sviluppare marciumi e muffe visibili, ma non necessariamente. Se la muffa nera è visibile, la presenza di OTA è più importante ma la tossina può esserci anche in casi asintomatici.

Gli studi hanno dimostrato che l'OTA è presente più nei vini delle zone calde, più nei rossi che nei bianchi e che cambia con le annate. Le incidenze maggiori si sono misurate nella Francia del sud, Israele e Grecia, un po' meno importanti in Spagna e Sud d’Italia. La presenza degli aspergilli è condizionata dall’andamento climatico: è minore negli anni freschi e piovosi, mentre aumenta negli anni più caldi e secchi. Tuttavia le piogge degli ultimi 20 giorni della maturazione sembrano avere un ruolo rilevante nell’aumento della tossina. Sembra che ci sia una forte differenza di sensibilità a seconda delle varietà, che ci sia più accumulo con la raccolta tardiva, con forme d’allevamento basse, per i grappoli più esposti al sole, nei suoli argillosi, ...

Non esiste una difesa specifica contro gli aspegilli neri, ma sono stati definiti dei protocolli di buone pratiche viticole ed enologiche che possono contenere il contenuto di OTA nel vino nelle situazioni geografiche e climatiche a rischio.

Una buona difesa e una buona gestione agronomica, come già detto in altri casi, sono il punto di partenza per prevenire questo problema. Inoltre, in caso di situazioni climatiche favorevoli, si è visto che è utile cercare di anticipare per quanto possibile la raccolta (più avanza la maturazione, più aumenta la tossina). Il problema maggiore si può avere sulle uve passite: finché l’umidità non si abbassa notevolmente, l’accumulo di OTA nel frutto può continuare anche durante l’appassimento (oltre che concentrarsi). È da evitare una lunga sosta delle uve prima della lavorazione (questo vale anche per tante altre ragioni qualitative).

Si è anche verificato che, a parità di OTA iniziale nelle uve, il contenuto nel vino finale può variare in base alle scelte operative di cantina. Il prolungamento della macerazione è un fattore che aumenta l’accumulo della tossina. Invece alcuni ceppi di lieviti fermentativi e alcuni batteri malo-lattici riducono il contenuto di OTA, così come alcune pratiche di illimpidimento dei vini e l’invecchiamento.

 

Infine, ci sono altre importanti problematiche della vite che dipendono sempre da funghi, ma che colpiscono la pianta in generale.

L'escoriosi

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è causata da un altro fungo molto dannoso, la Phomopsis viticola. A differenza delle precedenti, più che i grappoli attacca i tralci, soprattutto quelli di uno o due anni. Alla base del tralcio giovane si forma una zona necrotica (= di morte cellulare) con lesioni e, dopo la lignificazione, rimangono aree bianche. Il danno ai tralci si ripercuote sugli organi che essi portano: si hanno aborti dei fiori, le foglie prima si macchiano e poi seccano. L’infezione si ha in primavera in situazione di piovosità e umidità. Si diffonde anche con l’utilizzo di materiale infetto per fare gli innesti. Non ci sono cure specifiche ma si combatte bene con gli stessi trattamenti che si fanno contro l’oidio e la peronospora. A seconda delle varietà cambia molto la suscettibilità: ad esempio Vermentino, Sangiovese e Montepulciano sono molto colpite. Con una buona difesa generale riusciamo a tutelarci senza troppi problemi.

Il mal dell'esca

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è stato riconosciuto dagli esperti anche in descrizioni anche in epoca greco-romana. È una malattia incurabile, che sta mietendo molte vittime.

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carie del legno

È causato da numerosi funghi ma non è ancora chiaro il quadro completo della situazione.  Le viti colpite presentano zone di fusto imbrunite all’interno, accompagnate spesso da carie del legno. Le foglie perdono colore nelle zone fra i nervi, diventando gialle o rosse, poi imbruniscono e seccano. Segue il disseccamento di uno o più tralci e nel giro di alcuni anni si ha la morte della vite. A volte il decorso può essere anche molto rapido, con un velocissimo disseccamento di tutta la chioma (colpo apoplettico), anche se la pianta non muore subito.

Il danno è dovuto alla morte delle piante ma anche quelle malate non rendono bene: la qualità e quantità dell'uva è compromessa.

Non ci sono al momento azioni preventive o cure certe, se non il tentativo di tagliare vie le parti malate del tronco, ma non sempre funziona. Si cerca di prevenire l'ingresso dei funghi con tagli di potatura piccoli. C'è chi utilizza mastici protettivi su questi tagli o altre ferite. A seconda delle varietà cambia molto la suscettibilità, ad esempio il Cabernet sauvignon è molto colpito (come purtroppo abbiamo modo di verificare anche noi).

 

 

Ecco, la mia triste carrellata di malattie è finita. La viticoltura non è fatta solo di gioie ma di tanto lavoro, sorveglianza e cura.

La viticoltura sostenibile, su basi razionali, ci permette già ora di avere un basso impatto sull'ambiente e nello stesso tempo uva bella e sana. Ciò non significa che non ci possano essere ulteriori margini di miglioramento. Infatti, la viticoltura integrata è un sistema dinamico: la ricerca va avanti, ci potranno essere scoperte nuove o miglioramenti di sistemi già esistenti. Noi stiamo al passo.


La difesa nella viticoltura sostenibile 5: quel pasticciaccio della peronospora

Bruce Watt, University of Maine, Bugwood.org
Bruce Watt, University of Maine, Bugwood.org

Se è stato relativamente facile trovare vie sostenibili per altre avversità (vedi qui, qui, qui e qui), per la peronospora il tutto è un po' più complicato. Eppure oggi esistono sistemi abbastanza ottimali per "uscirne vivi", con un basso impatto ambientale, in attesa che la ricerca ne trovi ancora migliori.

Non la si può ignorare: rimane ancor oggi, in condizioni climatiche avverse, la malattia più difficile da gestire per non avere ripercussioni anche importanti sulla qualità e quantità di uva.

rymNZe3Prima di tutto però contestualizziamo il problema: la peronospora si scatena nei periodi piovosi o di alta umidità. Questo fa sì che per noi e per buona parte d'Italia sia un problema abbastanza saltuario e in genere ben gestibile senza troppi sforzi, salvo annate particolari. Siamo in un territorio con clima mediterraneo, ventilato, tendenzialmente arido, come quasi tutto il Centro Italia costiero e, a maggior ragione, il Sud.

Le problematiche maggiori e ricorrenti sono invece per i vignaioli con un clima più continentale e umido, soprattutto del centro e del nord Italia, per non parlare della tragedia di chi sta oltre le Alpi (Svizzera, Germania, Francia, ecc.). Considerate quindi che il massimo dell'impiego dei prodotti antiperonospora è in questi paesi.

È causata da un fungo (Plasmopora viticola) che, in condizioni d'alta umidità, attacca tutte le parti verdi della pianta. All’inizio si vede sulle foglie, con macchie biancastre. Poi si può propagare al resto, causando il disseccamento delle parti colpite, compresi i grappoli (come la parte bassa nella foto). Se l’infezione è più tardiva, i grappoli possono anche non avvizzire ma comunque maturano male (per la precoce caduta delle foglie), con effetti negativi sulle componenti e gli aromi del vino.

Fron_948459È il terzo flagello della vite arrivato dall'America nell'Ottocento. Fu trovata in Francia nel 1878, in Italia nel 1879. L’anno seguente aveva già invaso l’Italia Settentrionale, la Toscana e l’Austria. Nel 1881-82 si era già diffusa in tutti i paesi viticoli europei ed extra-europei.

Alle sue prime apparizioni in Europa dava solo danni lievi e in fasi tardive (solo qualche perdita di foglie), al punto da rendere quasi felici i vignaioli perché sfogliava “gratis” le vigne.

Col tempo però i danni peggiorarono sempre più. Iniziò ad attaccare anche i tralci, le infiorescenze ed i grappoli, con cali nelle produzioni anche importanti, con anni di vere e proprie devastazioni. Non c'era pace per i vignaioli: dopo oidio e fillossera, fu di nuovo il terrore.

Alexis03Pochi anni dopo però si trovò un sistema di difesa, grazie all'intuizione dell’agronomo francese Alexis Millardet. Aveva osservato che i grappoli di una vigna, spennellati di verderame per scoraggiare i furti dei passanti, risultavano meno colpiti dalla malattia. Nel 1885 Millardet mise a punto la cosiddetta “poltiglia bordolese”, una miscela in acqua di calce e solfato di rame. Per decenni fu la più usata, ma si svilupparono anche altre formulazioni.c-est-a-l-epoque-ou-le-vignoble-francais-subit-les-attaques-de-mildiou-qu-alexis-millardet-et-ulysse-gayon-inventent-la-formule-de-la-bouillie-bordelaise

La scoperta di questo prodotto permise di contenere i danni, senza essere risolutivo, soprattutto per le annate più difficili. A seconda della gravità degli attacchi, legati agli andamenti stagionali, non mancavano annate in cui la produzione di vino subiva abbassamenti, a volte anche importanti. Ad esempio nel 1889, 1900 e 1915 la produzione di vino diminuì di oltre il 50%, a causa delle condizioni climatiche che favorirono oltremodo questo fungo.

I limiti di questa difesa erano diversi: una certa tossicità sulla vite stessa, la scarsa efficienza, le difficoltà di un prodotto di copertura che era però facilmente dilavato dalla pioggia, con la necessità di ritrattare ogni volta per proteggere la vigna (a volte impossibile se le piogge erano battenti per giorni).

bouillieSi consideri che le formule più tradizionali di rame avevano un'efficienza molto bassa, pari al 5%, alcune anche inferiori al 1%, tutto il resto del prodotto era rilasciato inutilmente nell'ambiente. Oggi va un po' meglio, le formulazioni rameiche industriali attuali hanno un'efficienza maggiore e sono studiate per aderire meglio alla pianta. Resta il fatto che, in situazioni di alta pressione della malattia, è comunque una difesa che ha dei limiti: può far perdere una parte della produzione, a volte anche importante, se non si decide di ricorrere ad altro (a volte c'è un elefante che gira per le vigne, come dicono gli anglosassoni e come scrive qui Miles Edlmann).

Comunque queste problematiche produttive (l'ambiente allora non era una priorità) spinsero a cercare sistemi di difesa più efficaci.

[one_second][info_box title="Il rame, luci e ombre" image=""]verde-rame_NG1 Gli studi di sostenibilità degli ultimi decenni hanno messo in pensione diversi prodotti fitosanitari del passato o portato ad un uso più restrittivo per altri. Anche il rame sta seguendo questa sorte, ma la riduzione sta avvenendo con molti ritardi, cautele e anche polemiche. Questo succede perché, nonostante tutte le problematiche, è rimasto il prodotto di riferimento della viticoltura biologica e (per ora) non si sono trovati degni sostituti che rispondano ai criteri di questa impostazione ideologica.

Il rame ha di fatto salvato storicamente la viticoltura dalla peronospora ma, con la recente attenzione alla sostenibilità, è stato bocciato su diversi fronti. Se ne è usato tanto, tantissimo negli anni difficili e nelle zone più a rischio. Soprattutto nelle vecchie vigne dei paesi continentali (come la Francia) si sono trovati accumuli incredibili di questo metallo pesante.

Gli studi degli ultimi anni  (qui trovate una review, se volete approfondire) hanno dimostrato che tende ad accumularsi nei suoli delle vigne perché non si biodegrada.  Quello che le piante assorbono per il loro fabbisogno è veramente minimale (è un oligo-elemento). Il problema è che sta lì e continua il suo lavoro di biocida, ecotossico verso animali e piante. Soprattutto diminuisce l'attività microbica nel suolo ed è tossico per i lombrichi, anche a basse concentrazioni.  Ad alti livelli è tossico per la maggior parte delle specie vegetali: prima del suo uso come fungicida, in passato, era usato come diserbante. L'azione tossica è più critica nei suoli acidi, perché in queste condizioni si lega meno alle particelle del suolo e rimane più disponibile alle piante. Per fortuna è poco solubile (la solubilità aumenta però nei terreni a pH più basso), per cui non passa molto nella falda acquifera, perché si è dimostrato tossico per i pesci e altri organismi acquatici.

Curiosamente, per l'uomo, il rame non è stato oggetto di molti studi medici (così come altri prodotti tradizionali dell'agricoltura). Si sa che è irritante per occhi e pelle, tossico se ingerito. Nel 1969 ci fu uno studio medico che identificò la "sindrome polmonare degli spray da vite" per i vignaioli, che sembrava causare insufficienza respiratoria o danni al fegato. Un articolo del 1977 dell’Organizzazione mondiale della sanità ha riportato l’alta incidenza di cancro delle cellule alveolari nei "vignerons" di Bordeaux. Poi non c'è stato più nulla a sostegno ma neppure contro. Ricordo che però oggi, fortunatamente, non siamo più nelle condizioni di allora. Chi opera in vigna, salvo superficialità personali, fa dei corsi per un uso responsabile dei prodotti e dovrebbe usare dispositivi di protezione adeguati.

Fin dal principio si era invece capito che era fitotossico per la vite stessa. Tuttavia si tollerava perché non c'era altro. La pianta non muore, ma ha dei deperimenti di sviluppo e di produzione. La tossicità è più intensa a basse temperature (sotto i 10°C), sullo sviluppo delle foglie giovani e soprattutto sui fiori della vite. In estate, fra l'allegagione e l'invaiatura, può dare invece alcuni effetti favorevoli per il vignaiolo. Induce un certo rallentamento dello sviluppo vegetativo che, in questo momento, può essere utile. Inoltre il rame stimola una risposta di difesa della pianta che porta ad una maggiore lignificazione dei tralci e un ispessimento della cuticola degli acini, rendendoli meno suscettibili ad altre malattie (oidio ed altre muffe).

Nonostante l’ampio uso in vigna, rispettando i tempi di sospensione dei trattamenti prima della vendemmia, non sembra dare problemi di accumulo nell’uva e di residui nel vino, dove rimane in genere al di sotto dei limiti legali (1 mg/l). Sembra però che, per alcune varietà, abbia un’azione di modifica dell’espressione aromatica.[/info_box] [/one_second]

Negli anni ’30-’40 s’introdussero i primi prodotti di copertura acuprici (non a base di rame), con i soliti problemi di dilavamento da pioggia, ma che almeno non erano fitotossici sulla vite. Per superare i problemi di dilavamento e di efficienza, alla fine degli anni ’60 nacquero i primi prodotti sistemici (come medicine, entrano nella pianta), alcuni anche con capacità curative, in grado di proteggere anche la vegetazione in accrescimento. Più recentemente sono stati introdotti i prodotti citotropici, che entrano nei tessuti della pianta ma solo nelle zone vicine al contatto.

Negli ultimi decenni la ricerca si è invece focalizzata sulla sostenibilità dei prodotti, in modo che fossero meno ecotossici e più biodegradabili, abbandonando (o restringendo) l'uso dei fungicidi peggiori del passato.

Raymond Queneau, 1968
Raymond Queneau, 1968

Le sostanze fungicide più vecchie sono aspecifiche, come il rame e altre, per cui colpiscono a largo raggio. Per forza di cose non aggrediscono solo il responsabile della malattia ma anche altri organismi viventi. Sono quindi, chi più e chi meno, ecotossiche, aggravate (se di copertura) dal fatto di dover essere spruzzate spesso (per la pioggia).

Per superare per questo problema, negli ultimi anni si è cercato di trovare dei principi attivi molto più specifici nell'attaccare il fungo, così che colpiscano il meno possibile altri organismi viventi. La troppa specificità però fa sì che si sviluppino più facilmente resistenze nell'organismo patogeno (lo stesso discorso degli antibiotici nella medicina). Per questo possono essere usati solo per un numero limitato di volte nel corso della stagione.

Spero che sia chiaro come questi sistemi abbiano tutti luci ed ombre. Come trarne il meglio?

L'approccio vincente della viticoltura integrata è sempre quello di affrontare ogni problema da molteplici punti di vista.

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Prima di tutto ha cercato di studiare sistemi preventivi. Per la peronospora non sono risolutivi ma, in situazione di rischio, permettono almeno di ridurre la difesa successiva. Sono interventi agronomici, simili a quelli già descritti nel post precedente per l'oidio (per cui non ci torno nei dettagli), soprattutto legati ad un'ottimale gestione della chioma.

Addirittura una volta si trattava a calendario, cioè s'interveniva tutti gli anni nello stesso periodo e con gli stessi sistemi. La viticoltura integrata ha introdotto il concetto di difesa mirata, cioè fatta solo se esiste il rischio, che in questo caso dipende essenzialmente dalle condizioni ambientali, modulandola anche in base alla reale necessità, nelle minori quantità possibili.

Ormai alcuni concetti basilari di viticoltura integrata sono diventati patrimonio comune di tutto il comparto. Il suo elemento distintivo rimane comunque quello di ridurre la difesa chimica al minimo indispensabile, visto che nessun prodotto immesso nell'ambiente, naturale o meno, è privo di problematiche.bbbb

Il punto quindi essenziale per un principio attivo, fintanto che non riusciremo a svincolarci completamente, non è tanto l'origine ma quanto:

1. la sua capacità di agire in dosi bassissime

2.la sua capacità di biodegradarsi il più rapidamente possibile nell'ambiente.

Non è ancora sufficiente però, perché nessuno dei prodotti, come spiegato sopra, è privo di pecche. Viene allora attuata un’attenta alternanza dell'uso dei diversi prodotti nel corso della stagione, così da sfruttare il meglio di ciascuno e nello stesso tempo di minimizzare le problematiche che ciascuno comporta. Nessuno va in accumulo, nessuno di quelli che può causare resistenze viene usato più del necessario, ciascuno è usato nel periodo del ciclo della vite in cui dà il meglio.

contentNon esiste però un'impostazione fotocopia, ripetuta ovunque, tutti gli anni e per ogni vigna. Il piano di difesa deve essere adeguato al livello reale di rischio, che a sua volta dipende: dalla situazione ambientale, dall'andamento stagionale, dal momento del ciclo della vite, dalla varietà d'uva, dall'impostazione della vigna, ecc.index

La viticoltura integrata però non è fatta solo di annunci: un altro elemento chiave, come già visto, è sempre il controllo a posteriori del lavoro. Quanto sto lavorando bene? In questo caso si fa misurando l'assenza di ogni residuo di difesa nel terreno, nelle falde acquifere e nel vino.

IMG_2775 (2)Il sistema di sorveglianza, per capire se è necessario e quando intervenire, è una capannina metereologica posizionata in vigna (a lato, la nostra).

Il tutto inizia in primavera. Molto in generale, vige la famosa regolina del 10-10-10: deve suonare il campanello d’allarme se si ha una pioggia di almeno 10 mm in 1-2 giorni, con una temperatura intorno ai 10°C e con i tralci sviluppati di circa 10 cm. Naturalmente si tratta di un'indicazione di massima, da interpretare caso per caso.

Dopo l’infezione si ha un periodo d’incubazione di 4-15 giorni, dopo di che compaiono i primi sintomi della malattia. È molto importante intervenire prima della loro comparsa, perché da qui partono anche le infezioni secondarie che, se persistono le condizioni climatiche umide, possono arrivare fino all’autunno.

Nelle fasi successive, i trattamenti si ripetono solo in caso di necessità, sopra ad un certo livello di pioggia e di bagnature fogliari (rugiada). Esistono delle tabelle (di Goidanich o altri modelli previsionali) che permettono d’interpretare il rischio in base all’umidità e alla temperatura. Un periodo molto pericoloso è quello della fioritura, perché l'infezione può entrare nel grappolo.

Come già scritto, noi siamo in una zona a basso rischio, con condizioni sfavorevoli al massimo limitate alla primavera (e non tutti gli anni). Questo ci consente una difesa saltuaria e comunque di norma molto ridotta. Come facciamo noi? Se mi avete seguito fin qui, avrete capito che in viticoltura integrata non ci sono scelte fisse ma cambiano col livello di rischio e con i progressi del settore. Vi faccio esempi su quanto fatto finora. Nelle annate con primavere più umide usiamo in genere prodotti di copertura non a base di rame. Nelle poche annate sfortunate in cui ci è stato richiesto un intervento in fioritura (giugno), momento pericolosissimo perchè l'infezione passa al grappolo, abbiamo usato prodotti “a tre vie” di ultima generazione, biodegradabili, multi-composti che massimizzano il successo con dosi minimali. Ancora più raro è stato per noi dover intervenire dopo l’allegagione (la fecondazione e formazione del frutto), cioè a fine giugno e luglio. Abbiamo usato allora prodotti a base di rame, perché in questa fase induce anche alcuni effetti positivi, come scritto sopra. La fase pre-vendemmiale (dall'invaiatura in poi) è invece sempre di grande precauzione. Anche nel caso raro di condizioni sfavorevoli, abbiamo sempre preferito non intervenire con nessun prodotto, tollerando un eventualmente un basso livello di malattia. L’importante è non raccogliere i frutti delle eventuali piante malate, che vengono accuratamente segnate ed evitate dai vendemmiatori. Ricordo che è comunque obbligatorio per tutti rispettare i tempi di carenza di qualsiasi prodotto fitosanitario (indicano quanti giorni prima della raccolta devono essere sospesi i trattamenti).
(nella foto, la nostra vigna) Come facciamo noi? Come già scritto, siamo in una zona a basso rischio, con condizioni sfavorevoli al più limitate alla primavera (e neppure tutti gli anni). Questo ci consente una difesa saltuaria e comunque molto ridotta. Funziona? Sì, perché dalle analisi che facciamo ogni anno abbiamo zero residui nel suolo e nel vino. Nelle annate con primavere più piovose del solito abbiamo usato in genere prodotti di copertura non a base di rame. Nelle poche annate sfortunate in cui ci è stato richiesto un intervento in fioritura (a giugno), abbiamo usato prodotti “a tre vie” di ultima generazione, biodegradabili, multi-composti che massimizzano il successo con dosi minimali. Ancora più raro è stato per noi dover intervenire dopo l’allegagione (la fecondazione e formazione del frutto), cioè a fine giugno e luglio (di solito per noi periodo di solleone, mare e spiaggia). Abbiamo usato allora prodotti a base di rame, perché in questa fase induce anche alcuni effetti positivi, come scritto nel box sopra. La fase pre-vendemmiale (dall'invaiatura in poi) è invece sempre di grande precauzione e, anche nel caso raro di condizioni sfavorevoli, abbiamo sempre preferito non intervenire con nessun prodotto, tollerando un eventuale basso livello di malattia, garantito dal buon lavoro preventivo. L’importante è non raccogliere i frutti delle eventuali piante malate, che segnaliamo ed evitiamo di vendemmiare.

Comunque la ricerca continua a lavorare,

per migliorare ancora di più la difesa da questo fungo, che rimane difficile soprattutto per gli ambienti climatici ad alto rischio. Da un lato si lavora sulle viti resistenti (vedi sotto) anche se è un percorso non certo facile e veloce. Dall'altro si cerca di migliorare i prodotti fitosanitari attuali o trovarne di nuovi.

Un'ampia fetta della ricerca sta lavorando per riuscire a ridurre i quantitativi di rame da utilizzare, cercando prodotti integrativi o sostitutivi accettabili nell'ambito del biologico (i risultati potranno comunque essere utili per tutti). Si stanno studiando prodotti a base di fosfonati di potassio, chitosano cloridrato, estratti di alghe marine, ... Sono anche nati dei prodotti a base di rame sistemici, che entrano nella pianta (per ora venduti come concimi, per cui sfuggono ai rigidi controlli dei prodotti fitosanitari). Sembra però che portino ad un maggiore accumulo del metallo nel frutto.

e520f9d433a514b9416a482f614ea6fd_XLAlla Fondazione Mach hanno sequenziato il genoma della Plasmopora viticola e hanno identificato composti volatili, rilasciati da viti resistenti, che intervengono nell'inibizione del fungo. In Francia, all'INRA, sono in corso studi su una proteina prodotta dalle lumache, che compone il rivestimento delle loro uova e le protegge dai funghi.

Sono solo alcuni esempi, si vedrà se uscirà qualcosa d'interessante.

Tuttavia credo che ormai siano chiari i limiti dell'impostazione di una difesa basata essenzialmente su prodotti da spruzzare in vigna, soprattutto se aspecifici: ognuno di questi rivela inevitabilmente criticità (che ho elencato sopra), perché un biocida uccide, qualunque sia la sua natura. Il salto vero della viticoltura sarà uscire da questa logica.

Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit.” (Tutto è veleno: nulla esiste di non velenoso. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto, Paracelso)

2015-02-25-12.04.06-pmHo già accennato agli estratti di alghe marine, che sembrano essere in grado di  diminuire la suscettibilità della vite alla peronospora. Sono solo un esempio dell'ampio mercato di prodotti integrativi che in questi anni sta fiorendo come non mai.

Sono diversi prodotti, identificati coi termini di biostimolanti, induttori di resistenza, coadiuvanti, corroboranti, ecc. Non sono prodotti di difesa o curativi in senso stretto ma sembra che aiutino le viti a resistere meglio contro certe malattie o permettano una riduzione dei trattamenti (non solo per la peronospora), altri migliorano in generale lo sviluppo e la produzione della pianta. Tuttavia è un ambito al momento abbastanza confuso e poco regolamentato (leggete anche qui), con proposte anche interessanti ed altre poco chiare.

Per fare un paragone con la medicina, i prodotti fitosanitari sono come i farmaci, questi come gli integratori alimentari.

01-14I prodotti fitosanitari (come i farmaci) per essere messi in commercio devono dimostrare alle autorità efficacia, sicurezza e qualità. Ci vogliono studi di almeno un decennio e più. Gli altri (per ora inseriti nella categoria generica dei fertilizzanti), come gli integratori alimentari umani, devono solo dimostrare sicurezza e qualità (cioè non devono essere nocivi e corrispondere ai contenuti dichiarati dal produttore). I prodotti chiamati corroboranti e i preparati biodinamici non devono neppure rispondere di questo.

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La sostenibilità è il nostro futuro e dobbiamo lavorarci sempre più. Tuttavia bisogna che sia seria, non solo un afflato emotivo, smosso spesso da immagini evocative come questa, utile solo ad alimentare il marketing.

Alcuni di questi prodotti hanno solidi studi di laboratorio alle spalle, in grado di spiegare in modo scientifico i meccanismi alla base dell'azione del prodotto. Non è così però per tutti.  Quello che si perde un po' nella nebbia è la loro reale efficacia in vigna, la cui prova spesso è demandata agli utilizzatori.

Non è per niente facile, però, per noi vignaioli farci un'idea chiara.   Considerate come è difficile visto che sono prodotti che vanno usati insieme alla normale difesa, in situazioni dove le variabili sono notevoli (il rischio di malattia cambia ogni anno ma anche fra vigna e vigna). Il giudizio, nel bene e nel male, è quindi a volte molto personale, influenzato anche dalle proprie aspettative o credenze. A volte il successo commerciale del prodotto è indicato come parametro di valutazione dell'efficacia (come esempio potete leggere l'ultimo capoverso qui), ma a me pare un circolo vizioso.

Risposte più chiare ci saranno forse sul lungo periodo. I prodotti veramente validi col tempo hanno sempre dimostrato la loro efficacia, nonostante le giuste cautele iniziali. Per ora è veramente complicato districarsi in questa giungla di proposte commerciali. Allo stesso modo, i consumatori fanno fatica a capire cosa serve effettivamente a difendere la vigna e cosa invece serve solo a darsi una certa connotazione attraente per il marketing. Infine, comunque, ognuno è libero di spendere i suoi soldi come preferisce.

Le viti resistenti

Se vogliamo veramente smettere di buttare prodotti in vigna, la vera rivoluzione sarebbe di poter coltivare viti resistenti a queste malattie, almeno a quelle prevalenti (fra oidio e peronospora ci giochiamo circa l'80% dei prodotti fitosanitari utilizzati in viticoltura, naturali o meno).

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In realtà è da tempo che la ricerca lavora in questa direzione, con incroci fra viti naturalmente resistenti (viti americane o asiatiche o ibridi di queste con viti europee, non adatte a produrre vino) e varietà d’interesse produttivo. La progenie dell'incrocio viene poi studiata, in numero elevatissimo, per cercare quegli individui che mettano insieme i caratteri desiderabili dei due genitori (resistenza alle malattie + ottime caratteristiche per la vinificazione).

Vi ricordate di Mendel e degli incroci dei piselli studiati a scuola? Nel disegno è abbastanza facile, ci sono solo due geni interessati (A e B). Immaginate cosa diventerebbe questo schemino se i geni in gioco fossero molti di più.

Purtroppo i risultati finora ottenuti sono ancora limitati e gli avanzamenti sono lentissimi. Si consideri che i primi progetti sono iniziati alla fine dell'Ottocento ma solo dopo gli anni '80 (del XX sec.) si sono ottenuti i primi incroci paragonabili alla Vitis vinifera per qualità organolettiche del vino. In generale il sistema dell’incrocio tradizionale richiede tempi molto lunghi, con probabilità di successo molto basse. Oggi ci sarebbero sistemi di miglioramento genetico più mirati (come la cisgenetica), che renderebbero questo processo molto più veloce, ma sono vietati nella ricerca europea.

Impollinazione dei fiori della vite

I sistemi di incrocio tradizionale (nella foto l'impollinazione manuale dei fiori della vite) hanno comunque creato già alcune varietà resistenti. Ad esempio la Germania, con rischi fitosanitari molto più gravi dell'Italia, ha investito molto e da lungo tempo in queste ricerche, creando già un discreto numero di varietà resistenti. Eppure il loro uso non sembra decollare più di tanto, soprattutto per problemi di marketing. Il mondo del vino moderno è legato come non mai alla varietà. I consumatori (e anche i produttori) sono restii ad abbandonare quelle attuali, ormai affermate. Ci vorrebbe un enorme salto culturale che richiederà tempo e la volontà d'impegnarsi in esso.

In Italia la ricerca è più indietro. Solo di recente sono uscite sul mercato alcune varietà interessanti, ancora da valutare nei diversi areali viticoli. Siccome la ricerca è stata finora più nordica, in realtà non ce ne sono molte adatte ai nostri climi più caldi. Alla resistenza culturale qui s'aggiunge anche la burocrazia viticola (molto forte, così come in Francia), con le problematiche d'inserire queste nuove varietà nei contesti delle indicazioni geografiche e, ancora più difficile, delle denominazioni d'origine.

uva
https://terraevita.edagricole.it

L'uso di queste varietà non permette comunque (al momento) di abbandonare completamente i prodotti fitosanitari, ma solo una loro riduzione (che comunque sarebbe già un buon obiettivo). Infatti alcuni incroci sono resistenti solo alla peronospora, alcuni ad oidio e peronospora insieme, ma ci sono anche le altre avversità. Infine, c'è il rischio che gli organismi patogeni sviluppino mutazioni che superino le resistenze acquisite. Per evitarlo sono comunque consigliati alcuni trattamenti per mantenere basso il livello della popolazione del patogeno e rendere meno probabile questo evento.

Tutte queste problematiche non devono comunque fare desistere da un percorso in evoluzione, che potrebbe darci le risposte più interessanti per il futuro della viticoltura.

Continua qui


La difesa nella viticoltura sostenibile 4: da Democrito al mal bianco

Se pensate di averne già abbastanza (qui, qui e qui), considerate che non siamo arrivati alla parte peggiore: quella delle malattie fungine.

I funghi sono la rogna peggiore per il vignaiolo: possono compromettere in modo molto serio la produzione dell'uva (anche se dipende molto dal proprio ambiente climatico e dall'andamento stagionale). Inoltre, se può essere (relativamente) semplice trovare sistemi alternativi per insetti ed acari, per i funghi il discorso si fa molto più complicato.

Per questo è necessario tornare un po' indietro e fare un piccolo inciso storico. Ci vuole poi anche uno sforzo mentale in più, perchè i concetti su cui si basa la difesa sostenibile, nel caso di diversi funghi, sono un bel po' più complessi ed articolati. Se invece credete che bastino pochi e semplici slogan per definire l'intricato e difficile mondo della difesa della vite, potete fermarvi già qui !

[info_box title="La nascita di una nuova agricoltura" image="" ] Le malattie delle piante d'interesse agricolo sono stato un problema da sempre per l'umanità. Nel passato erano vere e proprie calamità che potevano scatenare carestie o malnutrizione, soprattutto per alimenti basilari come i cereali (o altro). Erano considerate una maledizione degli Dei o una punizione dei peccati degli uomini. Contro di esse furono emesse bolle papali, intentanti processi, vennero condannate simbolicamente al rogo, si facevano benedizioni e riti religiosi diversi per tenerle lontane dai campi.

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In parallelo alla superstizione l’uomo ha però da sempre cercato dei rimedi, cioè qualcosa capace di proteggere o curare le piante. Ad esempio Democrito, nel V sec. a.C., consigliava di immergere i semi, prima di seminarli, in succo di Sedum (una crassulacea), per proteggerli dalle malattie. Plinio il Vecchio riporta l’uso di un preparato di difesa a base di cenere, foglie di ligustro tritate ed urina diluita.

Già nel Sette-Ottocento gli agricoltori avevano messo insieme una vasta gamma di prodotti da utilizzare: rame, arsenico, cianuro, zolfo, soda caustica, nicotina, … senza considerare la loro pericolosità, a volte, per l’uomo e per le piante stesse. La difesa si basava essenzialmente sul cercare qualche prodotto da spruzzare sulla pianta per uccidere il responsabile dell’avversità. Si provavano diverse sostanze fra quelle conosciute, basandosi sull’intuizione di agronomi o agricoltori, e si vedeva cosa funzionava.

ec5e7a36-d265-45bf-881b-fda511edd30aNel Novecento continuò questa impostazione, supportata dai concomitanti sviluppi della chimica (soprattutto dagli anni ’30). I prodotti fitosanitari diventarono così sempre più potenti ed efficaci. Erano usati spesso in abbondanza, in modo preventivo, anche in maniera maldestra, senza considerare i risvolti ambientali e gli effetti collaterali. Il culmine si raggiunse negli anni ’50, con un sistema di difesa agricolo molto aggressivo e preventivo, ben descritto dagli americani con la frase “irrora e prega” (“spray and pray”).

Soprattutto dagli anni ’60 si iniziò però a capire che questo modello di sviluppo, pur avendo migliorato le rese agricole come non mai nella storia, comportava costi troppo elevati per l’ambiente e la salute. Già dal Sette-Ottocento alcuni filosofi mettevano in guardia dai problemi dell’impatto delle attività dell’uomo sulla Natura. Tuttavia fu con gli anni ’60 del Novecento che iniziò a nascere e a diffondersi una coscienza ambientalista a livello sociale. Fu il momento di svolta decisivo, che ha dato il via a tante ed importanti trasformazioni, anche se i primi veri risultati sono arrivati decenni dopo. Si è iniziato a capire che doveva nascere una nuova idea d’agricoltura, nel nostro caso di viticoltura, capace di rispondere ai bisogni umani ma anche di rispettare l’ambiente e la salute.

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Non si è trattato però solo di passare ad usare prodotti diversi rispetto alla difesa tradizionale. La nascita dell'agricoltura (viticoltura nel nostro caso) integrata ha determinato un vero e proprio cambiamento d’impostazione mentale. Non c’è più il vecchio approccio di vedere la malattia solo come un rapporto di coppia pianta-patogeno e cercare qualcosa che uccida quest’ultimo. In diversi decenni di ricerca si è capito che lo sviluppo di una malattia dipende da un sistema ben più complesso di fattori che, se gestiti in modo integrato, possono portare a vie più sostenibili di difesa.

Questo percorso storico ci ha portati nel tempo all'abbandono dei peggiori prodotti fitosanitari del passato (a volte con lentezze criminali), alla nascita di prodotti di nuova generazione, più studiati e biodegradabili, il cui uso in generale è comunque molto più limitato e controllato. Si utilizzano comunque in modo sempre più ridotto, perché nella viticoltura integrata si devono privilegiare azioni preventive di tipo agronomico e di lotta biologica. L'obiettivo è l'abbandono totale. Per alcune avversità ci si è già riusciti, per altre siamo sulla buona strada e, in attesa di trovare sistemi migliori, il nostro lavoro è contenerne l'impatto ambientale. [/info_box]

DIO-300x233La vite è comunque una pianta che storicamente non ha quasi mai destato grandi preoccupazioni, almeno fino all’Ottocento. Nei documenti storici delle epoche precedenti, le annate ricordate come pessime erano dovute ad altri problemi. Nel Medioevo l’agronomo Pietro De’ Crescenzi scriveva che la vigna teme soprattutto il gelo e la tempesta, che si possono scongiurare solo con le “pietose preghiere fatte da un puro e mondo cuore alla Maestà di Dio”. Gli unici parassiti dai quali invita a stare in guardia sono molto più grandi: gli stornelli e i ladri a due gambe! Nel 1709, ad esempio, una terribile gelata distrusse in una notte tutta la produzione europea.

Non è che la vite non abbia malattie e parassiti storici. Molti insetti ed acari, fra quelli dei post precedenti (qui e qui), o di cui parleremo in seguito, sono presenti da sempre. Studiosi moderni hanno riconosciuto in alcune descrizioni di autori greco-latini il “mal dell’esca” (un'altra malattia dovuta a dei funghi). Tuttavia queste avversità non intaccavano più di tanto la produzione o, meglio, lo facevano in modo sufficientemente tollerabile per la sensibilità (o le necessità) delle epoche antiche oppure si accettavano con più fatalismo. Le grandi catastrofi viticole sono più recenti e sono arrivate da lontano.

La musica per i vignaioli è infatti decisamente cambiata nell’Ottocento, quando dall’America arrivarono i tre grandi flagelli della vite, due malattie fungine (oidio e peronospora) e una data un insetto, la fillossera (un acaro, di cui ho già parlato). Queste malattie erano capaci non solo di far perdere buona parte dell’uva (se non tutta) ma, addirittura, di minacciare l’esistenza stessa della viticoltura. Il loro arrivo dall'America, nella seconda metà dell'Ottocento, ha completamente stravolto la viticoltura europea.

Arrivarono insieme a viti americane importate, come ospiti indesiderati. Per la loro capacità devastatrice, agirono da stimolo potente per lo sviluppo della difesa della vite.

[info_box title="Oidio o mal bianco" image="" ]oidio-della-vite_NG3

L'oidio viene chiamato anche "mal bianco" perché le parti colpite (germogli, tralci, grappoli) sono come ricoperti di una "farina" bianca, che è il micelio del fungo. [/info_box]

Il primo, in ordine cronologico, fra i grandi danni venuti dall’America nell’Ottocento è stato l'oidio. E' anche quello che interessa di più il nostro ambiente climatico mediterraneo, tendenzialmente arido. La prima notizia di esso risale al 1845, osservato in serre vicino a Londra. Nel 1850 la malattia fu trovata in vigne francesi, poi in Belgio, nel 1851 in Italia e nel bacino del Mediterraneo in generale.

E' causato da un fungo chiamato Erysiphe (o Uncinula) necator. Tutti gli organi verdi della pianta subiscono attacchi e forti alterazioni. L'oidio non porta in genere alla morte della vite ma ne compromette seriamente lo sviluppo e la produzione dell'uva, che può diminuire o essere compromessa del tutto. Inoltre causa delle spaccature sugli acini che permettono l'ingresso di altri funghi e batteri.

A differenza di tante muffe, non ha bisogno di umidità per iniziare i suoi processi. Anzi, sembra esserne inibito dalle piogge nelle fasi iniziali. Colpisce in quasi tutta l'Italia, soprattutto al centro e al sud, a nord nelle zone collinari più asciutte, in generale ovunque nei periodi poco piovosi. Ci sono comunque varietà più o meno sensibili.

[one_second][info_box title="Come agisce lo zolfo" image="" ]238-09-13-07-zolfo

Lo zolfo si usa in forma polverulenta o in preparati liquidi. E' un prodotto detto "di copertura", perché agisce stando sulla superficie della pianta. Penetra nella cellula del fungo perché è liposolubile, danneggiandone la parete e la membrana. In questo modo la cellula perde acqua e il fungo muore per disidratazione. Inoltre interferisce col metabolismo cellulare. Non agendo in modo specifico, non crea problemi di resistenza (con i prodotti fitosanitari si può creare lo stesso problema delle resistenze degli antibiotici in medicina).

Lo zolfo non ha finora evidenziato problemi rilevanti di tossicità ed è un sistema economico. Non dà problemi di accumulo nell'ambiente, soprattutto se dosato nel modo più opportuno. Se usato in modo inappropriato, può dare però alcuni problemi alla microfauna della vigna, a temperature molto elevate può essere anche fitotossico (cioè creare problemi alla vite stessa). Se viene usato troppo vicino alla vendemmia, può alterare i vini (i lieviti possono trasformalo in acido solfidrico che dà odori sgradevoli).[/info_box] [/one_second]

All'epoca della sua comparsa, la scoperta del rimedio fu abbastanza veloce. Nell'Ottocento lo zolfo era già usato per le malattie di altre piante. Fu tra i primi rimedi provati e dimostrò di funzionare anche per l'oidio. Nella sostanza la difesa non è cambiata molto da allora, perché lo zolfo ha dimostrato da sempre di essere un rimedio efficace, senza rilevanti problemi di impatto ambientale e di salute. Tuttavia presenta alcune criticità, per cui nella viticoltura integrata e sostenibile si lavora per cercare comunque di ridurre al minimo il suo utilizzo.

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La prima fase nella viticoltura integrata è però sempre e comunque la prevenzione. Diversi lavori agronomici, se fatti con attenzione e cura, aiutano a sfavorire l'instaurarsi del fungo. Hanno un'azione preventiva tutti quei lavori che portano ad un'ottimale gestione della chioma (tralci e foglie), evitando troppi affastellamenti vegetativi. Anche la scelta della forma di allevamento della vite può contribuire a sfavorire l'attacco: ad esempio noi abbiamo il guyot e il cordone speronato che rendono le viti meno suscettibili.  Anche la sfogliatura intorno al grappolo è utile. E' fondamentale anche gestire in modo ottimale l'equilibrio della vigna: si è visto che la vite è più suscettibile al fungo in situazioni di eccessivo rigoglio, se si fanno concimazioni eccessive, se si usano portinnesti troppo vigorosi, ecc.

L'azione numero 2 è l'attenta sorveglianza della vigna, altro cardine della viticoltura integrata, per cogliere i primi segnali di pericolo ed intervenire in modo tempestivo ed appropriato, senza lasciare "esplodere" la malattia. Accorgersi di una malattia in fasi più avanzate richiede sempre un intervento più aggressivo, cosa che si vuole assolutamente evitare. Sembra banale, ma vi assicuro che non è così scontato.

[info_box title="La viticoltura integrata, Cenerentola del settore" image="" ] Entomologie

La viticoltura integrata è la meno conosciuta in assoluto al pubblico, un po' perché si è comunicata poco, un po' perché è poco mediatica per definizione. Non è semplificabile in facili slogan (altrimenti non sarei qui a scrivere questi papiri!), non ha storie fantastiche ed avvincenti. E' fatta di ricerca, lavoro, fatica e professionalità, come in realtà è l'essere vignaiolo (c'entra anche la passione :-) ).

Oggi alcuni principi basilari della viticoltura integrata sono diventati patrimonio generale del mondo viticolo, alcuni proprio imposti per legge (viticoltura integrata obbligatoria). Fra questi vi è il fatto di non fare più interventi a calendario, come una volta, ma con sistemi di sorveglianza, d'utilizzare sistemi che evitino le derive dei prodotti, il concetto di perdita tollerabile, di gestione olistica della vigna, ecc. Anche le aziende viticole meno sensibili ai temi ambientali si sono dovute più o meno adeguare all'evoluzione del settore ed allineare ad alcuni standard di base.

La scelta delle forme più innovative e sostenibili è però ancora su base volontaria, quella che è chiamata viticoltura integrata volontaria o solo viticoltura integrata (quella obbligatoria è ormai basilare). E' quella che facciamo noi.

Oggi è molto più nota la viticoltura biologica, la cui nascita è intrecciata a quella della viticoltura integrata. Entrambe sono nate negli anni '60, nella ricerca di un'agricoltura più rispettosa dell'ambiente e della salute. Per molti versi si sovrappongono. La differenza principale sta nel fatto che nella viticoltura integrata il criterio di scelta è molto razionale e privo di preconcetti: si scelgono le migliori pratiche al momento disponibili, cioè quelle che che hanno dimostrato la migliore efficacia produttiva e il più basso impatto ambientale. Nel biologico il presupposto di scelta primario è che si usino prodotti che siano "naturali". Sono criteri di scelta che a volte si sovrappongono, a volte però no.

In generale, dal mio punto di vista, queste classificazioni ormai sono passatiste. Si dovrebbe solo discutere sul fatto che la singola pratica sia sostenibile o meno e di come migliorarla ancora. Ci sono però risvolti non tecnici che pesano. Parlo dei sussidi pubblici concessi all'agricoltura biologica (ottenuti grazie al fatto di essere riusciti, meglio di altri, a fare lobby politica). Inoltre certe impostazioni (o slogan) si diffondono fra le aziende perché sono risultate vincenti nel marketing emozionale, al di là della loro reale efficacia in vigna e/o impatto ambientale. Non a caso la parola "naturale" ha preso sempre più piede nel sentire comune, anche se ormai è ampiamente abusata a fini commerciali.

Ovviamente sapete che esiste anche la viticoltura biodinamica, ma questa va decisamente su altri piani (astrali ed esoterici). Non si basa su criteri scientifici e razionali di cui si possa discutere. I suoi principi basilari sono spiegati qui. ).

Oggi c'è molta confusione in tutti questi concetti, che gioca molto sull'ignoranza in agricoltura della maggior parte della gente. Si mescolano concetti concreti di sostenibilità a slogan impattanti ma di fatto vuoti. [/info_box]

Se poi è necessario intervenire con lo zolfo, l'impostazione della difesa integrata non può essere standard, ma deve essere studiata "su misura" per ogni vigna, diversificata per la situazione ambientale particolare, l'entità del danno, la varietà dell'uva, la gravità delle infezioni degli anni precedenti, ecc. Il momento dell'intervento in genere va dal germogliamento all’invaiatura, anche se chi ha infezioni importanti può avere problemi anche dopo.

Se si vuole che abbia effetto positivo e nello stesso tempo per evitare inutili (e dannose dispersioni), la distribuzione dello zolfo (come ogni prodotto) deve essere fatto nel momento e nel modo più opportuno, in base alla temperatura, alla ventosità, ecc. Oggi ci sono obblighi per gli agricoltori in questo senso, fra cui quello di fare dei corsi e avere un patentino (salvo poi la mancanza di professionalità). Inoltre, decenni di ricerca ingegneristica, hanno anche portato all'evoluzione delle macchine irroratrici, con attrezzatture che evitano il più possibile le dispersioni. Purtroppo però ci sono in giro ancora tante attrezzature obsolete, soprattutto fra gli agricoltori non professionali.

Oltre ai prodotti a base di zolfo, esistono, per la cronaca, anche dei prodotti sistemici organici, utili nei casi più gravi, soprattutto con infezioni ripetute, da usare comunque con grandissima precauzione (che noi non usiamo). Alcuni di questi possono creare problemi di resistenze.

[one_second][info_box title="il controllo è la base di tutto, fintanto che non troviamo soluzioni migliori" image=""]agricoltura_sostenibile_biologica

Lo zolfo è classificato fra i prodotti "naturali", ma è sufficiente per sentirsi al sicuro? Con lo zolfo non sembrano esserci molto problemi ma non è così scontato.

Il termine naturale è affascinante ed accattivante, rischia però di essere un segnale mentale di "stop" ad ogni ragionamento ulteriore. Non a caso oggi è ampiamente abusato nel marketing commerciale.

Identifica l'origine (vera o a volte anche presunta) di un prodotto, ma non ci dice nulla sulla sua azione o la sua pericolosità per l'ambiente e la salute. Oggi, inoltre, c'è particolare confusione intorno a tutto questo, con il prevalere di un linguaggio impreciso ma che ormai domina ovunque.

Di per sé, la chimica è semplicemente la scienza che studia la composizione della materia. Dire che un prodotto "non è chimico" è un nonsense. Se con questo si vuole dire che non è un prodotto di sintesi, non è proprio certo. Molti dei prodotti "naturali" venduti oggi sono di sintesi, cioè sono prodotti comunque con processi industriali chimici. Non sono ricavati direttamente "dalla natura" come si potrebbe credere. Questo assottiglia molto il confine.

Fino al XIX secolo in agricoltura si usavano solo prodotti naturali nel vero senso del termine, visto che non esisteva ancora l'industria chimica. Molti di essi sono stati ormai abbandonati proprio perché si è riconosciuta la loro indiscussa pericolosità: arsenico, cianuro, nicotina... Oggi altri sono in discussione, come il rame. Quindi "naturale" non è assolutamente garanzia di qualcosa di innocuo per la nostra salute o per l'ambiente.

Queste classificazioni sono semplicemente poco utili. Non ci dicono veramente come agisce quella sostanza, se è utile o no per quello che deve fare, se è pericolosa o no per la nostra salute e per l'ambiente, ecc. Sono solo dei luoghi comuni, cioè dei dogmi che accettiamo passivamente senza riflettere sulla loro reale validità.

Cosa è utile allora?

Per conoscere e scegliere i prodotti fitosanitari migliori è molto più informativo (e sicuro) classificarli attraverso parametri che ci facciano capire come lavorano e che effetti hanno.

Nulla è perfetto ma per arrivare alla vendita in Europa, un prodotto fitosanitario deve passare attraverso un lungo protocollo di studio che è oggi principalmente orientato a dimostrarne la sostenibilità, indipendentemente dalla sua origine vera o presunta.

Sono molto simili ai protocolli imposti per i farmaci umani. L'aspetto fondamentale è capirne l'efficacia (cioè quanto è bravo a fare il suo dovere), se è tossico o meno, qual è l'eventuale livello di tossicità (per l'uomo) e se questa è acuta o cronica, la fitotossicità (tossicità sulla pianta che deve difendere), l'ecotossicità (il suo eventuale accumulo nell'ambiente ed azione su animali e altre piante), l'eventuale traslocazione nelle acque, l'eventuale accumulo nel prodotto agricolo che beviamo (o mangiamo), studiare le dosi di rischio, la possibilità di sviluppare resistenze nel patogeno, ...

L'eventuale dannosità è studiata non solo per il principio attivo (cioè la sostanza principale che agisce contro la malattia) ma anche per i diversi ingredienti e coadiuvanti che compongono il prodotto commerciale. Questi servono a facilitare l'azione del prodotto o altro. Possono servire a veicolarlo, aiutarlo ad aderire meglio alla pianta, renderlo meno volatile (meno dispersibile nell'ambiente), deodorarlo, colorarlo, ecc. Ci possono però essere anche sostanze indesiderate, a seconda della qualità di chi produce (impurità, contaminazioni, prodotti intermedi di produzione). Ad esempio, alcuni prodotti commerciali a base di zolfo sono stati vietati perché hanno dimostrato livelli alti di tossicità per l'alta presenza di selenio. Alcuni formulati di rame sono stati eliminati in passato perché presentavano impurità pericolose di cadmio, piombo e arsenico. [/info_box] [/one_second]

Noi usiamo zolfo polverulento. Con un attento lavoro di prevenzione e di controllo della vigna, è possibile gestire la difesa dall'oidio senza particolari problemi, con pochi e controllati interventi. Lavorando bene non andiamo mai oltre l'invaiatura dell'uva, evitando il rischio di portarci residui nel mosto.

imagesLa ricerca sta lavorando all'individuazione di sistemi alternativi allo zolfo. Al momento esiste una forma di lotta biologica basata su un iper-parassita (un fungo che è un parassita del parassita), l'Ampelomyces quisqualis (immagine a lato). Vive a spese di numerosi oidi, ne invade le cellule e le porta a degenerazione. Al momento, però, non è una pratica in grado di sostituire lo zolfo, se non in caso di attacco molto limitato. Se usato nelle fasi finali della stagione, sembra che possa aiutare a limitare lo sviluppo dell'oidio per quella successiva. Il suo più grosso limite è che questo fungo si sviluppa bene in determinate condizioni climatiche (alta umidità e temperature non troppo elevate), che non sono le stesse ottimali dell'oidio. Si dovrebbe riuscire a trovare un iper-parassita che lavori al meglio nelle stesse condizioni di rischio della malattia per avere risultati migliori.

Si stanno studiando altri agenti di lotta biologica, come i batteri Pseudomonas fluorescens e Bacillus subtilis, ma per ora in campo non danno risultati sufficienti.

La lotta biologica ha dato buoni risultati con gli insetti. Invece i microrganismi (batteri e funghi) funzionano magari benissimo in laboratorio o in serra ma è molto difficile controllarne lo sviluppo e la diffusione in campo. Hanno spesso bisogno di ben determinate condizioni ambientali ottimali (temperatura, umidità, ecc.) per sopravvivere e svilupparsi. In campo bastano anche piccole variazioni ambientali locali per rendere loro la vita difficile e rischiare di rimanere senza protezione. Possono essere utili nell'ottica di integrare dei prodotti fitosanitari, ma non di sostituirli del tutto. Non secondario, anche se sembra un po' trascurato, è anche capire l'impatto ecologico di questi microrganismi (come gli insetti alloctoni di cui abbiamo già parlato).

Sono in corso linee di ricerca che lavorano su prodotti fitosanitati alternativi allo zolfo, come il bicarbonato di sodio, di potassio e i silicati. Non è però ancora chiara del tutto la loro funzionalità e neppure se hanno reali vantaggi rispetto allo zolfo. Ad esempio, possono dare problemi di fitotossicità. Il bicarbonato di sodio viene facilmente dilavato anche solo da abbondante rugiada. Inoltre, altera il pH del suolo e potrebbe creare problemi alla crescita delle piante. Ci sono anche studi in corso sul polisolfuro di calcio, su oli vegetali, oli minerali, oli essenziali (ma sono troppo costosi) e la latto-perossidasi (enzimi del latte). Al momento sono linee di ricerca con diversi livelli di sviluppo, si vedrà cosa ne uscirà.

Un estratto della pianta esotica Reynoutria sachalinensis sembra avere capacità anti-fungine su alcune piante ornamentali, perché in grado di stimolare la produzione di fenoli. Al momento è stata però "bocciata" dell'Europa perché la documentazione presentata non è stata in grado di escludere la presenza, nell'estratto, di sostanze mutagene, cancerogene, tossiche per la riproduzione e tantomeno di scongiurarne l’attività di perturbatore endocrino (naturale non significa sempre non pericoloso).

(Prosegue qui e qui)


La difesa nella viticoltura sostenibile 3: antipatici postini

Come già accennato, alcuni insetti molesti delle nostre vigne sono ancora più temibili perchè possono portare con sé una brutta sorpresa aggiuntiva. Possono infatti fare da postini (vettori) di virus e fitoplasmi che causano gravi malattie. Così anche certi bei fiorellini, come il convolvolo della foto sopra, non sono proprio innocui.

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Già nell’Ottocento si hanno descrizioni dei sintomi di queste malattie ma erano confusi e sovrapposti ad altre avversità e problematiche. L'esistenza dei virus, come organismi distinti dai batteri, si è iniziata ad intuire alla fine del XIX secolo. I fitoplasmi sono stati riconosciuti come organismi ancora diversi negli anni '70, nel periodo in cui sono iniziati gli studi intorno a queste malattie. Come per le malattie umane virali, non è semplice la ricerca di una cura per la difficoltà di gestire questi esseri in mezzi artificiali. Infatti i virus ed i fitoplasmi sono organismi parassiti che in genere non sopravvivono fuori dalle cellule dell'ospite.

I virus li conosciamo perchè causano malattie anche a noi umani. I fitoplasmi sono meno noti, una sorta di livello intermedio fra virus e batteri. Entrambi sono parassiti cellulari ed alcuni di essi causano malattie mortali alla vite.

Le piante non si contagiano come noi stringendosi la mano o tossendo. Accade per mezzo di insetti che prendono il virus o il plasmodio da piante infette (mangiandone un po' o succhiandone la linfa) e lo portano a quelle sane.

 

I virus della vite sono diversi e causano malattie riconoscibili da sintomi tipici come l’arricciamento fogliare, l’accartocciamento, cambi di colore delle foglie, il cosiddetto “legno riccio” ecc. Sono malattie incurabili in vigna e  portano la pianta alla morte. Spesso queste malattie sono sottovalutate perché la vite ammalata non sempre muore subito. Può sopravvivere anche per tempi più o meno lunghi, ma con sensibili cali produttivi, sia per la quantità che per la qualità dell’uva. Tuttavia è un focolaio d'infezione per le altre.

Visto che non si può curare, la difesa è giocata sulla prevenzione. La prima azione è quella di sorvegliare le vigne, di individuare al più presto le piante malate ed estirparle prima che diffondano il male. Inoltre si lavora nel contrastare i vettori, che per i virus sono diverse specie di cocciniglie (di cui ho già parlato nel post precedente).

I fitoplasmi causano malattie chiamate in generale “giallumi della vite”. Sono state riconosciute come malattie specifiche negli anni '50 del Novecento, segnalate in Francia e Germania. All’inizio si pensava fossero sempre dovute a dei virus, anche se presentavano sintomi un po' diversi, vettori diversi e la possibilità (in certi casi) di guarigione delle viti. Negli anni ‘70 si è iniziato a capire la diversa natura del fitoplasma rispetto ai virus e ai batteri. In quel periodo iniziarono ad essere segnalati casi anche in Italia del Nord.

cicalina-della-flavescenza-dorata La FLAVESCENZA DORATA è la malattia da fitoplasmi più pericolosa, perché scatena epidemie molto gravi. Per questo rientra nelle malattie da quarantena della Comunità Europea, con obbligo di prevenzione ed intervento. Prende il nome da alterazioni del colore nelle foglie, in quanto virano verso il giallo per le varietà bianche, dove è più frequente. Invece nelle varietà a bacca scura virano in genere verso il rosso.

Il vettore della flavescenza dorata è una cicalina, lo Scaphoideus titanus (nell'immagine) che non è autoctono ma originario del Nord America. Vive esclusivamente sulla vite e ormai è diffuso in buona parte d’Europa (comprese diverse aree del nord e centro Italia). La comparsa di questa cicalina "straniera" nelle vigne è un segnale d'allarme molto importante.

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Per fortuna la nostra zona è ancora salva, per cui non siamo tenuti a nessun intervento. Tuttavia nelle nostre vigne ci sono sistemi per monitorare la possibile comparsa della cicalina in questione, in collaborazione con l’Università di Pisa (che conduce il controllo preventivo sul nostro territorio). La sorveglianza si fa con una trappola cromotropica, cioè un foglio cosparso di una sorta di colla, che richiama questi insetti grazie al colore giallo.

Dove l'insetto è già presente, vi è l'uso obbligatorio di un insetticida (purtroppo al momento l'unico sistema efficace) per arginarne la diffusione. Questa cicalina nasce in genere a maggio e dopo circa 30 giorni è in grado di trasmettere la malattia. Compie una sola generazione. Il trattamento si fa dopo un mese dalla vista delle uova (entro la prima metà di giugno). Siccome però c’è scalarità nelle nascite, si deve fare un secondo trattamento a fine giugno-inizio luglio. Dove è poco presente e c’è rischio minore, basta 1 trattamento. Inoltre, si devono estirpare al più presto le viti malate.

La lotta alla diffusione della flavescenza doranta sta incontrando però numerose difficoltà. È molto difficile a causa purtroppo dell’elevata contagiosità. Inoltre è favorita da numerose viti e portinnesti abbandonati o semi abbandonati, che non sono controllati e diventano terribili fonti d’infezione e proliferazione della cicalina vettore.

tremos-fondazione-machAlcuni vignaioli non vorrebbero usare l’insetticida nelle proprie vigne perchè è un sistema troppo aspecifico. Al momento è però la sola cura disponibile. Sono però in corso studi per cercare di trovare sistemi più sostenibili. Ad esempio la fondazione Edmund Mach sta lavorando ad un sistema basato su metodi di confusione sessuale. I maschi e le femmine della cicalina, durante il corteggiamento, si trovano grazie a dei segnali sonori. Si stanno quindi studiando degli strumenti elettronici (a lato, nell'immagine) in grado di emettere micro-vibrazioni che per frequenza, intensità e ritmo assomigliano a quelli emessi dall'insetto, in modo da "confondere" i partners ed inibire la riproduzione. Le vibrazioni emesse vengono trasmesse lungo i fili metallici di sostegno delle viti che, a loro volta, li trasferiscono alle piante. Il problema che resta da superare sembra essere l’alimentazione energetica degli apparecchi: le batterie solari rendono inefficace il sistema di notte. Siamo però fiduciosi che si completi la ricerca e si renda disponibile ai vignaioli questo strumento al più presto! Sono in corso anche studi genetici basati sul fatto che alcune varietà di vite sono meno suscettibili alla malattia (è però una linea di ricerca più lenta).

hyalesthes-obsoletusLa seconda fitoplasmosi è il LEGNO NERO. È considerato meno pericoloso della flavescenza dorata perché si espande in modo molto più lento, ma è in costante progressione. Si trova in tutta Europa. Ad esempio è un problema importante in Emilia, dove il Lambrusco si è dimostrato molto suscettibile a questa malattia. Il nome deriva dall’osservazione dell’imbrunimento dei tralci, mentre sulle foglie dà sempre giallumi.

I vettori del legno nero sono altre specie di cicaline, la più importante di queste si chiama Hyalestes obsoletus (nella foto a fianco). Vivono soprattutto sulle radici di piante infestanti come il convolvolo, la vitalba, l'erba medica, l’ortica, la falsa ortica e altre piante erbacee. Solo gli adulti si spostano anche sulla vite. L’infezione può avvenire quindi non solo da viti ammalate ma soprattutto da queste altre piante.

Il vettore principale di questa malattia non è comunque molto diffuso. Compie una sola generazione ma, siccome infesta piante spontanee e svolge la maggior parte del suo ciclo nel terreno, è veramente difficile da contenere.

Anche qui il monitoraggio si basa su trappole cromotropiche adesive gialle. Al momento l'unico sistema di contrasto si basa sull'attenta eliminazione in vigna delle infestazioni soprattutto di ortica e convolvolo.

Alcuni ricercatori stanno però lavorando sull'idea di sfruttare l’azione attrattiva di queste infestanti, per allontanare le cicaline in questione dalle viti e dirigerle all'esterno. In Israele, dove sono iniziati questi progetti, si stanno studiano impianti di agnocasto realizzati in aree esterne al vigneto. In Italia si fanno simili studi con macchie di ortiche. Altre linee di ricerca stanno lavorando sull’attrazione con sostanze volatili ricavate dalle piante ospiti preferite.

 

Le virosi e le fitoplamosi (oltre che altre malattie) si possono diffondere non solo con gli insetti-vettori ma anche con la propagazione di viti già infette.

 

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Diverse piante, fra cui la vite, si possono propagare non solo per via sessuale (con il seme) ma anche creando nuovi individui da ramoscelli o altre parti (le talee o altri sistemi). L'uomo ha imparato a sfruttare la capacità naturale di queste piante di sviluppare radici, in particolari condizioni, da altri tessuti. Questo tipo di propagazione torna molto utile in agricoltura, soprattutto perchè dà la possibilità, quando si trova un individuo con ottime caratteristiche produttive,  di moltiplicarlo in modo identico (clone). Tuttavia bisogna essere sicuri che l'individuo da propagare sia sano, altrimenti si diffondono anche le malattie.

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Una volta, la selezione e la propagazione delle piante migliori erano fatte anche dalle singole aziende viticole. Purtroppo queste malattie possono avere periodi di latenza anche molto lunghi e spesso si scopriva solo troppo tardi di aver propagato individui malati.

Queste problematiche hanno spinto ad una regolamentazione molto severa circa i sistemi di produzione e commercializzazione delle piante di vite. Oggi le piccole piante di vite (barbatelle, nella foto a lato) possono essere prodotte e vendute solo da vivai certificati. Prima che un clone possa essere autorizzato al commercio deve passare numerossimi test, non solo agronomici e produttivi, ma anche sanitari (compresi dei risanamenti se servono, che in queste fasi sono possibili).  È un lavoro di studio che richiede un periodo minimo di 8-12 anni, in situazioni protette e sotto stretto controllo sanitario. La vendita, a questo punto, viene fatta sotto la responsabilità del vivaista che deve garantire l’autenticità genetica e il livello sanitario dichiarato per ogni piantina venduta.

Sulla difesa si veda anche qui, qui, qui e qui


La difesa nella viticoltura sostenibile 2: animali in lotta

("...ma che idea è mascherarsi da fillossera ad una festa di vignaioli?!? Eh!! ...onestamente ?)

La vigna è sotto l'assedio costante di tantissimi insetti o acari: molti di questi animali banchetterebbero molto volentieri con i teneri germogli, i fiori o, ancor meglio, con gli acini così dolci! La tignoletta, del post precedente, è un guaio costante, molti altri sono aggressivi solo in modo più saltuario.

Nel passato la difesa della vigna era fatta in modo molto aggressivo, si usavano i fitofarmaci in modo spesso indiscriminato (in grandi quantità, interventi a calendario, prodotti ecotossici e spesso aspecifici, ecc.) La vigna era quasi sterilizzata!

La mentalità è ormai molto cambiata e, per questi parassiti animali saltuari, ormai si interviene solo se c'è reale necessità. Non è necessario che scompaiano del tutto dalla vigna. Basta che rimangano almeno sotto una certa soglia, così che il piccolo danno non crei comunque problemi sostanziali alla qualità e quantità dell'uva.

Il nostro primo lavoro e più importante è la sorveglianza continua delle vigne, per cogliere in tempo eventuali pericoli. Tuttavia il vignaiolo non attende solo passivamente, perchè la viticoltura sostenibile che facciamo, quella integrata, ha la priorità di prevenire piuttosto che curare.

La nascita della viticoltura integrata non ha significato infatti solo usare prodotti diversi rispetto alla difesa tradizionale, ma ha determinato un cambiamento dell’impostazione mentale. Non c’è più il vecchio approccio di vedere la malattia solo nel rapporto di coppia pianta-parassita (o patogeno) e sul cercare qualcosa che uccida quest’ultimo. Grazie soprattutto al progredire delle conoscenze biologiche, si è capito che lo sviluppo di una malattia dipende da un sistema ben più complesso di fattori : il tempo di coesistenza, le condizioni ambientali, la microfauna e flora di contorno). Questi, se gestiti in modo integrato, possono portare a vie più sostenibili di difesa.

La prevenzione è fatta dall'insieme dei lavori della vigna (quelli che noi chiamiamo sistemi agronomici), sfruttando anche gli equilibri dell'ecosistema secondo i principi della lotta biologica.

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(nell'immagine c'è un acaro fitoseide, utile a contrastate il ragneto rosso). La lotta biologica è un sistema che si basa sugli studi degli esseri viventi. Si tramanda che in Cina, secoli fa, si usassero le formiche per combattere insetti nocivi degli agrumi. Nell’Ottocento in alcune città europee si combattevano lepidotteri, dannosi per il verde pubblico, con dei coleotteri. I veri studi sulla lotta biolgica sono iniziati alla fine del XIX sec, ma ebbero una battuta d’arresto per via del boom dei fitofarmaci di sintesi. È tornata alla ribalta più tardi, grazie ai grandi progressi della biologia (dagli anni ’50 in poi) e alla nascita dell'agricoltura integrata. Gli studi biologici hanno permesso di conoscere sempre più a fondo gli organismi viventi in gioco, la loro fisiologia, i rapporti fra di essi e il loro ambiente (l'ecologia). Il sistema più noto della lotta biologica è basato sullo “sfruttamento” di animali che possono contenere i parassiti grazie ad un’azione predatoria (se li mangiano!) o antagonista (non li mangiano, ma sono in concorrenza per qualcosa, le prede ad esempio, per cui rendono comunque loro la vita molto difficile). Un altro noto sistema della lotta biologica usato in vigna, di cui ho già parlato per la tignoletta, è la confusione sessuale. Se si trova il modo di “disturbare” i segnali che attirano i partner e li fanno incontrare, si può evitare che essi s’accoppino e proliferino.

Infatti alcuni di questi parassiti (acari soprattutto) possonno essere mantenuti ad un livello di popolazione accettabile grazie alla presenza in vigna di loro predatori naturali (acari fitoseidi, acari stigmeidi e dei coccinellidi). La presenza di questi piccoli aiutanti è possibile però solo se si mantiene un alto livello di biodiversità nella vigna.

Come tutto nella vita, è però una questione d'equilibrio. Ricordiamoci che non stiamo parlando di un ecosistema naturale ma di una vigna, dove l'equilibrio ottimale è finalizzato ad ottenere la migliore uva possibile per la vinificazione, finalità di cui alla Natura importa ben poco.  L'estremo opposto, cioè la scarsa cura della vigna, non è una soluzione. Non mantiene sotto controllo i parassiti e le malattie, i quali possono esplodere in modo incontrollato. Molte infezioni derivano infatti da specie vegetali. La vegetazione troppo folta facilita anche i contagi perchè crea situazioni di umidità e di ristagni. Inoltre i mutamenti di alcune condizioni, sia per cause naturali che per gli interventi umani, possono alterare gli equilibri e far esplodere specie animali marginali. Per tutti questi motivi è così importante il lavoro assiduo del vignaiolo, fatto con sapienza ed esperienza.

La biodiversità è favorita prima di tutto da un lavoro generale in vigna fatto con basso impatto ambientale, come la viticoltura integrata, che non usa fitofarmaci ecotossici, ma privilegia prodotti sostenibili, usati comunque solo quando servono veramente, dati in modo minimale ed altamente controllato.

La permanenza delle microfauna viene anche favorita creando un ambiente attrattivo. Noi abbiamo l'inerbimento naturale, ottimale perchè permette un'alta biodiversità vegetale che garantisce una fioritura a scalare per quasi tutta la bella stagione. Aiuta molto anche il fatto che le vigne abbiano vicine siepi, boschi ed altre colture, come nel nostro caso.

Non basta però dire di avere biodiversità in vigna solo perchè si pensa di usare un metodo di lavoro ottimale. Cardine della viticoltura integrata è sempre il controllo, come già detto, altrimenti si rischiano sempre brutte sorprese. Per questo usiamo sistemi di controllo che permettono, con valutazioni statistiche, di monitorare la biodiversità reale della vigna e quindi l'efficacia (o nel caso il miglioramento) del nostro lavoro.

Noi preferiamo favorire la biodiversità esistente delle nostre vigne. Esistono anche sistemi di lotta biologica che prevedono l’immissione nell’ambiente di predatori specifici, ma è un ambito molto delicato, da studiare attentamente caso per caso. Considerate che introdurre un insetto senza essere sicuri della sua permanenza può diventare molto dispendioso (e inutile). Inoltre se gli insetti introdotti sono specie esotiche, possono alterare gli equilibri ecologici in modo spesso imprevedibile. Non sono soluzioni da prendere troppo alla leggera, sentendosi la coscienza a posto solo perché non si usa un fitofarmaco ma un essere vivente. Errori del passato, come la coccinella arlecchino, dovrebbero insegnare grande cautela anche in questi ambiti.

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La coccinella arlecchino (Harmonia axyridis) è di origine asiatica. È stata introdotta in America ed Europa nel corso del ‘900, nella lotta biologica (non per la vite), per contrastare afidi e cocciniglie. Si è poi diffusa in modo abbastanza incontrollato. Si nutre di un elevato numero di insetti, comprese diverse specie locali utili. La sua presenza sta soppiantando sempre più le coccinelle locali. Non sembra trovare molto di suo gradimento i paesi mediterranei, dove sono segnalate finora apparizioni sporadiche, ma sta imperversando in altre zone d’Europa. In previsione dell’inverno, tende a riunirsi in grossi aggregati che cercano rifugio all’interno delle abitazioni. Il problema è che produce una secrezione (emolinfa) che danneggia muri, arredamenti e quant'altro con grosse macchie maleodoranti. L'emolinfa o la puntura provocano anche reazioni allergiche all'uomo. Soprattutto in California, crea problemi anche alla viticoltura, perché in estate tende ad aggregarsi ed entrare nei grappoli. L'emolinfa emessa altera pesantemente il gusto del vino prodotto.

 

I nostri piccoli predatori spontanei della vigna contengono sotto la soglia di rischio soprattutto gli acari (il ragnetto rosso, il ragnetto giallo, gli eriofidi dell'erinosi, eriofidi dell'acariosi) che possono colpire diverse parti della vite, causando danni importanti  (lo sviluppo stentato dei germogli, la necrosi o caduta delle foglie, possono colpire direttamente anche i grappoli,...)

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Le infestazioni di ragnetto rosso (Panonychus ulmi, specifico della vite, o il Tetranychus urticae, di varie piante da frutto, quello della foto) provocano uno sviluppo stentato dei germogli o foglie necrotiche. I suoi predatori naturali sono gli acari fitoseidi (es. Amblyseius andersoni) e il coccinellide Stethorus punctillum. Il ragnetto giallo (Eotetranychus carpini) può causare problemi in fase di germogliamento, soprattutto nelle primavere fredde e piovose, o più avanti sulle foglie, che poi cadono anticipatamente. Si hanno ripercussioni sul grado zuccherino dell’uva e sulla lignificazione dei tralci. Anche questo acaro viene mantenuto controllato grazie ad acari fitoseidi. Ci sono poi due tipi di eriofidi. Uno causa la malattia detta erinosi (Colomerus vitis). Sono acari molto piccoli, difficili da vedere ad occhio nudo. Si riconoscono dalla presenza come di bolle sporgenti sulla pagina superiore delle foglie. Nella pagina inferiore, sotto alle bolle, si forma una zona di peluria dove si sviluppa l’acaro. Può colpire anche i grappoli. Anche questi sono contenuti dagli acari fitoseidi e anche gli stigmeidi. Questi tengono sotto controllo anche un secondo tipo di eriofide che causa una malattia detta acariosi (Calepitrimerus vitis), la più temuta, che colpisce lo sviluppo dei germogli primaverili. Più tardi, soprattutto in agosto, colpisce le foglie che prendono un colore brunastro.

Le cocciniglie sono invece un esempio al contrario di equilibri alterati. Nel passato, fintanto che si usavano più spesso insetticidi aspecifici contro altre avversità, erano assolutamente marginali. Il progressivo abbandono o riduzione di questi metodi le ha portate alla ribalta. Sono quindi diventate un nuovo problema d’affrontare.

Le cocciniglie (di cui esistono diverse specie) si sviluppano soprattutto in vigneti con fitta vegetazione o comunque in condizioni di ristagni d’umidità e scarso ricircolo d’aria. Causano danni diretti a varie parti della vite (le mangiano) oltre che causano l’ingiallimento delle foglie. I grappoli infestati maturano con difficoltà e sono comunque inadatti alla vinificazione (vanno scartati se si vuole fare vino di qualità).  Producono anche secrezioni zuccherine che richiamano le formiche e le vespe (che danneggiano i grappoli) e possono causare fumaggini (infestazioni di funghi). Possono anche essere vettori di virus (di cui parleremo in seguito).

A Guado al Melo non usiamo insetticidi contro le tignole, cicaline o altri insetti, ma finora non abbiamo mai avuto problemi con le cocciniglie. Teniamo comunque sotto controllo la vigna. Cerchiamo di prevenirne la comparsa con mirati interventi agronomici (evitando le fitte vegetazioni di cui ho già parlato sopra: sfalci periodici dell'erba, pulizia del sottofila, gestione ottimale della chioma, cimature e defogliature alla bisogna). Comunque, se serve, si cerca di combatterle con la lotta biologica.

cocciniglia farinosa
Le più pericolose sono le cosiddette “cocciniglie farinose”, come quella della foto (Planococcus ficus che colpisce solo la vite e il fico, Planococcus citri, molte piante). Sono diffuse un po' ovunque in Italia, soprattutto al Sud. Si riconoscono soprattutto a seguito della loro migrazione sul grappolo, a fine luglio-agosto, dove formano vistose aggregazioni d’aspetto farinoso. Ostacolano la maturazione, inoltre richiamano con la melata formiche e vespe e favoriscono lo sviluppo di fumaggini. Il P. ficus può anche essere vettore del virus dell’accartocciamento fogliare. La cocciniglia Heliococcus bohemicus è presente più nel centro e nel nord, dove infesta anche altre piante. È simile al Planococcus ma tende a stare più sulla vegetazione e non forma aggregazioni. La pulvinaria della vite (Pulvinaria vitis) è meno pericolosa, causa infestazioni più saltuarie, soprattutto in vigneti abbandonati o famigliari. Le femmine formano sul legno un caratteristico ovisacco di cera bianca. La cocciniglia gobbo-striata (Parthenolecanium corni) attua attacchi molto seri alle parti verdi della pianta, di cui si nutre. La cocciniglia nera della vite (Targonia vitis) infetta il ceppo e i cordoni permanenti. Può essere pericolosa in certi ambienti a clima mite, soprattutto sui giovani tralci. La metcalfa (Metcalfa pruinosa) compie una generazione all’anno ed è fitofaga, produce molta melata che attira vespe che danneggiano i grappoli maturi e causa fumaggine. Si sviluppa soprattutto nelle zone marginali della vigna, vicino a piante che ne favoriscono la presenza come l’acero campestre, la robinia e il sambuco.

 

Alcuni insetti sono ancora più sporadici, ma possono diventare importanti con proliferazioni improvvise.

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Fra i parassiti animali altamente sporadici ricordiamo i nottuidi (Noctua fimbriata): le larve (foto), di notte, possono risalire il tronco e nutrirsi delle gemme e i giovani germogli della vite. La cicalina verde della vite (Empoasca vitis) sverna su piante a foglie persistenti poi si sposta sulla vite. L’adulto si nutre pungendo le nervature delle foglie e causano un danno soprattutto in estate, con necrosi fogliare e abbassamento del grado zuccherino dell’uva. S’insedia soprattutto in situazioni di alta umidità. Alcune varietà sono più suscettibili. La cicalina gialla della vite (Zygina rhamni), meno dannosa di quella verde, si nutre delle cellule del parenchima fogliare, formando macchie decolorate sulle foglie. Prevale al sud. La cicalina bufalo (Stictocephala bisonia) è di origine nord-americana. Si nutre pungendo la vite, causando tipiche “strozzature” sui tralci che ne limitano lo sviluppo. Si combatte, se serve, con la lotta biologica con un imenottero. Il tripide della vite (Drepanothrips reuteri) è un tisanottero, un insettino di pochi millimetri, con un apparato boccale in grado di pungere le cellule vegetali ed aspirarne il contenuto. Agisce soprattutto sui tessuti giovani, per cui è più pericoloso in fase d’accrescimento e nei vigneti giovani. Svolge 3-4 generazioni all’anno. Il vitigno fra i più colpiti è la Malvasia. Il sigaraio (Byctiscus betulae): è un coleottero presente ovunque in Italia. Vive anche su altre piante. Prende il nome dalla caratteristica capacità delle femmine di erodere il peduncolo delle foglie e poi di arrotolarle (come un sigaro) per deporvi dentro le uova. I bostrichi adulti (Sinoxylon sexdentatum, Sinoxylon perforans) si cibano della vite, scavando gallerie soprattutto nei tralci. La lotta è fatta tagliando via i tralci infestati.

imagesIn questa carrellata degli insetti dannosi alla vigna non dobbiamo dimenticare la terribile fillossera, che ha rischiato di distruggere la viticoltura mondiale. Di questo acaro e della sua incredibile storia ho già parlato diffusamente in questo blog (rimando a qui , qui , qui , qui e qui). Per causa sua, la vite europea è ormai coltivata solo come innesto, su radici di viti americane (o meglio, ibridi con viti europee), che sono geneticamente resistenti al parassita. Questa soluzione ha comportato la controparte negativa che le viti innestate hanno una vita breve (circa 25-30 anni) rispetto a quelle integre (dette “franche di piede”) che potevano arrivare ad essere ultracentenarie.

Il problema della fillossera si può dire superato ma il pericolo resta. Gli studiosi tengono sotto controllo la situazione perché si temono mutazioni (già documentate in casi per ora sporadici) che possano renderla aggressiva anche verso gli attuali portinnesti. Sarebbe un nuovo e spaventoso disastro!

Un grosso problema in questo senso è rappresentato dai vigneti rimasti franchi di piede, sia fra quelli abbandonati che quelli mantenuti o creati appositamente (fintanto che riescono a sopravvivere). Queste situazioni, per certi versi affascinanti, rappresentano però seri pericoli perché fungono da incubatori della fillossera. In queste situazioni può facilmente moltiplicarsi, aumentando la probabilità che insorgano nuove mutazioni infauste alla viticoltura.

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In alcune zone d’Italia, fortunatamente non da noi, sta diventando un problema un moscerino della frutta originario del sud-est asiatico, la Drosophila suzuki, introdotto accidentalmente di recente in Europa e negli Stati Uniti. In Europa è stato segnalato per la prima volta nel 2008, in Spagna. In Italia è comparsa in Trentino Alto Adige nel 2009. Attacca un grandissimo numero di specie da frutto fra cui anche l'uva, soprattutto quelle varietà con la buccia più sottile. Le femmine pungono gli acini per deporvi le uova. Le larve si sviluppano e si nutrono della polpa. Le punture diventano anche vie d’ingresso per altre malattie, soprattutto il marciume acido. È molto difficile da sconfiggere perché in un anno svolge tantissime generazioni (da 7 a 13), a seconda dell’andamento stagionale, da febbraio fino a novembre. È più frequente dove le viti sono più vigorose, dove ci sono situazioni di ristagno di umidità, con i grappoli già danneggiati (da grandine, uccelli o altri fattori). Sono più a rischio i vigneti in prossimità di boschi, frutteti o coltivazioni di piccoli frutti, da cui provengono le infestazioni. La presenza è monitorata con trappole, che li attirano con dei succhi di frutta. La difficoltà della lotta contro la Drosophila è legata all'alto numero di cicli che compie in un anno, ma anche perché danneggia l'uva in prossimità della maturazione. Non si sono ancora trovate forme di difesa veramente efficaci. Si stanno facendo prove con delle trappole simili a quelle usate per monitorarlo, messe in numero e frequenza molto più elevata, in modo da intercettare il più possibile l'insetto che proviene dall'esterno della vigna. Per ora in questo modo si riesce ad abbattere la presenza del 50%. Si cerca anche di scoraggiare l'invasione della vigna eliminando attentamente i grappoli danneggiati, che hanno un’azione attrattiva sul moscerino. Infine si stanno facendo prove con reti anti-insetto molto fitte. Al momento rimane però ancora una problematica aperta.

 

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La difesa nella viticoltura sostenibile 1: la lotta biologica alla tignoletta.

001Se dai social vi siete fatti l’idea che la vigna si curi con un po’ di galline e musica, fermatevi pure qui.

La primavera per il vignaiolo non è solo fiorellini e farfalline, è invece la stagione dell’ansia (“gela?”), delle lamentele ("piove poco… piove troppo"), della lotta perpetua con l’erba, delle ore infinite sul trattore (la musica, qui, sì che aiuta),…

La lotta biologica alla tignoletta invece è una forma di fitness e relax, che aiuta anche a smaltire le uova di Pasqua. Si fa camminando per un po’ di km su e giù per i filari, con il canto degli uccelli e il piacevole ronzio degli insetti nelle orecchie, per piazzare in vigna quegli affarini rossi che servono a sconfiggere il terribile insetto, prima che si risvegli.

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Stiamo parlando della Lobesia botrana, volgarmente detta tignoletta, che sembra una simpatica e non troppo appariscente farfallina, ma è il parassita animale più dannoso della vigna (in modo diverso a seconda della zona, del sistema d’allevamento e del vitigno).

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È un lepidottero che passa l’inverno come crisalide da cui, fra aprile e maggio, emerge l’adulto. Si dice che “sfarfalli”. Questa prima apparizione in vigna è definita “primo volo”, perché purtroppo ne farà anche altri. Dopo l’accoppiamento la femmina depone le uova. Le larve che nascono mangiano un po’ dei bottoni fiorali della vite. Non è questo il pericolo maggiore, in questa fase i danni non sono così importanti.

2468Segue di nuovo la fase di crisalide, questa volta molto più rapida. Da essa emerge una nuova generazione di adulti che attua il “secondo volo” d’accoppiamento (a luglio, in genere). Le uova questa volta sono deposte sugli acini acerbi e questa è la fase più dannosa. Le larve penetrano nell’acino e lo danneggiano. Nel Nord d’Italia il ciclo finisce qui, mentre nel centro-sud ci può esserci anche una terza generazione sul grappolo maturo, fra agosto e settembre.

La tignoletta è responsabile di danni diretti ma con la sua azione favorisce anche altre malattie. Infatti, anche nel caso in cui l’acino non fosse troppo danneggiato, attraverso i micro-fori che causa sulla buccia permette l’ingresso di funghi e batteri che possono sviluppare muffe e marciumi del frutto.

Anche se le fasi peggiori sono quelle estive, ormai si è visto che è meglio colpire la tignoletta subito all’inizio, al primo volo, così da evitare o contenere al massimo le generazioni successive.

IMG_2746Si parla di lotta biologica quando si usano sistemi basati su organismi viventi o sistemi derivati del loro ciclo vitale. Nel caso della tignoletta si attua la cosidetta “confusione sessuale”, cioè si va a disturbare il momento del primo accoppiamento, impedendolo o riducendolo sensibilmente. Così il ciclo della tignoletta viene stroncato sul nascere.

E qui entrano in scena gli “affarini” rossi di cui ho scritto all’inizio, che distribuiamo in vigna. Sono dei diffusori (biodegradabili) di una sostanza, un feromone, lo stesso che viene rilasciato naturalmente della femmina di tignoletta come segnale per guidare il maschio nell’accoppiamento. Questi diffusori lo liberano nell’ambiente, andando a confondere il maschio ed impedendo (o limitando fortemente) l’incontro con la femmina.

Siccome vogliamo essere sicuri che il nostro lavoro ginnico sia servito a qualcosa e che i poveri lepidotteri non abbiano veramente proliferato, per il resto della primavera ed estate si piazzano in vigna dei sistemi di sorveglianza, trappole collose col solito feromone a fare da attrattore.

Niente paura: di norma funziona, la trappola è però una precauzione importante per non avere brutte sorprese.

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Se la conta degli insetti nelle trappole rimane sotto la soglia di rischio, non si fa nulla (non è necessario sterilizzare la vigna!). Nell’infausta evenienza (finora mai verificata da noi) che si superi tale soglia, si deve purtroppo usare un insetticida, derivato dal Bacillus thuringensis. È l’arma di riserva, comunque, perché nella viticoltura integrata e sostenibile la prevenzione è sempre meglio della cura!

Nel nord dell'Italia (per cui non ci riguarda direttamente) crea problemi anche un altro lepidottero, la tignola (Eupoecilia ambiguella). Le problematiche sono molto simili a quelle della tignoletta, con un ciclo fatto in genere da 2 generazioni. Anche qui è molto usata la lotta biologica.

Continua qui, qui, qui, qui e qui

 


Buona Pasqua: siamo aperti

in questo periodo pasquale siamo aperti sabato, lunedì (Pasquetta) e anche il 25 aprile , col solito orario : 10-13 15-18.

Vi aspettiamo!


Guado al Melo è certificato Quality Made, marchio di qualità d'Identità Culturale

Avevo già scritto di questo progetto iniziato circa un anno fa. Ora si è concluso l'iter di certificazione e ci siamo: Guado al Melo è stato riconosciuto come azienda portatrice di valori d'Identità Culturale.
Quality Made è un marchio di qualità di Identità Culturale che certifica aziende che basano la propria attività su principi di sostenibilità culturale, ambientale e sociale.

Quality Made si rivolge ai viaggiatori "consapevoli" in cerca di luoghi veri e unici, di un’esperienza di viaggio attenta all’ambiente e nel rispetto delle comunità locali.

Le aziende certificate con il marchio Quality Made sono accomunate da un forte radicamento nel territorio di appartenenza, da una grande attenzione alle peculiarità della cultura locale, dalla particolare cura impiegata nella creazione di prodotti e servizi di alta qualità, dalla decisa connotazione artigianale e territoriale.

Nato nel 2018, il marchio è attivo tra la Francia e l’Italia e raggruppa un primo nucleo di 75 aziende.

https://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2019/03/31/news/turismo-sostenibile-19-imprese-unite-arriva-quality-made-1.30149705

 


Vinitaly 2019

Saremo al Pad. 7 Stand B5, presso Cuzziol GrandiVini. Vi aspettiamo.

Annalisa e Michele


7-10 aprile: Vinitaly

7-10 aprile: Vinitaly a Verona, saremo nel Pad. 7 Stand B5, presso il nostro distributore per l’Italia Cuzziol GrandiVini. Ci saremo sia Michele che io, Annalisa.


24-25 marzo: Vinissima di Tamborini Vini, nostro importatore in Svizzera

24-25 marzo: Vinissima, manifestazione di degustazione di Tamborini Vini, nostro importatore in Svizzera. Ci sarà Michele. Tamborini Vini è a Lamone, in via Serta 18. Tel. +41 919357545 www.tamborinivini.ch info@tamborinivini.ch


17-19 marzo: ProWein a Duesseldorf

17-19 marzo: ProWein a Duesseldorf: saremo alla Hall 16 stand J25, presso il nostro importatore per la Germania Consiglio Vini.


11 marzo: degustazione a Guado al Melo con Cuzziol GrandiVini

Lunedì 11 marzo ci sarà nella nostra cantina un grande evento di degustazione, rivolto agli operatori professionali del settore. Non ci sarà solo la degustazione dei nostri vini, con le nuove annate, ma anche un'ampia selezione di aziende dal catalogo di Cuzziol GrandiVini, nostro distributore per l'Italia.

Saranno presenti personalmente (elenco in aggiornamento):

La Rasina (Montalcino), Villa del Cigliano (Chianti Classico), Le Cinciole (Chianti Classico), Caparsa (Chianti Classico), I Cavallini (Maremma), Alessandro Princic (Collio Friulano), Masùt da Rive (Friuli Isonzo), Plonerhof (Alto Adige), BiancaVigna (Prosecco), Suavia (Soave), Derbusco Cives (Franciacorta), Mongioia (Piemonte), Frecciarossa (Oltrepò Pavese), Lusvardi (Emila Lambrusco), Leonardo Bussoletti (Umbria), Masseria Li Veli (Puglia), Feudo Montoni (Sicilia Madonie), Marjan Simčič (Slovenia), Jean-François Coquard (Francia Beaujolais).

Inoltre, ci sarà un'ampia selezione di altri vini del catalogo.

Alle ore 15,00 il nostro prof. Attilio Scienza, farà un piccolo intervento. Si farà conoscere e presenterà agli interessati la sua ultima pubblicazione "la Stirpe del Vino", ed. Sperling & Kupfer, scritto con Serena Imazio. Nel libro si racconta l'origine e la storia dei grandi vitigni, tra analisi del DNA, archeologia, antropologia, mito e letteratura.

 

 La stirpe del vino

Nuove annate, note di degustazione

Ieri c’è stata una degustazione fra di noi (Michele, Annalisa, Katrin e Jadranka) sulle nuove annate appena uscite o che stanno uscendo. L’insieme ci ha entusiasmato: le ultime annate sono state molto positive in termini climatici. Questo, unito all’età avanzata delle vigne e all’esperienza accumulata, ha originato vini di grande spessore ed interesse.

 

011Siamo partiti col più giovane L’Airone 2018, figlio di un’annata molto buona, anche se le viti hanno dovuto ancora recuperare dopo il 2017 così siccitoso (infatti c’è stato un ritardo nello sviluppo e nel momento della vendemmia non spiegabile altrimenti). Il colore è paglierino molto luminoso, come atteso dal Vermentino. I profumi sono molto piacevoli, ricordano molto aromi di frutti e fiori “dolci”, equilibrati e resi intriganti dalla nota amarognola (ma piacevolissima) di pompelmo (elemento varietale che contraddistingue questa varietà). Abbiamo sentito il pompelmo, frutti tropicali (mango, papaia, frutto della passione), pera, acacia, tiglio. In bocca è molto fresco, di buon corpo e abbastanza lungo.

Con questa annata abbiamo cambiato la bottiglia e, quindi, adattato l'etichetta. Lo abbiamo fatto per dare uniformità ai nostri vini: tutti i Bolgheri Rosso e Superiore sono nella bordolese, tutti gli altri nella forma borgognotta. Il risultato mi pare molto elegante.

Abbiamo assaggiato anche il Criseo Bolgheri DOC Bianco 2017 anche se è ancora in affinamento in bottiglia fino alla fine della primavera (più o meno) e c’è ancora in vendita il fantastico 2016. L’annata è stata siccitosa, con grossi cali produttivi anche se i vini sono usciti ben concentrati ma molto equilibrati. Si è lavorato molto in selezione per eliminare gli acini appassiti. Infatti il Criseo ha una bella freschezza che bilancia in modo perfetto il corpo pieno ed avvolgente, quasi “grasso”, e lunghissimo. Il colore è dorato chiaro. L’insieme degli aromi è incredibile. Abbiamo lasciato i bicchieri a lato, mentre poi assaggiavamo i rossi, tornando ad annusarli di tanto in tanto e … ogni volta uscivano profumi diversi. Abbiamo sentito via via aromi di frutta tropicale (ananas soprattutto), albicocca, frutta candita, marmellata d’arancia, miele, lievito, zafferano, ginestra, camomilla, note minerali (kerosene), cedro, foglie di limone… Chissà come cambierà ancora in questi ultimi mesi di bottiglia.

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Il primo rosso è il Bacco in Toscana 2017. In bocca è morbido, molto piacevole, con aromi dominati dal frutto (mirtillo, ribes e mora) e un che di pungente (pepe nero).

L’Antillo Bolgheri DOC Rosso 2017  ha una complessità maggiore, con più struttura e freschezza. Gli aromi ci hanno ricordato il ribes (a metà fra un frutto e con note leggermente vegetali), frutti di bosco vari, ma anche note intense di macchia mediterranea, in particolare di alloro e mirto.

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Il Rute Bolgheri DOC Rosso 2016 è quello che ci ha stupiti di più. È molto verticale, anche se abbastanza morbido e ben strutturato. La complessità aromatica qui cresce notevolmente, con basi di frutto dolce (soprattutto la fragola), accompagnata dalla freschezza della menta e note intense di liquirizia e di tabacco dolce.  Quest’anno ci sarà anche il formato Magnum (1,5 litri). Avrete notato anche il piccolo cambio nell'etichetta, che dà più enfasi al nome del vino.

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Il Jassarte 2015 è invece un crescendo senza fine. Il colore spicca sugli altri vini per l’intensità quasi tenebrosa (gli altri, date le varietà, stanno su un elegante rubino). Al naso non finisci più di sentire aromi che cambiano e si alternano: amarena, susina viola, la sua classica nota balsamica di eucaliptus, molta spezia (chiodi di garofano e cannella), alloro, rosmarino… Il corpo è molto pieno, elegante, con un tannino fresco e levigato. Il finale è lunghissimo.

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Infine l’Atis 2015, il nostro Bolgheri Superiore, ha avuto bisogno di più bottiglia del Jassarte ed infatti esce a breve (mentre il Jassarte è già in vendita da quasi un mesetto).  L’attesa però non è stata vana e ci riempie di soddisfazione. Come sempre ha un’anima molto diversa dal Jassarte, anche se ne condivide l’annata e sono “vicini di vigna”. Qui il colore è rubino intenso. Al naso è molto sfaccettato, con aromi sofisticati di frutti neri (mirtillo, mora), ribes, uva spina, foglia di pomodoro, liquirizia, anice, tabacco dolce e una nota come di “affumicato”. In bocca è di grandissimo carattere ed equilibrio, molto verticale, con tannino molto lungo ma non aggressivo. Il finale, anche qui, è molto lungo.

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Un vino così comunque non è fermo, è vivo ed evolverà ancora. Lo stesso è per gli altri vini, soprattutto anche per Criseo e Jassarte. Per questo non amo mettere la descrizione aromatica nelle schede tecniche (che trovate aggiornate nella sezione apposita del nostro sito web).