Fertilità e malattie: ragione vs superstizione nelle vigne dell'antica Roma ... ed oggi
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Come abbiamo già in parte visto nei post precedenti, gli autori agrari romani (qui), in particolare Columella, raccontano in genere di una viticoltura molto pratica e razionale, che nasce dall'esperienza e dall'attenta osservazione dei fenomeni della vigna, come facciamo oggi, pur con i limiti conoscitivi dell'epoca. Nelle opere d'ambito letterario o storico, le descrizioni agricole si mescolano molto spesso ai riti religiosi o alle credenze superstiziose, che erano sicuramente molto diffuse nelle campagne, soprattutto in relazione agli aspetti più difficili da gestire, come la fertilità del suolo e le malattie di cui racconto in questo post.
La contrapposizione fra ragione e superstizione in agricoltura è antica. Mescolate più o meno tra di loro, hanno attraversato tutti secoli e sono arrivate fino a noi, l'era delle bufale e dei falsi miti, che stanno proliferando più che mai per quanto riguarda il cibo e la sua produzione.
Già Catone se la prendeva con i vignaioli che, invece di imparare le tecniche viticole, andavano da astrologi, aruspici o auguri (nell'immagine sotto) per decidere quando iniziare la vendemmia o fare altri lavori, con risultati disastrosi! Anche Columella cercava di persuadere dell'inutilità delle divinazioni o altre superstizioni, come certe pratiche magiche che si facevano nelle campagne.
I riti religiosi di allora sono continuati nelle processioni e benedizioni dei campi del cristianesimo, rimaste in uso nelle nostre campagne fino a non molto tempo fa. Oggi la dimensione religiosa è quasi del tutto scomparsa. Stanno invece emergendo sempre più, in questi ultimi anni, approcci irrazionali che sembravano essere passati definitivamente in secondo piano con l'epoca moderna, ma così non è stato. Fra l'altro, come vedrete, sono molto simili a quelli che erano già deprecati dagli agronomi dell'epoca antica.
Possibile che non sia cambiato niente?
In passato c'era reale ingenuità verso l'irrazionale, il che era spiegabile con l'ignoranza diffusa. Tuttavia l'istruzione generalizzata di oggi sembra non aver cambiato molto la situazione. Sembriamo più che mai in balia di falsi miti, bufale, paure, pratiche pseudo-antiche, ecc.
D'altra parte, posso capire che per molti non è facile difendersi, c'è troppa confusione di informazioni. L'agricoltura è ormai molto lontana dalla vita della maggior parte delle persone (e non parlo di coltivare un orto o un giardino amatoriale). Troppi esperti o pseudo-tali ne parlano con superficialità. Inoltre, un ruolo importante è giocato dal marketing del cibo che, forse a corto di altre idee, sembra cavalcare più che mai paure e storie evocative, contribuendo a consolidare miti o bufale varie.
Direte: che male può fare? Purtroppo molto. Stiamo già assistendo a ripercussioni che, se si continua in questa direzione, diventeranno sempre più importanti, con effetti sulle politiche agricole, le regolamentazioni del comparto, gli indirizzi della ricerca scientifica, ecc. Pensiamo a quelle pratiche o prodotti usati in agricoltura che sono vietati o viceversa osannati per motivi di "pancia" o di mito, più che di reale sperimentazione. In generale, tutto questo rischia di portarci ad uno scadimento generale dell'agricoltura, con influenze sulla qualità e/o la quantità dei prodotti e sul futuro stesso del settore.
Tuttavia, l'ignoranza e la superficialità in agricoltura sono piaghe che esistono da sempre, come ci racconta anche Columella. Nella prefazione al suo De re rustica, già lamentava quanto l'agricoltura fosse sottovalutata. Molti, scrive, attribuiscono l'impoverimento dei suoli ed il declino dell'agricoltura al fato, alle avversità metereologiche o ad altro, mentre quello che manca, spesso, è solo la conoscenza.
Columella ci invita a riflettere sul fatto che, mentre tutti condividono l'idea che serva una buona istruzione per svolgere la maggior parte delle professioni, lo stesso non succede per l'agricoltura, che è pure fra le attività più importanti, perché senza di essa l'uomo non può nutrirsi. Eppure, troppe persone la praticano (o ne parlano, aggiungo io) con leggerezza, solo con conoscenze superficiali. Così l'agricoltura peggiora sempre più e le importazioni dei prodotti diventano sempre più indispensabili.
Sembra scritto oggi!
Veniamo però ai temi della vigna che ci interessano, la fertilità e le malattie, e vediamo come le affrontavano al tempo dell'antica Roma, sia in modo razionale che con la superstizione e la magia.
Fertilità e concimazione
I problemi legati alla fertilità del suolo non sono solo moderni, ma hanno da sempre un ruolo centrale nelle preoccupazioni agricole.
Fin dalle epoche più remote la fertilità era legata ad eventi inspiegabili e quindi collocata nell'ambito del sovrannaturale. Era vista come segno di favore da parte degli dei o, con la sua mancanza, di punizione. Tutti popoli, in tutte le epoche, hanno creato riti religiosi, offerte, sacrifici o pratiche magiche, nella speranza di avere buoni raccolti. Per fortuna però l'umanità non è rimasta ferma solo a questi aspetti: i nostri avi agricoltori, con la capacità di ragionamento e di osservazione legate alla pratica, hanno capito che la terra aveva bisogno di essere "nutrita" con concimazioni perché potesse continuare a donarci i suoi frutti.
Oggi sappiamo che la fertilità dipende da un insieme di caratteristiche del suolo di natura chimica, fisica e biologica. Grazie ad esse il suolo è in grado di fornire (o meno) gli elementi minerali che servono alle piante come nutrimento. La perdita di fertilità dipende da molti fattori. Ogni pianta sottrae nutrienti al terreno in cui cresce, in modo maggiore più la coltivazione è intensa. Inoltre si perdono per fenomeni di lisciviazione (cioè l'azione di trascinamento dovuto all'acqua che passa nel suolo), problemi di compattamento, di erosione, ecc. In agricoltura gli elementi nutritivi devono quindi essere reintegrati in qualche modo.
Tornando alla viticoltura dell'epoca Romana, i nostri autori agrari riconoscevano la grande importanza della concimazione della vigna. Oggi sappiamo che l'ottimale nutrizione delle viti è un fattore essenziale per la qualità del vino. Secondo Columella, la concimazione deve essere “frequente, tempestiva e modica”. Oggi diremmo, qualcosa di simile, anche se più preciso, secondo i principi della viticoltura integrata sostenibile: va fatta in modo appropriato, solo quando e dove serve, in riposta alle esigenze nutrizionali specifiche di ogni particella di vigna.
Catone raccomanda che si usi buon letame, fatto ben maturare, prodotto da pecore o cavalli. Quello bovino all'epoca non era considerato ottimale. Oggi il letame è usato ancora, ma spesso è difficile da reperire, soprattutto nei territori dove mancano gli allevamenti. Allora, come oggi, veniva data grande importanza anche alla concimazione fatta con i resti verdi (tralci della potatura, dei raspi, delle vinacce, erba, …), che formano compost. Oggi sappiamo anche che letame e compost non sono sempre sufficienti. Ne parleremo meglio un'altra volta: è un tema molto complesso.
Se passiamo agli aspetti meno razionali, fra la gente comune delle campagne erano diffuse molte superstizioni e riti religiosi per incrementare la fertilità agricola.
Fra le pratiche magiche della vigna, mi è piaciuta molto l'usanza di appendere ai rami degli alberi delle piccole maschere di Bacco, dette oscilla (oscillum al singolare), che il vento faceva girare. Si credeva che la parte di vigna dove si voltasse la maschera diventasse molto feconda. (Virgilio, Georgiche, II). Mi sembrano installazioni artistiche.
Un'altra pratica magica, molto più esoterica, consisteva nell'impiantare tre corni di capra nella terra intorno alla pianta a cui erano avvolte le viti (qui descrivo il sistema di coltivazione romano tradizionale, la vite maritata all'albero), con la parte cava verso l'alto, di poco sporgenti dal terreno. Si credeva che la pioggia, entrata nelle corna e poi passata nel suolo, avrebbe donato fertilità.
Diversi animali rientravano spesso nei riti propiziatori e di fertilità, tramite sacrifici o attraverso l'uso magico di parti del loro corpo (corna, ossa, ecc.). Gli antropologi parlano di magia per compensazione, perché questi animali erano considerati molto pericolosi per la vigna. Oltre a cinghiali, daini, cervi e caprioli, che danneggiano le vigne anche oggi, allora c'era ancora un grande bovino selvatico, l'uro (Bos taurus primigenius L.). I buoi che lavoravano la vigna erano dotati di museruole, perché non danneggiassero le viti e le altre piante. Un altro grande pericolo, allora, derivava dalle greggi sfuggite al controllo dei pastori. La capra era considerata la nemica principale del vignaiolo. Infatti, non a caso, era l'animale sacrificale per eccellenza al dio Bacco.
Le corna, in particolare, hanno assunto tanti significati simbolici presso diversi popoli ed in varie epoche, fra cui quelli di forza e di fertilità, oltre che di protezione dagli influssi maligni. Il Cristianesimo, per contrasto, le ha messe sulle teste dei diavoli. Oggi, tornano, curiosamente, nelle vigne.
Malattie ed avversità della vite.
Le malattie sono probabilmente l'aspetto più debole dei testi dei Rustici Latini, compreso il grande Columella. D'altra parte in questo ambito non sono sufficienti una buona pratica e capacità d'osservazione. Servono conoscenze più approfondite sulla natura delle malattie e dei parassiti, sulla fisiologia della vite, di chimica, ecc., che arriveranno solo dall'Ottocento in poi. Nonostante ciò, si intravede comunque nei loro scritti un tentativo di ricerca razionale che, seppur debole, mostra qualche spunto interessante.
Come vedremo, anche questo ambito così problematico cadeva facilmente preda delle superstizioni e delle pratiche magiche, che sono spesso figlie dell'impotenza. La vita degli agricoltori dal passato non era di certo facile.
Fortunatamente, i nostri avi romani (e per molti secoli a venire) si sono risparmiati le peggiori malattie della vigna, capaci di mettere veramente in ginocchio i viticoltori. Sono arrivate in Europa solo nell’Ottocento, dall'America: la fillossera, l'oidio e la peronospora.
Non mancavano però le malattie autoctone, che creavano comunque problemi. Tuttavia sono meno distruttive di quelle americane: colpiscono per lo più il grappolo e, salvo casi particolarmente nefasti, possono essere "sopportate" meglio dal vignaiolo (pur perdendo in qualità e produzione). In certi casi possono essere contenute eliminando per tempo i primi segni di infezione, oppure facendo una selezione dei grappoli. A questi links trovate come le affrontiamo noi, con la moderna viticoltura integrata e sostenibile: tignoletta, muffe varie e mal dell'esca, insetti ed altri animali, virus e fitoplasmi.
Per diverse malattie, i Rustici Latini consigliavano l’uso di sostanze che si pensava avessero funzioni "disinfettanti". Torna infatti spesso l'uso dell'aceto o di impiastri a base di elaterio (Ecballium elaterium L., detto anche cocomero asinino o cocomero selvatico o sputaveleno), con cui strofinare le parti infette. L'elaterio è una pianta selvatica mediterranea, usata in passato per gli effetti purganti, ma abbandonata per l'elevata tossicità. Non mi risulta che questi composti possano essere utili.
Un rimedio ricorrente era l’aspersione delle viti con urina umana vecchia. Noi sappiamo che non serve per combattere le malattie. Tuttavia l’urina apporta azoto, un po' di fosforo e potassio. Forse veniva consigliata perché si osservava un certo effetto benefico, semplicemente come forma di concimazione. In realtà l'eccesso di azoto è uno svantaggio per certe malattie della vite ma, forse, all'epoca c'erano più carenze che abbondanze di nutrienti.
Per prevenire malattie e problematiche dovute alle gelate o all'umidità, Columella consiglia di accendere nelle vigne dei mucchi di paglia o di spargere cenere calda sulle viti. Ancora oggi, nelle località più fredde, si cerca di evitare i danni dal gelo accendendo fiaccole nella vigna.
Dalle descrizioni degli autori latini non è comunque facile riconoscere le malattie ed i parassiti che sappiamo infestare la vigna, allora come oggi. Sono troppo scarne e vaghe, si possono solo fare ipotesi. Ad esempio, si parla di viti che non emettono frutto, le foglie diventano bianche e si seccano. Dai sintomi sembra una muffa, molto probabilmente la botrite in fase precoce. In questo caso il rimedio consigliato era di sfregare le piante con aceto fortissimo, mescolato a cenere e di versarlo, diluito, sulle radici.
Vengono descritte delle viti malate, con le foglie che diventano rosse (il mal dell’esca?). Consigliavano di trivellare la corteccia e nel buco introdurre un rametto di quercia o una pietra, o chiodi. Non stupitevi: interventi di tagli sul tronco vengono fatti anche oggi, con risultati spesso positivi, perché è una malattia che colpisce i vasi linfatici della pianta ed il legno. Altro consiglio antico era di tagliare le viti inferme vicino a terra, coprirle con un po’ di terra e sterco e da qui ripartire. Anche questo ha un senso, considerando anche che allora le viti erano "franche di piede", cioè non erano innesti come oggi (per via della fillossera: vedete qui).
Diversi autori citano "bestiole" che creano danni alla vite, che ne erodono i teneri tralci ed i frutti o che alterano le foglie. Catone parla di piccoli bruchi. Plauto, un autore di commedie, ne La Cistellaria paragona un personaggio particolarmente fastidioso all'involvolus, che definisce "bestiam et damnificam, quae in pampini folio intorta se", "animale malvagio e malefico, che si arrotola nel pampino della vite" (Atto IV, Sc. II, v.63). Plinio parla di un convolvulus e di araneum (più o meno, ragnatela), Columella di volucre. Non si capisce se parlano della stessa o più avversità, sicuramente di insetti o altri parassiti. Alcuni autori moderni hanno pensato di riconoscere in certe descrizioni le forme larvali della tignoletta (o tignole in generale) e gli acari, parassiti molto comuni nelle vigne. Catone consiglia l'uso di un miscuglio di morchia cotta, bitume e zolfo. Quest'ultimo è uno dei prodotti fitosanitari più antichi. Viene usato ancora oggi nella difesa, anche se contro altre malattie (l'oidio). In certe situazioni, può dare effettivamente degli effetti secondari sugli acari.
Altre pratiche, raccontate da diversi autori, sono invece veramente inspiegabili, tentativi ingenui o legati a superstizioni e a credenze magiche. Contro malattie e sfortuna bruciavano o seppellivano in vigna molte cose: corni, pesci, gamberi, piante varie, sterco di capra o di bue. Strofinavano le falci con sangue d'orso o con pelle di castrato, per una qualche azione purificante. Per disinfestare dai topi le vigne più vicine alle case, si consigliava di potare in una notte di luna piena. Qualche cedimento in questo senso sembra esserci anche nell'ultimo libro "Sugli Alberi" di Columella, la cui attribuzione è però incerta. Secondo diversi studiosi potrebbe essere un'opera spuria, forse di un certo Gargilio Marziale (o chi per esso), che copiò ampie parti del noto autore ed introdusse passaggi di suo pugno, di tutt'altro tono rispetto al trattato originario.
Se tutto questo vi sembra strano, sentite come si prepara questo composto, che dovrebbe tenere lontane le malattie della vite. Bisogna raccogliere corteccia di quercia, togliendola dal tronco con una pialla, all'inizio dell'autunno. La corteccia va tritata finemente e con essa si deve riempire il cranio di un animale domestico, passando attraverso il foro alla base (da cui entra il midollo spinale). Si pressa bene e si chiude il foro con un frammento di osso e creta. Il cranio va interrato sul bordo di uno stagno, in presenza di materiale vegetale in decomposizione. In primavera si estrae il contenuto, che viene seccato. Quantità infinitesimali di esso sono poi sciolte in acqua piovana, mescolata con certi movimenti, tre volte a destra e tre a sinistra, ...
Quella che ho appena descritto non è una pratica di epoca romana, ma di oggi (fa parte della biodinamica). Assomiglia molto a quelle che erano considerate superstizioni già duemila anni fa. Per altri preparati si devono usare corna di vacca o vesciche di cervo, interrate in notti di luna piena, ... Non sono neppure semplici da preparare: per fortuna che ormai si trovano comodamente in commercio, venduti da aziende pronte a soddisfare anche questi bisogni moderni di magia.
Le divinità della vigna
Per risolvere problemi di fertilità o avversità varie, si ricorreva anche all'aiuto degli dei, con riti e sacrifici.
Quando si parla di vino, tutti pensano essenzialmente a Bacco, un dio originariamente legato alla forza della natura ed ai suoi cicli. Comunque, è giunto a Roma solo alla fine del III sec. a.C., arrivando dalla Grecia e passando prima dall'Etruria, innestatosi su culti preesistenti. Lo conosciamo bene, per cui non mi dilungo. Riporto solo quella che mi è sembrata una sorta di preghiera del vignaiolo, scritta da Virgilio all'inizio del secondo libro delle Georgiche:
"Vieni qui, o padre Bacco*, qui c’è il pieno di tutti i tuoi doni, la vigna fruttuosa grazie a te è rigogliosa di pampini in autunno e il vendemmiato schiumeggia nei tini ricolmi;
vieni qui, o padre Bacco, togli i sandali, tingi insieme a me gli stinchi nudi nel mosto nuovo."
HUC, PATER O LENAEE*, TUIS HIC OMNIA PLENA
MUNERIBUS, TIBI PAMPINEO GRAVIDUS AUTUMNO
FLORET AGER, SPUMAT PLENIS VINDEMIA LABRIS;
HUC, PATER O LENAEE, VENI, NUDATAQUE MUSTO
TINGUE NOVO MECUM DERPTIS CRURA COTHURNIS...
*Leneo è uno dei diversi appellativi di Bacco
In realtà, erano numerose le figure divine a cui si sarebbe potuto rivolgere un vignaiolo dell'epoca romana. Le divinità romane legate alla terra, alla fecondità e all'agricoltura erano tante, con sovrapposizioni e connessioni spesso difficili da comprendere. In origine la religione romana adorava dei numi (numen, al plurale numina) che non erano persone, ma atti della potenza divina, espressioni dei molteplici aspetti dei fenomeni naturali. Fu l'influenza di altre culture (etrusca, greca, ecc.) che li portò, più o meno dalla Repubblica inoltrata, a dare loro forma sempre più umana, storie e gerarchie. Tuttavia l'impronta culturale originaria rimase. Con essa si spiega l'assoluta tolleranza ed assimilazione dei Romani verso le divinità di altri popoli. L'unico limite che ponevano era che il nuovo culto non creasse pericoli sociali o politici. Comunque, con la lucidità laica di molti grandi autori romani, Varrone scrisse che in origine fu adorato ciò che era utile.
A Roma la viticultura era principalmente tutelata da Giove, che aveva stretti legami con la natura e, in particolare, con la vigna. A lui infatti erano dedicate le feste che precedevano la vendemmia.
Un culto legato alla terra è quello della triade Cerere, Libero e Libera. Libera è la Dea Madre, dea della fertilità dei campi. Libero è il figlio-vegetazione che ogni anno muore e ritorna. In altre versioni, Libero e Libera sono i due figli della dea madre Cerere, dea della fertilità e dei raccolti. Libero divenne poi la figura dominante, coll’appellativo di Pater, legato in modo particolare alla fecondità. A lui e a Libera erano consacrati gli strumenti della vendemmia e della cantina. Fu poi assimilato in parte a Bacco. Ricordo poi la Dea Dia o Bona Dea, ancestrale Dea Madre-Terra, rimasta come protettrice dei lavoratori dei campi e della fecondità femminile, moglie di Fauno, dio della campagna, dei pascoli e dell'agricoltura. La dea Tellus presiedeva a tutta la terra, dalle ricchezze agrarie a quelle minerarie ed ai defunti.
Giano è un Dio locale molto antico. Secondo Virgilio (Eneide), era re degli Aborigeni, un popolo primitivo abitante delle alte cime dei monti, a cui insegnò l’agricoltura e la religione. Un altro mito lo descrive come il fondatore di uno dei villaggi da cui nacque Roma, posto sul colle Gianicolo. Più tardi si aggiunse anche la storia della sua accoglienza del dio Saturno, che era stato spodestato da Giove. Il suo arrivo diede il via all’Età dell’Oro, un'epoca di grande abbondanza agricola. In cambio Giano ricevette il potere di vedere il passato e il futuro, diventando il Dio Bifronte, simbolo dell’inizio e della fine dell’anno. Un altro mito racconta che sia stato Saturno a donare il vino al Re Giano.
C'è però una tradizione ancora più antica e locale di Saturno, raccontata da Catone, nella quale è descritto come un dio-viticoltore sceso dai monti Sabini. Ha in moglie Opi, la dea madre-terra sabina, diventata a Roma dea dell'abbondanza agricola. A lui si deve la domesticazione delle piante utili, l'insegnamento dell’arte degli innesti, della coltivazione della vite e dell'apicoltura. Veniva sempre rappresentato con in mano una falce, il simbolo del vignaiolo. Gli si doveva presentare un'offerta di farro intriso di lardo e vino. Altri dei molto antichi e locali erano la coppia Robigo e Robiga, protettori del grano dalla ruggine (una malattia causata da un fungo), invocati anche perché proteggessero la vigna dalle malattie derivate dall'umidità e dalle piogge.
Nei territori soggiogati, le divinità locali rimasero come riferimento principale, come ad esempio la dea-madre Terra Feronia, protettrice dell’agricoltura presso i Volsci, Latini, Marsi, Umbri ed Etruschi. Elvio era il dio dei Sanniti che favoriva la raccolta della frutta e la vendemmia, ... Fra le divinità greche assimilate ricordo anche Priapo, raffigurato con un enorme fallo, espressione della sessualità maschile, della fecondità e della fertilità della vegetazione. In Italia il suo culto fu soprattutto legato alla protezione degli orti, delle vigne e dei giardini dai ladri (umani, ma anche uccelli o altri animali), tramite una sua effige posta all'ingresso di essi.
Nelle campagne, fra i più semplici, le più amate e venerate erano spesso le figure divine locali, anche "minori", ma che i contadini sentivano più vicine. Alle divinità, come quelle elencate finora, aggiungiamo il Genius loci, il genio del luogo, raffigurato come serpente o figura alata (di cui ho raccontato qui) o le Ninfe, legate a fonti o boschi o certi luoghi, ...
Inoltre, ogni singola attività agricola, in modo incredibilmente specifico, aveva il suo nume tutelare. Servio ne elenca alcuni: Deus Vitisator (il dio che presiede all'impianto delle vigne), Vervactor (alla fienagione), Reparator (alle riparazioni, sistemazioni dei corsi d'acqua e recinzioni, ...), Obarator (all'aratura), Imporcitor (alla semina), Insitor (agli innesti), Occator (all'erpicatura), Sarritus (alla sarchiatura), Subruncinator (alla zappatura per diserbare), Messor (alla mietitura), Convector (al trasporto), Conditor (alla formazione di cumuli di fieno, grano o paglia), Promitor (al disfacimento dei covoni di fieno, paglia o cumuli di grano), ecc.
Il Cristianesimo faticò molto di più a sradicare questi culti contadini locali, diffusi capillarmente nelle campagne, che quelli delle divinità principali nelle città. Ce la fece attuando semplicemente un'operazione di sostituzione: queste figure divennero le figure dei Santi Patroni o i culti di Madonne locali. Allo stesso modo sono sopravvissute molte festività antiche legate al mondo agricolo, assorbite da festività cristiane o diventate fiere agricole tradizionali.
Carlo Levi, confinato in Basilicata dal regime fascista, rimase affascinato dalla scoperta della permanenza di culti arcaici agresti e lo raccontò nella sua opera "Cristo si è fermato ad Eboli" (1945). A proposito del culto di una Madonna Nera, ha scritto:
"La Madonna dal viso nero, tra il grano e gli animali, gli spari e le trombe, non era la pietosa Madre di Dio, ma una divinità sotterranea, nera, delle ombre del grembo della terra, una Persefone contadina, una Dea infernale delle messi.
...
La terra era troppo dura per lavorarla, le olive cominciavano a risecchire sugli alberi assetati; ma la Madonna dal viso nero rimase impassibile, lontana dalla pietà, sorda alle preghiere, indifferente natura. Eppure gli omaggi non le mancano: ma sono assai più simili all'omaggio dovuto alla Potenza, che a quello offerto alla Carità.
Questa Madonna nera è come la terra; può far tutto, distruggere e fiorire; ma non conosce nessuno, e svolge le sue stagioni secondo una sua volontà incomprensibile.
La Madonna nera non è, per i contadini, né buona né cattiva; è molto di più. Essa secca i raccolti e lascia morire, ma anche nutre e protegge; e bisogna adorarla. In tutte le case, a capo del letto, attaccata al muro con quattro chiodi, la Madonna di Viggiano assiste, con i grandi occhi senza sguardo nel viso nero, a tutti gli atti della vita."
continua...
Bibliografia:
"De re rustica", Lucio Giunio Moderato Columella (60-65 d.C.), tradotto da Giangirolamo Pagani, 1846 (preferisco le traduzioni dell'Ottocento perchè, avendo una viticoltura e tecniche di produzione del vino più simili a quelle antiche delle nostre, sanno spiegare meglio i concetti e trovare le parole giuste. Quelle moderne spesso incappano in errori dovuti alla non conoscenza delle tecniche di viticoltura romane).
"Interventi di bonifica agraria nell'Italia romana", a cura d Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ed. L'Erma di Bretchneider, 1995.
"Storia dell'agricoltura italiana: l'età antica. Italia Romana" a cura di Gaetano Forni e Arnaldo Marcone, Edizioni Polistampa, 2002
“La viticoltura e l’enologia presso i Romani”, Luigi Manzi, 1883, .
“Storia della vite e del vino in Italia”, Dalmasso e Marescalchi, 1931-1933-1937, .
“Storia del paesaggio agrario italiano”, Emilio Sereni, 1961, .
“Quando le cattedrali erano bianche”, Quaderni monotematici della rivista mantovagricoltura, il Grappello Ruberti nella storia della viticoltura mantovana, Attilio Scienza.
“Terra e produzione agraria in Italia nell’Evo Antico”, M. R. Caroselli.
"Le tignole della vite", G. Anfora et al., Istituto Agrario di San Michele all'Adige, 2007.
http://narrabilando.blogspot.com/2014/05/culti-pagani-e-culti-cristiani.html
Cosa stiamo facendo ora in vigna: giugno e le cimature
In vigna è finita la fioritura e si sono formate piccole bacche verdi (allegagione). I tralci, che abbiamo palizzato (messi tra i fili, in posizione verticale, ricordate?) hanno continuato la loro crescita, arrivando anche un poco a sovrastare i fili più alti della spalliera. A metà giugno le giornate di sole e vento sono state interrotte da alcuni temporali, che hanno anche abbassato un po’ le temperature.
Il cambio di tempo ha richiesto degli interventi per la protezione dalla peronospora, che in queste fasi è particolarmente pericolosa perchè potrebbe entrare nel grappolo. Grazie ai sistemi di viticoltura integrata, possiamo contenere questa malattia con un numero molto limitato di interventi, con prodotti a bassissimo impatto ambientale che non lasciano residui, ma molto efficaci per proteggere i nostri teneri grappolini in crescita. Evitiamo così di usare il rame, sostanza ecotossica e che richiede un numero di trattamenti molto più alto per avere una difesa sufficiente. Il rame è anche fitotossico in fioritura. Comunque, per fortuna, per noi la difesa dalla peronospora non è frequente. Ora è già tornato il clima caldo e ventoso che è la norma nella nostra costa toscana, per questo periodo.
Subito dopo l’allegagione è il momento delle cimature, cioè il taglio delle parti finali dei tralci in crescita, l'apice e le ultime foglie. È una pratica tradizionale antichissima, consigliata fin da Columella. Oggi sappiamo il perché. Non è comunque una pratica generalizzata, però apporta diversi vantaggi che ora provo a spiegarvi.
La cimatura fa parte della grande famiglia dei lavori detti di “potatura verde”, che modificano la chioma della pianta. Se fatti in modo opportuno, migliorano la produzione e la sostenibilità della vigna. Gli interventi al verde, in generale, servono per mantenere la chioma dentro certi limiti di crescita, altrimenti la vigna diventerebbe poco percorribile, con rischi di rotture accidentali dei tralci. Servono poi anche a regolare gli equilibri fra vegetazione e produzione. È infatti importante che la vite abbia una chioma sufficiente, in relazione alle proprie condizioni ambientali e produttive, per accumulare sufficiente energia sotto forma di zuccheri. Non è però solo questione di quantità: è anche fondamentale la loro corretta distribuzione fra le varie parti della pianta, se si vuole avere una maturazione ottimale. Alcuni interventi influiscono anche su questi equilibri energetici. Inoltre, la chioma non deve neppure essere troppa, per l'esposizione ottimale delle foglie e dei grappoli (questi, a seconda delle condizioni climatiche, a volte devono essere più esposti, a volte più protetti). Infine, la vegetazione troppo sovrapposta crea micro-ambienti sfavorevoli, umidi, che favoriscono diverse malattie. Quindi certi lavori di potatura verde servono anche a prevenire le infezioni di patogeni.
Andiamo nel particolare: perché si fa la cimatura?
Il motivo più “terra-terra” è togliere l’ingombro dei tralci che, cresciuti in altezza, possono ripiegare nell’interfilare. I risvolti fisiologici sono invece qui elencati, in modo sintetico:
- La cimatura rende le viti più resistenti agli stress idrici: le foglie apicali sono le più grandi consumatrici d’acqua. Togliendole, la pianta raggiunge un miglior equilibrio per le risorse idriche disponibili.
- Contribuisce alla nascita di vini più equilibrati: il taglio degli apici blocca lo sviluppo in altezza e stimola le gemme laterali, che formano i rami laterali o femminelle. Questo sposta gli equilibri interni, abbassa il vigore generale e comporta quindi una leggera diminuzione della produzione degli zuccheri, che nello stesso tempo sono però meglio veicolati verso i grappoli.
- Migliora il micro-clima della chioma: il taglio alleggerisce un poco la chioma, con maggiore illuminazione ed arieggiamento delle foglie sottostanti e dei grappoli, migliorando la qualità generale. Inoltre, si evitano micro-condizioni ambientali umide che favoriscono diverse malattie.
- Ringiovanisce la chioma: in un primo tempo in realtà la invecchia, perchè taglia le punte con le foglie giovani. In seguito però, lo stimolo dei rami laterali (femminelle) porta a far nascere nel corso della maturaziane tante nuove foglie giovani, molto efficienti nella fotosintesi. Quelle dei germogli principali, in questa fase, iniziano ad invecchiare. Il ringiovanimento complessivo contribuisce a supportare una maturazione ottimale, permettendo l’accumulo nel grappolo di tutti quei componenti che daranno ricchezza e complessità al vino.
Attenzione, però: come tutte le pratiche agricole, fatta bene è ottimale, fatta male crea problemi.
È ottimale in questa fase, subito dopo l’allegagione. Fatta troppo presto blocca l’accrescimento dei tralci e limita la parete fogliare (anche se in certi casi, per certe varietà, si è visto che, se fatta in pre-fioritura, può migliorare la percentuale dell'allegagione). Se viene fatta troppo tardi, la sua azione sui delicati equilibri fisiologici della vite può diventare più negativa che positiva, perché causa una diminuzione troppo forte della gradazione zuccherina e del peso dell’acino. Ad esempio, nei climi più freschi la crescita tardiva delle femminelle va a competere troppo con le bacche in maturazione per l’assorbimento delle risorse energetiche della pianta, a discapito delle seconde. Negli ambienti più caldi, viceversa, le cimature tardive non stimolano particolarmente la crescita dei rami laterali. Si rischia di portare via foglie senza benefici, ottenendo solo di diminuire la superficie fogliare.
Quanto tagliare? Dipende dalla propria situazione, ma di solito è poco. In genere bisogna evitare i tagli troppo drastici: non stiamo potando una siepe ornamentale! Come detto, se la chioma è troppo limitata, rischiamo conseguenze negative. Si è calcolato che è necessario che i grappoli abbiano un numero sufficiente di foglie sopra di sé per una maturazione ottimale (almeno una decina). Sono queste foglie sopra al grappolo a fornire gli zuccheri per la maturazione. Quelle sotto inviano i loro zuccheri essenzialmente ai tralci e agli organi perenni (tronco, radici). Se il rigoglio vegetativo è talmente intenso da richiedere tagli molto importanti, bisogna valutare di cambiare qualcosa d'altro nella gestione della vigna, a monte.
Seppure servono le attenzioni che ho spiegato, la cimatura non è un lavoro che richiede eccessiva precisione. Per questo, in un sistema a spalliera come il nostro, la sia può fare in modo meccanico, con un attrezzo portato dal trattore, anche perchè è molto importante concluderla velocemente, nella breve finestra di tempo che segue l'allegagione, senza andare troppo avanti.
Nuova annata: il Criseo Bolgheri Bianco 2018
L'attesa è stata un po' lunga ma finalmente è arrivata la nuova annata del nostro Criseo Bolgheri DOC Bianco, la 2018.
C'è sempre un po' d'attesa ma quest'anno è stata un po' più lunga del solito. Tutti gli anni lo finiamo prima che sia uscita l'annata successiva, perchè è un vino prodotto in piccola quantità. Nasce infatti da una singola vigna di soli 0,7 ettari, Campo Bianco, posta vicina al nostro guado, prima che inizi il bosco.
L'annata 2017 era stata ulteriormente scarsa: la siccità aveva ridotto notevolmente le rese produttive. Fra questo e quel poco più di attenzione derivata dall’aver ricevuto i TreBicchieri del Gambero Rosso, il 2017 è finito molto rapidamente. Se siete curiosi di assaggiarlo, c’è rimasta solo qualche ultima Magnum.
Il 2018 è stato un anno molto regolare, con caratteristiche di maggiore freschezza climatica rispetto al 2017. La primavera è stata molto piovosa e ha permesso di recuperare l’aridità dell’anno precedente. L’estate è stata invece nella norma, calda e siccitosa, senza particolari eccessi. Anzi, qualche breve pioggia ha un po’ rinfrescato le temperature a fine estate, senza creare problemi. Questo andamento stagionale ha permesso una maturazione più lunga del solito: abbiamo raccolto la vigna Campo Bianco il 10 settembre.
Questa data varia con le annate: in quelle più calde e aride può anticipare alla fine di agosto o nei primi giorni di settembre, in quelle più fresche si può spostare un po’ più avanti. L’importante è cogliere quel momento perfetto di maturazione sinergica, nel quale si trova l'equilibrio perfetto fra le varietà che vi sono in complantazione (Vermentino in prevalenza, Fiano, Verdicchio, Manzoni Bianco, Petit Manseng). In questa scelta conta molto l'esperienza che abbiamo maturato su questa vigna in oltre vent’anni.
Una volta un vino come questo era chiamato uvaggio. Le uve, che sono cresciute insieme nella vigna Campo Bianco e sono state raccolte insieme, dopo la selezione sono anche co-fermentate. Si tratta di una pratica antica tradizionale, capace di far loro esprimere una personalità unica.
Il suo gusto? Ha un bel corpo, è morbido ma bilanciato da una grande freschezza. Inoltre ha una complessità aromatica incredibile, con aromi che cambiano in continuazione via via che il vino si ossigena nel bicchiere. Si sprigionano profumi di pompelmo, frutta tropicale, pasticceria, salvia, fiori bianchi, zafferano, note minerali, idrocarburi, ... Nel tempo prevarranno sempre più questi ultimi, perché è un bianco che può avere un lungo invecchiamento, grazie al fatto che dopo la fermentazione è rimasto in acciaio sui lieviti per quasi un anno. Ora lo proponiamo dopo che è stato quasi un altro anno ad affinare in bottiglia.
È ottimo adesso, ma se amate i bianchi dalle note più evolute, come Michele e me, potete tranquillamente conservarlo in cantina (al fresco e con bottiglia coricata) per ancora qualche mese … o qualche anno. Se resistete!
Siamo aperti: vi stiamo aspettando
Guado al Melo è di nuovo aperta ai visitatori, con orari ridotti.
La vendita del vino è possibile:
dal lunedì al giovedì 10.00-12.30 15.00-17.30
venerdì 10.00-12.30 15.00-18.00
sabato 10.00-13.00 15.00-18.00
Le visite guidate e le degustazioni si fanno solo su prenotazione, chiamando il numero 0565 763238 o scrivendo a info@guadoalmelo.it
Grazie!
I lavori primaverili: cosa stiamo facendo adesso
In questo momento la crescita della vite è vertiginosa. Ci sono tanti lavori da fare che si susseguono a ritmo incalzante. Ognuno di essi ha un nome particolare: così imparate anche un po’ il linguaggio del vignaiolo!
Stiamo ormai concludendo i lavori di potatura verde, cioè di un insieme di diversi interventi che agiscono sulle parti verdi della pianta (foglie, germogli, tralci, grappoli), chiamata così in contrapposizione a quella "secca" o invernale (che abbiamo fatto sui rami spogli). Facciamo questi lavori tutti a mano, perchè richiedono scelte accurate per ogni singola vite. Vediamo quelli di questo periodo.
La spollonatura è l’eliminazione dei germogli che nascono dal portinnesto della vite, oltre che quelli che nascono sul fusto o altri rami legnosi dalle gemme latenti, rimaste nel legno vecchio. È importante farlo molto presto, prima che si sviluppino troppo. La scacchiatura invece è la rimozione dei germogli in eccesso dai tralci dell’anno.
https://youtu.be/nNVu7MpobYk
Tutti questi lavori di potatura verde sono importantissimi per far trovare alla vite il giusto equilibrio. Permettono di diminuire il carico della pianta, così che i futuri grappoli maturino il meglio possibile. Preparano la futura potatura invernale, che sarà più semplice. Inoltre, la massa fogliare viene resa meno densa, evitando così che si crei un ambiente di sovrapposizione ed umidità favorevole allo sviluppo di muffe o altre malattie. Infine, prevengono anche problemi di colatura. Col termine colatura si indica la caduta eccessiva dei fiori. In generale, rispetto ai fiori prodotti da ogni pianta, solo il 20-50% (dipende dalla varietà) verrà fecondato e allegherà, cioè formerà il frutto. Si parla di colatura se la caduta è superiore alla norma per quella varietà. Può dipendere da disequilibri fisiologici della vite, condizioni climatiche difficili, carenze nutrizionali, diverse malattie (virosi, peronospora, oidio, tignola, …).
Il lavoro che stiamo facendo ora è la palizzatura. Si tratta della sistemazione dei tralci in posizione verticale. Nei sistemi a spalliera come i nostri, si fa alzando una coppia di fili paralleli. Gli effetti sono numerosi: i tralci non invadono l’interfilare e noi non rischiamo di romperli nei passaggi con i mezzi, sono meglio distribuiti e meno affastellati. La posizione verticale, come ho già spiegato nel post sulla potatura, aumenta l’attività fisiologica dei germogli.
In questo periodo è anche molto importante capire, il prima possibile, se ci sono carenze nutritive della vite. Su questa parte così complessa sarà però necessario un post dedicato.
A seconda poi delle condizioni ambientali, dobbiamo anche intervenire per evitare i problemi dati dall’oidio e dalla peronospora, secondo i principi della viticoltura integrata e sostenibile. In questa primavera 2020, almeno per ora, siamo un po’ più a rischio oidio che peronospora, come è usuale per le condizioni climatiche del nostro territorio. Sono le zone più umide e piovose che hanno in genere più problemi con la peronospora. Per quanto riguarda la tignoletta, abbiamo già distribuito nella vigna le trappole e i sistemi di confusione sessuale (lotta biologica). Se cliccate sui nomi, potete andate ai post in cui spiego cosa facciamo per ciascuna di queste avversità.
Il verde tra le vigne, ovvero la gestione sostenibile del suolo
Terreno “nudo”, prati dai mille fiori, monoculture seminate, pratini stile campo da golf, strisce verdi alternate ad altre marroni …
Avrete sicuramente visto nelle vigne tante situazioni diverse nella gestione del suolo. Non si tratta solo di una questione estetica o casuale. Alla base di queste scelte ci sono ragionamenti e necessità diverse, che proverò a spiegarvi in questo post.
Cosa significa sostenibile?
Oggi la parola sostenibilità è usata in tanti contesti e non sempre in modo corretto.
Una pratica agricola, per essere effettivamente sostenibile, non basta che suoni come vagamente "green" o "bio", ma deve dimostrare di funzionare per lo scopo che si prefigge. Deve soddisfare contemporaneamente queste diverse condizioni:
- Deve essere la scelta migliore in termini agrari. In questo caso, deve consentire alle viti di raggiungere un equilibrio ottimale rispetto alla situazione ambientale particolare. Per trovare la risposta dobbiamo quindi chiederci com’è il clima, il suolo, la pendenza, la disponibilità dell’acqua, quali portinnesti e varietà abbiamo, quanto produce quella vigna, il tipo di vino voglio produrre (giovane, da invecchiamento, spumante, ecc.), ...
- deve avere il più basso impatto sull’ambiente possibile (sostenibilità ambientale), dimostrato da studi e ricerche;
- non deve avere costi troppo alti (sostenibilità economica);
- deve rispettare i lavoratori (sostenibilità sociale).
Non è semplice trovare il sistema che le soddisfi pienamente tutte insieme. L'importante è trovare l’equilibrio migliore fra di esse. L'essenziale è avere dei sistemi di controllo che possano farci capire se stiamo lavorando bene, sia in termini di qualità che di sostenibilità o che, viceversa, è meglio cambiare qualcosa (ne parlo nel paragrafo "Capacità di scegliere")
Storicamente nelle vigne ha prevalso a lungo il suolo costantemente lavorato. Ad esempio, quando abbiamo iniziato a lavorare a Bolgheri alla fine degli anni ’90, tutte le vigne erano nude. Noi abbiamo invece impostato fin dall'inizio una scelta diversa, l'inerbimento, in linea con le più avanzate ricerche di viticoltura integrata e sostenibile.
Negli anni la situazione è abbastanza cambiata un po’ ovunque e negli ultimi decenni l'inerbimento si è diffuso sempre più, con diverse impostazioni a seconda dei territori. Alla luce delle attuali conoscenze, è la forma che presenta più vantaggi ecologici ed economici, oltre che qualitativi, in grado di preservare la qualità del suolo e gli equilibri della vite. Se leggere fino in fondo capirete il perché.
Non è giardinaggio
La gestione del suolo non è solo questione di ordine, di avere un bel paesaggio da ammirare. Ha delle ripercussioni importanti sull’ecosistema generale della vigna e sulle sue risorse naturali, oltre che sugli equilibri delle viti stesse, quindi sull’uva che andremo a raccogliere. Naturalmente non agisce da sola sulla produzione: va integrata con tutte le altre scelte e lavorazioni dell'anno.
A volte si sceglie l'una o l'altra gestione per abitudine, perché si è sempre fatto così, perché altri fanno così, ecc. In realtà dovrebbe dipendere essenzialmente dalle condizioni climatiche ed ambientali nelle quali si trova la vigna, dalle varietà e dai portinnesti utilizzati, oltre che da quale tipologia di vino si produce. Come ho spesso ripetuto, la viticoltura è qualcosa che va pensata sempre su misura, non esistono scelte migliori uguali per tutti, pur essendoci delle linee guida di base consolidate dagli studi e dall’esperienza.
Meglio il prato o il deserto?
Fra le tante situazioni intermedie che si possono avere, sono due le categorie principali: le lavorazioni tradizionali, che portano a far sparire fino all’ultimo filo d’erba, e la presenza di vegetazione (inerbimento).
Queste due categorie principali portano dei pro e dei contro, che ho provato a schematizzare nel grafico a lato. Come vedete ci sono vantaggi e svantaggi sia a destra che a sinistra della tabella. Quale situazione allora è migliore?
Il punto nodale è legato alla competizione fra la vegetazione e la vite, per l'acqua e gli elementi nutritivi (sali minerali). Sicuramente la vite non è una pianta che ha grandi richieste idriche, ma non deve neppure diventare un fattore limitante. La presenza di altra vegetazione può pesare in modo molto sfavorevole, soprattutto se la vigna è già in condizioni al limite.
La competizione ha fatto a lungo pendere la bilancia a favore della lavorazione continua, soprattutto in epoche in cui era rilevante la quantità di uva prodotta e nei territori con limiti d'acqua più o meno importanti.
L'inerbimento comporta una minore espansione della vite, meno germogli, una chioma meno ampia e meno densa, rese produttive più basse. Si è visto anche che si hanno mosti con contenuti zuccherini mediamente più alti e con un aumento dei polifenoli ed antociani (nelle uve nere). C’è però una minore presenza di azoto nel mosto disponibile per i lieviti. Queste conseguenze non sono così negative per una produzione votata più alla qualità che alla quantità.
Passare però dal vantaggio allo svantaggio a volte è un attimo in viticoltura. Se mal gestita, la competizione può realmente portare ad un deperimento troppo elevato delle viti. In questo caso il problema non sarà solo la scarsa quantità (che oggi può anche non farci paura), ma la produzione di un’uva povera di elementi fondamentali, non in grado di originare vini complessi ed interessanti.
Nella vigna inerbita la chioma è meno espansa e meno densa. Questo comporta anche una minore suscettibilità a diversi parassiti. Il contagio però può aumentare anche con una cattiva gestione della vegetazione, soprattutto se la si lascia crescere a dismisura. La massa vegetale può aumentare troppo l’umidità locale, soprattutto a ridosso delle viti, innalzando la possibilità d’infezione di diverse muffe o funghi.
La differenza, come sempre, sta nella gestione, nella sensibilità e capacità del viticultore di mantenere un rapporto equilibrato nella competizione fra copertura e viti. Solo così di hanno tutti i vantaggi dell'inerbimento e si minimizzano gli svantaggi.
L'inerbimento porta a degli indiscussi vantaggi ambientali che mancano nella lavorazione tradizionale. Preserva al meglio la qualità del suolo e tutti gli aspetti che ne derivano. Consente infine un numero minore di ingressi nella vigna, con risvolti ecologici e anche costi minori.
Aree di confine nella vigna
Prima di scendere nello specifico della gestione, considerate che il suolo della vigna non è tutto uguale. Ci sono due aree ben distinte, che hanno problemi e necessità di lavoro molto diverse.
Uno è il sottofila o sottofilare (nel caso del filare), comunque lo spazio a stretto ridosso delle viti. In questa zona la competizione è massima, con in più i problemi pratici di lavorare senza danneggiare le viti.
L’interfilare è la zona intermedia, dove la competizione sfuma, ci sono meno problemi pratici legati all’ingombro delle viti ma con molte altre variabili per le scelte operative.
La lavorazione continua del suolo
Fin dalle epoche più antiche si trova l'indicazione di lavorare il suolo almeno tre volte l'anno: al germogliamento, all'allegagione del frutto e all'invaiatura. L'introduzione della meccanizzazione ha portato ad interventi sempre più frequenti, al punto di eliminare tutta la vegetazione spontanea con lavorazioni continue e, in qualche caso, il diserbo.
In passato si vedevano più rischi che vantaggi nella competizione tra viti e flora spontanea, anche perchè erano momenti in cui la produzione cercava in genere di ottenere quantità. Quando si è iniziato a parlare in modo generalizzato di riduzione delle rese (soprattutto dagli anni '90), il suolo nudo ha costretto spesso a dover intervenire drasticamente in altri punti chiave per "risettare" gli equilibri della vigna.
Il metodo più tradizionale per ottenere il suolo nudo era (è) la lavorazione frequente. Gli strumenti più vecchi erano anche invasivi: si facevano vere e proprie arature o interventi che sminuzzavano le zolle in modo fine (come alcune zappatrici rotative molto usate fino agli anni '90). Nel tempo sono però emersi gli effetti negativi di questo modo di operare, legati soprattutto all’impoverimento della componente organica del suolo, ai fenomeni di erosione, al dilavamento, la formazione della cosiddetta "suola di lavorazione", l'asfissia radicale e le carenze nutrizionali (come la comparsa di clorosi ferrica). I frequenti ingressi con le macchine portavano ad un ulteriore compattamento del terreno e un alto consumo di gasolio, peggiorati nel caso di uso di mezzi grandi e pesanti.
Una lavorazione invasiva rischia anche di rovinare le radici della vite. La maggior parte di esse si trova nella fascia di suolo dove sono concentrate le sostanze nutritive, che è relativamente superficiale (non si spinge oltre i primi 50 cm). La massa principale delle radici si trova mediamente fra i 25 e i 45 cm di profondità, una zona che rischia di essere "massacrata" da lavorazioni troppo profonde.
Il diserbo alla francese
Già in passato si vedevano i limiti delle lavorazioni continue e si sono cercate strade alternative, con il fine di diminuire sempre più gli interventi. Dagli anni ’50 cominciò a diffondersi l’uso dei diserbanti, che sembravano superare tanti problemi della lavorazione continua, con maggiore velocità d’azione ed un numero inferiore di ingressi nella vigna.
In Italia sono stati usati (o sono usati anche oggi) quasi esclusivamente per il sottofila. L’uso sull’intera superficie è molto più diffuso in altre nazioni, come ad esempio la Francia. L’INRA aveva investito molto negli studi in questo ambito e diffuse la pratica detta della “non coltura” (“no tillage”), che prevedeva l’abbandono quasi totale delle lavorazioni a favore dei diserbi. Alla fine degli anni ’80 si era arrivati ad un’amplissima diffusione in tutta la Francia vinicola, con punte fino al 98% (nella Champagne). Ancora oggi è molto diffuso.
Nel tempo sono però emersi anche diversi problemi. Ad esempio, si è presentata la problematica del dilavamento di queste sostanze nelle falde acquifere. Si è visto che l’uso prolungato dei diserbanti causa comunque un’alterazione della struttura del suolo. Diventa più compatto in superficie, con minore ricircolo d’aria e infiltrazione d’acqua, oltre che una diminuzione della sostanza organica. Sembra che questi effetti siano legati alla riduzione della sua componente microbica. Infine, ci può essere sempre il rischio di uno sviluppo o selezione di piante resistenti.
Nel tempo alcuni prodotti che lasciavano residui, i disseccanti, sono stati prima limitati e poi abbandonati. Nonostante la ricerca si sia orientata a studiare prodotti più sostenibili, i diserbanti hanno però sempre raccolto molta diffidenza.
Nell’ultimo decennio, soprattutto, c’è stata una forte campagna contro il glifosate, il principio attivo ormai più usato al mondo. Gli studi scientifici sembrano dimostrare la sua biodegradabilità e la non nocività (con un uso corretto). I detrattori sostengono che però non si è certi dei suoi effetti e del fatto che non persista nell’ambiente. Fatto sta che ormai l’opinione pubblica si è schierata contro, il che sta portando la politica europea verso la prevalenza di un principio di precauzione. La regione Toscana, ad esempio, lo ha messo già al bando dal prossimo anno.
L’inerbimento, ovvero la flora come risorsa
Michele si ricorda ancora di quando suo padre Attilio, negli anni '70, aveva iniziato a lasciare le vigne inerbite nell'azienda storica di famiglia Vallarom, in Trentino, mentre intorno il terreno era quasi tutto nudo. Erano gli anni pionieri della viticoltura integrata e sostenibile, nata negli anni '60.
Queste pratiche hanno iniziato ad uscire dalla nicchia soprattutto negli anni '90, grazie alla diffusione di una sempre maggiore sensibilità ambientale, al crescere dell'esperienza e al supporto di ricerche sempre più avanzate. La viticoltura di quegli anni si era poi orientata sempre più verso basse rese produttive e la competizione non faceva più così paura.
La viticoltura sostenibile non ha stravolto la vigna e le scelte del passato ma ha cambiato l'approccio. Non vede più la flora come un intralcio ma come una risorsa che, se ben gestita è in grado di mantenere equilibri ottimali in vigna, preservando nello stesso tempo le risorse naturali (suolo, biodiversità, acqua), e permettendo una riduzione importante degli interventi (la "non coltura" o "no tillage" cercato da tempo; ricordate?).
"Ben gestito" non significa seguire tutti una sola direttiva, ma valutare le scelte a seconda del proprio territorio, della singola vigna o anche particella. L’inerbimento sempre presente (permanente) è ottimale dove c’è una disponibilità di acqua molto buona in tutte le stagioni. Nei territori dove l’acqua è un po’ meno disponibile, può bastare a volte la lavorazione del solo sottofila per bilanciare la situazione. Se l'acqua è ancora più carente o ci sono momenti dell’anno di forte siccità, l’inerbimento può essere interrotto momentaneamente con delle lavorazioni. Queste possono riguardare l'intera superficie o solo parti, come ad esempio a filari alterni. Ricordiamo comunque che nei periodi siccitosi l'erba in genere secca spontamente, elimandosi da sola.
Le lavorazioni sono comunque notevolmente ridotte, sia come numero che come impatto, rispetto alle profonde e continue lavorazioni del passato. Oggi, nella gestione sostenibile, si usano attrezzi che stanno in superficie. Inoltre non sminuzzano troppo il suolo, ma mantengono il più possibile integre le zolle. La lavorazione ha comunque il beneficio di permettere il sovescio, cioè di interrare leggermente i resti vegetali ed i concimi, per rendere più veloce l'arricchimento del suolo in materia organica e componente minerale.
Prato spontaneo o seminato?
L’inerbimento naturale, che abbiamo scelto anche noi, integra la vigna nel suo ambiente naturale, nel paesaggio. La flora è molto varia (alta biodiversità). Ci sono molte specie che fioriscono a scalare per diversi mesi e creano un ambiente attrattivo per la micro-fauna locale, che altrimenti se ne andrebbe altrove. C'è poi l’aspetto assolutamente positivo del costo, che è pari a zero: la natura si rigenera da sé, senza spese per il seme ed i passaggi di lavoro per la semina.
Un prato abbandonato tende però nel tempo verso il predominio di alcune specie, soprattutto quelle a foglia larga (es. il tarassaco, la malva, ecc.) che sono anche fra le più competitive con la vite. Alcune, come il convolvolo e l'ortica, attirano una cicalina, un insetto che trasmette un fitoplasma (un organismo simile ai virus) che causa una malattia della vite detta "legno nero". Masse vegetali troppo dense aumentano l'umidità e il rischio di certe malattie. I tagli periodici evitano però questi pericoli. Inoltre favoriscono lo sviluppo di più essenze, soprattutto graminacee, che danno maggiore complessità.
Il prato spontaneo può non essere la scelta migliore in certe situazioni come, ad esempio, dove ci sono grossi problemi di erosione, se la flora spontanea è lenta a crescere o fatica a distribuirsi su tutta la superficie.
L’inerbimento artificiale richiede invece la semina di una o più specie scelte con precise finalità. Questo comporta un aumento degli interventi in vigna e costi più alti. Crea un ambiente, con una o poche specie, molto meno attrattivo per la micro-fauna del luogo.
Nelle zone mediterranee si preferiscono spesso alcune leguminose, che non hanno grandi necessità di acqua, si insediano velocemente e hanno una crescita veloce. Non sopportano però il calpestamento. Sono state a lungo utilizzate perché si pensava che, col sovescio, arricchissero il suolo in modo importante di azoto, ma ormai si è visto che non è proprio così. Consentono comunque un arricchimento generico in materia organica.
Il massimo risultato in questo senso si ottiene con le graminacee, che formano una biomassa più consistente. Sono più usate nel centro-nord perché hanno in genere una maggiore richiesta idrica. Sono miscele ben studiate per le diverse situazioni, composte da diverse festuche e loglietto, con crescita lenta e la capacità di formare un prato denso e compatto, che evita molto bene i fenomeni di erosione.
Il controllo dell’erba e la pacciamatura
Nel nord, o nei luoghi più freschi, la crescita dell'erba è continua dalla primavera fino all’autunno, per cui saranno richiesti diversi interventi di taglio. La semina artificiale può consentire di scegliere graminacee a crescita lenta. Nelle zone più siccitose e mediterranee, come la nostra, il problema è esclusivamente primaverile. Da giugno-luglio in poi la vegetazione secca spontaneamente e non è più un problema.
La pacciamatura è un sistema sostenibile, che usiamo anche noi in primavera, e che permette di controllare la vegetazione limitando gli interventi. Non è niente di nuovo: consiste nel lasciare in vigna l'erba tagliata e trinciata, così come i tralci delle potature triturati ed altri scarti vegetali. Questi formano uno strato organico-minerale che limita naturalmente la crescita vegetale. Nel tempo si degrada, diventa compost ed arricchisce il suolo.
Nel video sotto si vede un esempio di pacciamatura che facciamo a Guado al Melo, in questo caso nella capezzagna. Lo stesso si fa tra i filari.
https://youtu.be/0R9OH_vDiqo
Il sottofila, la difficoltà degli spazi stretti
La vegetazione a stretto ridosso della vite porta sempre più problemi che vantaggi: sottrae nutrienti e vigore alla vite, ne limita lo sviluppo radicale, può portare umidità e maggiori rischi di malattie e parassiti, … Per questi motivi in genere nel sottofila si preferisce mantenere il suolo nudo. Solo in quei territori dove c’è abbondanza d’acqua vi si può tenere la vegetazione, sempre che sia ben curata e non si notino squilibri nutrizionali della vite.
Il metodo più tradizionale per mantenere pulito il sottofila è la lavorazione del suolo, a mano o meccanica. In passato zappavano solo a mano. Si fa ancora oggi nelle vigne giovani, per non danneggiare le barbatelle, mentre in tutti gli altri casi si usano ormai mezzi meccanici.
A lungo i mezzi meccanici sono stati un rischio per questa fascia ristretta, perchè potevano rovinare le radici ed il piede della vite, rompendolo o scortecciardolo (col rischio di malattie). Questo problema ha spinto diversi produttori alla scelta del diserbo nel sottofila, a cui ho accennato sopra, che evita questo inconveniente.
Il progresso tecnologico degli ultimi decenni ha però portato ad attrezzi che fanno questo lavoro in modo sempre più rispettoso, sia nei confronti delle viti che del suolo. Hanno sensori che rilevano in modo sempre più preciso la presenza della vite e la evitano. Le viti giovani che possono esserci nella vigna sono protette con dei cilindri detti “shelters” (foto). Inoltre tendono a stare in superficie, per evitare di danneggiare le radici. Anche noi ne abbiamo provati e cambiati diversi negli anni. Per il viticultore non sono secondari certi aspetti di dettaglio che possono renderli più o meno performanti, anche a seconda del proprio tipo di suolo. È importante che lavorino bene e che consentano di procedere non troppo lentamente in vigna.
Esistono altri sistemi che non mi pare abbiano grande diffusione, per problemi vari (costi alti, bassa qualità, ecc.). Ad esempio ricordo il pirodiserbo, col calore. Un altro sistema è la pacciamatura del sottofila, ma in questo caso non funziona molto bene, se non in certe situazioni. Ad esempio in Trentino Alto Adige viene fatta con l’erba dell’interfilare, che forma grandi masse: ci sono attrezzi che la tagliano e l'ammucchiano nel sottofila. Oppure si fa spargendo trucioli, vinacce esauste, cortecce, ecc. Infine, ci sono casi in cui la pacciamatura di vigneti appena piantati viene fatta col film plastico (come per gli ortaggi), ma è solo temporaneo.
Nel video sotto si vede il nostro attrezzo che lavora nel sottofila, scansando le viti.
https://youtu.be/LdBI46l_C8Q
Capacità di scegliere
Viste tutte queste premesse, capirete che le scelte possono essere diverse e ricche di sfumature, soprattutto in dipendenza delle condizioni ambientali delle vigne. Il viticoltore, conoscendo a fondo le proprie situazioni, decide le impostazioni migliori: che tipo d'inerbimento, come e quanto lavorare il suolo, se farlo in modo uniforme o solo a filari alterni, ecc.
Sta poi alla sensibilità e capacità di osservazione del vignaiolo capire come le vigne rispondono alle scelte fatte, vivendole ogni giorno e negli anni, facendo anche prove in aree limitate, non smettendo quindi mai di cercare d’imparare e migliorare.
Sono diversi i punti nodali da tenere sotto controllo per capire se la gestione richiede (o meno) qualche variazione. Si deve valutare lo stato di crescita e salute delle viti, oltre che la qualità e quantità dell’uva ottenuta. Per quando riguarda la sostenibilità ambientale, si fanno test di biodiversità, analisi del suolo e dell’acqua, oltre che dell'assenza di residui nel vino.
Bisogna anche saper cogliere i cambiamenti delle annate e delle variazioni climatiche di periodi più lunghi, cambiando l’impostazione di conseguenza. Ad esempio noi, dopo anni di inerbimento permanente, abbiamo fatto alcune variazioni, a causa del trend di innalzamento medio delle temperature dell’ultimo decennio e di cambiamenti nella piovosità locale. Siamo passati, in alcune zone, ad un inerbimento con lavorazioni a filari alterni, con rotazione periodica.
Curare la vigna è un percorso di crescita, non di stasi.
Vigne da Instagram
Chiudiamo questo capitolo con questa bella immagine che sembra essere uscita da un libro di agronomia ottocentesco. Non è rara ormai. Ultimamente se ne vedono sempre più sui social. Mostrano il ritorno ad usare animali in vigna, come in passato, al posto del trattore. Si vedono soprattutto i cavalli, raramente i buoi. Nelle vigne italiane, storicamente, questi lavori si facevano soprattutto con gli asini o anche piccole mucche.
Sicuramente sono immagini pittoresche e di grande effetto, che rispecchiano una certa tendenza nostalgica di oggi a rimpiangere "i tempi che furono" dell’agricoltura. Era meglio allora? Era peggio? Sì e no: dobbiamo saper distinguere fra l’eredità utile del passato e quella no, se non vogliamo solo una viticoltura da Instagram.
La lavorazione del suolo col traino animale è una pratica molto evocativa, ma di fatto è poco sostenibile.
Come avete letto finora, oggi la sostenibilità si dirige in un'altra direzione, verso forme di non lavorazione. Nel sottofila, dove eventualmente si deve intervenire un po' di più, è impossibile (ai tempi zappavano a mano). Non è neppure il sistema migliore per la qualità del lavoro: come ho spiegato sopra, oggi ci sono attrezzi che permettono di gestire il suolo e l’integrità delle viti in modo molto migliore rispetto a quelli di vecchia generazione.
Comunque, è fattibile, ragionevolmente, solo per vigne minuscole, usate come “immagine” o da parte di hobbisti. È poco proponibile in tutti gli altri casi: è faticosa per l’animale e per l’uomo, oltre che troppo lenta. I tempi di crescita delle erbacce e delle viti sono rapidi in primavera: in poche settimane cambia tutto ... e sono tantissimi i lavori che incalzano. Infine, non scordiamoci che i lavori in vigna sono tanti e molti richiedono per forza un trattore. Parlo del taglio dell'erba, delle trinciature, delle cimature, ecc.
Non perdiamo di vista quello che ci serve veramente: una sostenibilità reale e razionale, di sostanza, capace di garantire un futuro al nostro lavoro e alla nostra terra.
Bibliografia:
"Viticoltura di qualità", Mario Fregoni, 1998, Edizioni l'Informatore Agrario.
"La vite e il vino", Renzo Angelini ed altri, 2007, ed. ART.
"Manuale di viticoltura", Alberto Palliotti ed altri, 2018, Edagricole.
"Difesa sostenibile delle colture", Paola Battilani, 2016, Edagricole.
"La nuova viticoltura", Alberto Palliotti e altri, 2015, Edagricole.
"View from the vineyard. A practical guide to sustainable winegrape growing", Clifford P. Ohmart, 2011, ed. The Wine Apprecciation Guild.
"Vine roots", E. Archer and D. Saymaan, 2018, The Institute for Grape and Wine Sciences (IGWS), Stellenbosch University.
Tutti i giorni Earth Day
Oggi è il Giorno della Terra ma lo dobbiamo ricordare tutti i giorni, più con le azioni che con le parole. Noi viticoltori sappiamo bene che se il nostro lavoro non è sostenibile, non può avere un futuro.
Per questo scegliamo ogni giorno le migliori pratiche attuali di viticoltura sostenibile integrata, che garantiscono 0 residui nel vino e nell’ambiente, oltre che una ricca biodiversità in vigna.
Per questo abbiamo costruito una cantina interrata, che “sparisce” nel paesaggio, che ci permette di risparmiare il 70% di energia, con un sistema di riciclo dell’acqua piovana che riduce i consumi del 40% (per tutti gli usi interni per cui non serve acqua potabile).
Per questo in cantina lavoriamo con sapienza artigianale, rispettosa delle uve e dell’esaltazione del nostro patrimonio più prezioso: il nostro territorio.
Trovate più informazioni sul nostro sito web.
I lavori in vigna di aprile: la sostituzione delle viti
Fa parte della normale vita di un vigna: ogni tanto, soprattutto andando in là con gli anni, anche le viti possono morire. Succede per tanti motivi: malattie o parassiti che prendono il sopravvento, colpi di freddo o per semplice fine del ciclo vitale. Quindi, togliamo le viti morte e al loro posto piantiamo nuove barbatelle, le piccole viti.
Prima scaviamo per togliere le radici della vecchia vite e riempiamo di nuovo la buca. Questo passaggio ammorbidisce la zolla di terra che cos' è pronta per l'impianto.
Per piantare le barbatelle poi Michele usa la gruccia, lo strumento che vedete nella foto e nel video. È una barra che finisce con due punte. Fra queste è possibile inserire la piantina e, facendo forza sulla barra, piantarla nel terreno senza danneggiarla. Sono infatti le punte a premere e a scavare nel terreno. Si tratta di uno strumento da lavoro antichissimo. Risale ai tempi degli antichi Romani. Allora si chiamava “pastinum”.
Le vigne dell'antica Roma, fra "l'otium" del proprietario ed il lavoro del vignaiolo
(continua da qui)
Secondo Columella, chi vuole iniziare un'attività agricola non deve mancare di tre cose: la conoscenza, la volontà di fare e la capacità di spendere. In realtà, dice, potrebbero bastare le prime due. Tuttavia ci ricorda, con ironia neanche troppo sottile, che la possibilità di spendere torna utile soprattutto a chi manca di conoscenza, perché così può supplire agli errori che fa.
Niente di più vero!
La conoscenza, quindi, per Columella è essenziale ed è il motivo per cui ha sentito l'esigenza di scrivere il suo trattato, De Re rustica (60 o 65 d.C.). Sicuramente è la miglior fonte per capire com'era il lavoro del vignaiolo dell'epoca. Non è un'opera letteraria, ma un vero e proprio trattato tecnico. È talmente preciso, particolareggiato, con osservazioni razionali e da grande osservatore, da essere considerato il primo testo agronomico della storia, rimasto come riferimento fino alla fine del Diciottesimo secolo. Ciò non toglie che Columella rappresenta l'apice di conoscenze della sua epoca, un momento (come tanti nella storia) nel quale la conoscenza non era di certo diffusa in modo universale.
Vediamo ora una testimonianza diretta di una vigna di una grande proprietà e poi torniamo ai consigli tecnici di Columella.
Storie: La quieta villa tra le vigne di Plinio il Giovane
In una lettera all'amico Domizio Apollinare (detta ""della villa in Tuscis"), Plinio il Giovane racconta con orgoglio della splendida vista sulle sue ampie vigne, che può godere dalla sua villa nell'Alta Valle del Tevere.
Plinio era nato a Como il 61 o il 62 d.C. (morì nel 113-114) ed era nipote del celebre (e da me più volte citato) Plinio il Vecchio (zio per parte di madre). Era un avvocato ed un alto funzionario dello stato. Aveva grandi proprietà in diverse parti d'Italia ma la più amata sembra che fosse proprio la tenuta della valle del Tevere, in Etruria (chiamata Tuscia dai Romani). Si trova nell'attuale Umbria, tra San Giustino e Città di Castello.
Non siamo più ai tempi dei 100 jugeri di Catone o della piccola (ma meravigliosa) vigna di Palemone. Stiamo parlando di un grande latifondo, che Plinio ha soprattutto ricevuto in eredità ed, in piccola parte, ingrandito personalmente. Possedeva proprietà terriere per un totale stimato di circa 10.000 ettari, sparsi fra una villa sul mare, quella sulle colline della Tuscia e due sul Lago di Como, oltre che una casa signorile a Roma e una a Como. La proprietà della Tuscia comprendeva ottomila jugeri, circa 2.000 ettari (1 jugero è più o meno ¼ di ettaro), con diverse coltivazioni, che gli rendevano un affitto di 400.000 sesterzi annui.
Siamo ben lontani dalla figura del vignaiolo. Infatti lo stesso Plinio dice che ama questa tenuta più delle altre essenzialmente perché la ritiene la più comoda e di maggior agio, abbastanza lontana da Roma da permettergli una perfetta tranquillità. Qui poteva dedicarsi in pace al suo otium che, per l'intellettuale romano dell'epoca, era il tempo che poteva impiegare allo studio e alla riflessione, quando era libero dalle incombenze della vita politica e pubblica.
Plinio rappresenta ancora il grande proprietario che ben gestisce le sue proprietà, non il latifondista che le dedica soprattutto al pascolo, abbandonandole al degrado del saltus. Scrive chiaramente, con la sua mentalità patrizia tradizionale, che per lui l'unico guadagno legittimo è quello che deriva dalla terra. Infatti non impiegò il suo patrimonio in altre forme d'investimento. Nei suoi scritti ammette, non si sa quanto onestamente, di non sentirsi ricco. Afferma che le sue rendite, fra l'altro oscillanti (come normalmente succede in agricoltura), sono appena sufficienti per permettergli di sostenere il decoro richiesto dalla sua posizione di senatore. Gli consentono giusto una vita frugale, con la possibilità di concedersi solo ogni tanto qualche spesa extra. Fu oculato comunque anche in queste, oltre che filantropo: a parte l'acquisto di statue e la costruzione di templi nelle sue proprietà, donò un appezzamento di terra alla sua ex-nutrice e fece diverse donazioni alla sua città natale, Como. Vi costruì una biblioteca pubblica, creò una cassa alimentare per i poveri, dando in concessione delle sue proprietà. Nel testamento, lasciò in eredità alla città degli edifici termali.
Tornando alla lettera e alla sua tenuta in Tuscia, egli descrive con evidente amore il paesaggio appenninico. Si tratta di un ampio anfiteatro contornato dai monti ricoperti dai boschi. Le coltivazioni si estendono sia in pianura che sulle colline, "ricche di terra grassa".
"Ai loro piedi e per ogni lato si stendono vigneti che intrecciano in lungo e in largo un’unica trama; dal loro limite, quasi dal loro margine in basso, si dipartono viti alberate" (Sub his per latus omne vineae porriguntur, unamque faciem longe lateque contexunt; quarum a fine imoque quasi margine arbusta nascuntur).
Le prime pendici delle colline sono completamente rivestite da vigneti, vinea, le viti basse aggiogate. Circondano completamente la villa di Plinio e, come racconta, sembrano quasi entrare nelle stanze. Nella zona più pianeggiante si trovano invece le lunghe file degli arbusta, le viti maritate, alternate ai campi e ai prati. Purtroppo, come potreste leggere in altre traduzioni di questa celebre lettera, chi non conosce la viticoltura romana traduce arbusta con boschetti o anche siepi (sic!). La vite maritata è stata ed è ancora spesso persa nella traduzione, come avevo già raccontato qui.
La descrizione di Plinio è stata confermata dalle ricerche archeologiche nella valle del Tevere. Le zone pedecollinari erano state scelte dai ricchi per le loro ville ed erano dominate dai vigneti intensivi, coltivati con il lavoro degli schiavi. La pianura era invece soprattutto dei coloni (piccoli agricoltori). Originariamente erano proprietari di appezzamenti assegnati in passato con la centuriazione. Poi, all'epoca di Plinio, erano diventati dipendenti dei latifondisti.
Sembra che Plinio, come tanti altri proprietari, vendesse l'uva in pianta a degli imprenditori che si occupavano della vendemmia, della produzione e vendita del vino. Il mercato principale del prodotto era Roma città. La cosa curiosa, ma che sembra frequente all'epoca, è che Plinio (o più facilmente il suo amministratore) non si preoccupasse di vendere solo l'uva della proprietà padronale ma anche dei coloni. Può sembrarci normale nel caso in cui il colono pagasse in natura (una quota di uva o vino), sistema detto colonia partiaria. L'aiuto era però anche nel vendere la parte di prodotto del colono. Oltre tutto, succedeva lo stesso anche nel caso che il colono versasse l'affitto in denaro (detto locatio-conductio). In questo caso, il latifondista aiutava il colono a monetizzare il suo lavoro, assicurandosi così di ricevere la sua spettanza. Il rapporto sociale sembra molto equilibrato, ancora lontano dallo sfruttamento da "servi della gleba" che i coloni subiranno nelle epoche successive o in altri territori.
La differenza vinea-arbusta non era solo sociale, ripartita fra signori e coloni (vedete anche qui). In un'altra lettera Plinio sottolinea come fosse importante la diversificazione in agricoltura per essere sicuri di avere una rendita. Emerge quindi che la differenzazione in vinea, arbustum e campi era una strategia ben ponderata dei grandi proprietari, per non correre troppi rischi economici.
Il rapporto fra vinea e arbusta, in questo territorio e tanti altri dell'Italia, subirà nei secoli a venire oscillazioni altalenanti, senza che nessuno dei due sistemi scompaia mai del tutto (se non ai nostri giorni). La poca viticoltura dell'epoca Medievale, ristretta intorno ai borghi e portata anche dentro le mura di città e castelli, vedrà prevalere la vinea, più adatta ai piccoli spazi. In epoche successive, soprattutto dal XV-XVI sec., con la possibilità di tornare ai campi aperti, si ebbe il netto prevalere dell'arbusta, la vite maritata, e delle grandi estensioni di coltivazioni promiscue (come nell'immagine). Infine, la viticoltura contemporanea (dalla metà del Novecento circa), sempre più specializzata ed anche meccanizzata, ha portato all'assoluta affermazione della vinea e la definitiva scomparsa dell'antica cultura dell'arbustum, la vite maritata all'albero.
Il lavoro in vigna
Un aspetto generale e più pratico, che mi ha colpito leggendo dalla viticoltura romana, è che all'epoca avevano un numero incredibile di attrezzi agricoli, con tante funzioni specifiche, molti di più di quelli tradizionali nostri. Per i lavori di taglio in vigna c’era una falce usata solo per questo scopo, chiamata falx vineatica o vineatoria, il simbolo stesso del vignaiolo. Da questa è derivato il pennato, usato fino a tempi recenti in tutto il centro e sud d'Italia. Columella si raccomanda, per tutti i lavori di taglio, di fare sempre grande attenzione a non ferire troppo la vite, per evitare malattie e parassiti, come sappiamo bene anche oggi. Le ferite, consiglia, devono essere chiuse con mastice (resine di alberi) oppure terra umida mescolata con morchia.
Le vigne
Columella elenca i sistemi di coltivazione della sua epoca. Ho già parlato di alcuni di essi, ma vediamoli qui riassunti, come li raggruppa l'autore.
La vite maritata o alberata (arbustum) era il sistema tradizionale romano ed il più diffuso, di cui ho ampiamente già parlato in molti post precedenti, descrivendone l'origine e le peculiarità (qui, qui, e qui). Ricordo rapidamente le descrizioni che ne danno Plinio e Columella. L’arbustum poteva essere all’italiana (italicum), diffuso nell'Italia centrale, con le viti (in genere due) arrampicate su un singolo albero. Columella spiega che l'olmo è il preferito perché cresce bene in tanti tipi di suolo e le sue foglie sono molto adatte a foraggiare i buoi. Il pioppo non è molto gradito dagli animali ma è usato in alcuni territori (come la Campania, come noi sappiamo). Migliore è il frassino, che si usa nei terreni scoscesi e montani, non adatti all'olmo. Oltre tutto, le sue foglie sono ottime per capre e pecore. Catone citava anche il fico. In Etruria, patria originaria dell'arbustum, sappiamo che si usava principalmente l'acero.
Il secondo sistema è quello gallico (gallicum) o rumpotinum, presente soprattutto nell'Italia del Nord, nel quale i tralci di vite (detti traduces) passavano da albero ad albero. Si usano alberi non molto frondosi, fra cui l'olmo ben potato, l'acero, il corniolo, il carpino e l'orno. Il salice si utilizza solo nei terreni molto umidi. I tralci, se non riescono a raggiungersi fra albero ed albero, sono congiunti tramite una verga (pali orizzontali al suolo). Possono anche essere sorretti in mezzo da sostegni verticali.
Questi due sistemi sono rimasti in Italia fino a metà circa del Novecento.
Le viti aggiogate sono tutti i tipi di coltivazione in cui la vite era sorretta da supporti di varia natura, dal singolo palo alle strutture più complesse, fatte da pali, canne, corde e sarmenti. Il sistema a spalliera era detto jugatio directa. Da esso derivano tutti quelli moderni. Varrone dice che dà un ottimo vino perché le viti non si fanno ombra tra loro. C'erano poi sistemi particolari di alcuni territorio, come ad esempio la vite characata dell’Arpinate, dove la vite era circondata di canne, ogni ramo era appoggiato ad una di esse e i tralci erano piegati in circolo. Poi c’erano i pergolati, chiamati jugatio compluviata (dal nome dei compluvi delle case, nel disegno sotto), usati ancora oggi, con diverse modalità.
Columella dice che, fra le tante forme di viticoltura delle province, apprezza molto le viti ad alberello senza sostegno, che chiama “surrette”. Descrive anche la vite strisciante, “strata”: è un alberello con i tralci serpeggianti per terra. Columella dice che è usato in climi estremi. I tralci sono sovrapposti l’uno sull’altro per evitare che l’uva tocchi terra e possa marcire.
Siccome fra le viti era comune coltivare grano o altro, in genere si tendeva a lasciare spazi da due fino a dodici metri, per passarci agevolmente con l’aratro trainato dai buoi. Nelle vigne delle zone più impervie si stava più stretti, fino a un metro e mezzo, e i lavori si facevano con la zappa. Sia Columella che Plinio sostengono che l’impianto migliore delle vigne è quello a quinconce, come il numero 5 su un dado, utile per l’esposizione ma anche “perché offre un grato aspetto” (Plinio).
Gli animali erano considerati uno dei pericoli più grandi delle vigne, soprattutto quelli selvatici o le greggi sfuggite al controllo. Le vigne basse erano sempre recintate, soprattutto con siepi. Quelle alberate potevano essere lasciate aperte, con la possibilità anche di usarle per il pascolo, salvo vi fossero in mezzo altre colture da proteggere. I buoi, che trainavano l'aratro o il carro, erano dotati di museruole, altrimenti avrebbero mangiato i germogli e le tenere foglie della vite.
Propagazione della vite ed impianto
Una parte molto lunga e dettagliata del trattato di Columella è dedicata alla propagazione della vite, cioè l'accurata scelta, creazione e gestione della talea. La talea era chiamata malleolus (rimasto nel toscano di tempi più recenti come "magliuolo"), la barbatella da semenzaio viviradicem. Ricordiamoci che loro avevano la fortuna di poter coltivare la vite "franca di piede", cioè intera, non un innesto come dobbiamo fare oggi per colpa della fillossera.
Lo scasso delle vigne era fatto in diversi modi. Il pastinatio, testimoniato dalle fonti scritte, consisteva nello zappare tutta la superficie, a circa 60-90 cm di profondità. Altri sistemi prevedevano invece solo lo scavo di lunghe strisce di terreno, dove si impiantavano le viti. A seconda del tipo di suolo si scavavano delle fossette, dette sulci, o delle trincee più profonde, dette scrobes. In alcuni siti archeologici sono state trovate tracce di questi scavi perché, in terreni vulcanici poco profondi, erano arrivati ad intaccare anche lo strato di tufo sottostante. Questi sistemi sono rimasti in Italia fino a tempi recenti, fino alla diffusione dei mezzi meccanici.
In vigna si facevano anche diversi tipi di canalizzazioni, alcune per drenare l'acqua dai terreni più stagnanti, altre per l'irrigazione nei terreni più siccitosi.
Sul fondo della buca dell'impianto mettevano delle pietre, vinacce mescolate a letame, sia per nutrimento che per "riscaldare" le barbatelle. Poi riempivano le buche con la terra. Se il suolo era molto magro, si consigliava di aggiungere nella fossa anche terra grassa.
I magliuoli erano piantati ad entrambi i lati delle fosse, in modo che uscissero dalle parti opposte. Per piantare le giovani viti usavano il pastinum, un lungo bastone che finiva con due rebbi. In secoli più recenti si chiamerà trivella nel Lazio e gruccia in Toscana. Lo usiamo ancora oggi. Le vecchie viti sostituite erano dette ripastinate.
Le viti giovani erano fissate ad una canna perché crescessero diritte, per condurle poi alla forma di allevamento, come facciamo oggi. Soprattutto nel primo anno consigliano che siano ben seguite, irrigate se serve, accuratamente zappate e spampinate.
Potatura
Plinio racconta che fu all'epoca di re Numa che s'iniziò a potare le viti. Sembra che all'inizio i vignaioli fossero ritrosi a salire sugli alberi (la vite alberata, la forma originaria romana), che erano anche molto alti, per paura di cadere (“pericula arbusti”). Venne introdotta allora la pratica di garantire ai lavoratori delle vigne anche l’eventuale copertura delle spese funebri.
Parecchi secoli dopo Numa, Columella scrive, in modo molto moderno, che la potatura deve essere fatta con tre finalità: pensando alla produzione del frutto, scegliendo bene i migliori tralci, studiando di rendere la vite longeva. Per una potatura ottimale si deve ricordare la produzione dell’anno precedente di ogni pianta. Distingue e spiega la potatura lunga e quella corta, per le diverse forme di allevamento della vite. La vite strisciante invece ha solo una potatura molto corta. Lo sperone (il moncone che resta del tralcio dopo la potatura corta) lo chiama custodem, ma dice che è detto anche resecem o praesidiarium.
Columella dice che si può potare ad ottobre, dopo che le foglie sono cadute e sempre che i sarmenti siano ben maturi. Se l'inverno però è troppo freddo, meglio aspettare dopo la metà di febbraio (è corretto, perché alcune varietà sopportano male i geli invernali se sono già state potate). Comunque egli scrive che prima si pota e più si avrà legno, più tardi si pota e più si avrà frutto. In realtà oggi sappiamo che il tempo della potatura influisce soprattutto sul tempo di germogliamento primaverile della vite. Le potature troppo precoci fanno germogliare presto la vite, esponendola maggiormente ai rischi di gelate tardive. (... continua...)
Bibliografia:
"De re rustica", Lucio Giunio Moderato Columella (60-65 d.C.), tradotto da Giangirolamo Pagani, 1846 (preferisco le traduzioni dell'Ottocento perchè, avendo una viticoltura e tecniche di produzione del vino più simili a quelle antiche delle nostre, sanno spiegare meglio i concetti e trovare le parole giuste).
"Interventi di bonifica agraria nell'Italia romana", a cura d Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ed. L'Erma di Bretchneider, 1995.
"Storia dell'agricoltura italiana: l'età antica. Italia Romana" a cura di Gaetano Forni e Arnaldo Marcone, Edizioni Polistampa, 2002
"Le proprietà di Plinio il Giovane", V. A. Siragola, 1957
"Territorio e paesaggio dell'Alta Valle del Tevere in età Romana", Paolo Braconi, 2008, in F. Coarelli - H. Patterson (eds.) Mercator placidissimus. The Tiber Valley in Antiquity. New research in the upper and middle river valley, Atti del Convegno, Roma, British School at Rome, 27-28 febbraio 2004, Roma 2008, pp. 87-104
"La villa di Plinio il Giovane a San Giustino", Paolo Braconi, 2008, in F. Coarelli - H. Patterson (eds.) Mercator placidissimus. The Tiber Valley in Antiquity. New research in the upper and middle river valley, Atti del Convegno, Roma, British School at Rome, 27-28 febbraio 2004, Roma 2008, pp. 105-121
"La villa di Plinio il Giovane in Etruria, Giovanni Caselli,
“La viticoltura e l’enologia presso i Romani”, Luigi Manzi, 1883, .
“Storia della vite e del vino in Italia”, Dalmasso e Marescalchi, 1931-1933-1937, .
“Storia del paesaggio agrario italiano”, Emilio Sereni, 1961, .
“In vineis arbustisque. Il concetto di vigneto in età romana”, Paolo Braconi, Archeologia delle vite e del vino in Etruria" A. Ciacci - P. Rendini - F. Zifferero (eds.), Archeologia della vite e del vino in Etruria (Atti Scansano 9-10 settembre 2005), Siena 2012, pagg. 291-306.
“Catone e la viticoltura intensiva”, Paolo Braconi.
“Quando le cattedrali erano bianche”, Quaderni monotematici della rivista mantovagricoltura, il Grappello Ruberti nella storia della viticoltura mantovana, Attilio Scienza.
“Terra e produzione agraria in Italia nell’Evo Antico”, M. R. Caroselli.
Rinnovo nel nostro museo della vite e del vino
Questo tempo sospeso è l’ideale per sistemare la cantina, per essere ancora più belli ed accoglienti per quando potrete tornare da noi. Questi cartelli si erano rotti per il vento. Ne ho approfittato per rinnovarli.
La meravigliosa vigna di Palemone e altre storie viticole della Roma antica
Avere una vigna nell'antica Roma era considerato un affare interessante. Catone la mette al primo posto in agricoltura, come l’attività più redditizia e così sarà per secoli. Tuttavia non era solo una questione economica.
L'agricoltura, ma soprattutto la viticoltura, era considerata l'attività più vicina ai valori fondanti dei padri, al legame salvifico con la terra e la natura, lo stile di vita ideale, un'occupazione in grado di elevare l'uomo moralmente, al contrario del vizio e dalla corruzione della vita di città, ... Questa "nobiltà" era anche una questione di classe. Infatti i patrizi erano i proprietari terrieri per eccellenza, per cui lodavano ed esaltavano volentieri questa loro attività peculiare, mentre era un traguardo di affermazione sociale per gli altri. Secondo Cicerone (De Officiis), "fra le occupazioni nelle quali il guadagno è assicurato, nessuna è migliore dell'agricoltura, né più proficua, né più piacevole, né più consone all'uomo libero". Eppure egli faceva altro nella vita. Ciò non toglie che per lui la viticultura, nello specifico, fosse l'attività vagheggiata per la vecchiaia.
Non manca in tutto ciò, come in tutte le epoche a venire, una buona dose di idealizzazione della vita agricola, soprattutto da parte di chi (poeti, letterati o ricchi proprietari) non si è mai confrontato realmente con la dura vita dei campi e con l'incertezza di un'attività dominata dagli alti e i bassi dell'annata. Comunque, proprio in questo periodo il mondo agricolo entra nell'Arcadia grazie a Virgilio, che definisce così un topos letterario di grande successo nei secoli a venire. L'Arcadia di Virgilio non è più solo il paesaggio naturale ma anche quello agricolo, dove la Natura benigna dona in abbondanza i suoi frutti all'uomo abile nel suo lavoro.
Noi però non siamo letterati ma vignaioli. Chi vive veramente della terra può amarla senza mitizzazioni o visioni bucoliche, conoscendone bene anche i risvolti più difficili. Di certo gli agricoltori Romani non li ignoravano, come d'altra parte Cicerone, che descrive chiaramente i rischi e gli inconvenienti del lavoro agricolo in una delle sue celebri orazioni (Ad Verrem).
Vediamo ora di capire la vera vita del vignaiolo dell'epoca, di cui racconterò in questo e altri post a seguire. Inizio col ricordare un po' di storia agricola romana, per poi andare a vedere chi erano i nostri colleghi del tempo e poi come lavoravano. Tanto è cambiato da allora, eppure in tanti aspetti si ritrova anche il nostro presente.
Unità di misura romane per le superfici agricole:
Le superfici agricole erano espresse sopratuttto con lo jugerum, circa 2553 m2, più o meno ¼ di ettaro (che, ricordo, è 10.000 m2). L'unità di base era l’actus quadratus, la metà dello jugero.
L'unità di misura lineare era il pes, il piede, che corrispondeva a 29,779 cm. Dieci piedi facevano 1 pertica. In molte zone del nord d'Italia la pertica e la pertica quadrata sono rimaste in uso fino ai nostri giorni in ambito agricolo, anche se con misure diverse da quelle romane. Variano anche fra i diversi territori.
Storie: La meravigliosa vigna di Palemone
Un esempio vivido della viticultura dell'epoca ce lo fornisce Plinio il Vecchio, il quale racconta di una vigna meravigliosa e la porta come esempio del grande valore di questa attività.
Era di proprietà di un grammatico (=insegnante degli studi superiori) molto famoso al suo tempo, Quinto Remmio Palemone (Quintus Remmius Palaemon). Era un liberto originario di Vicenza, un ex-schiavo che non solo si era affrancato, ma era diventato molto ricco e celebre. Viene ricordato per il suo contributo alla lingua latina, per aver introdotto lo studio delle opere di Virgilio nelle scuole, ma anche per i suoi vizi e la sua arroganza.
Palemone, nel periodo di Nerone (55 o 57 d.C.), acquistò un terreno incolto nell’Ager Nomentanus, al decimo miglio fuori Roma, di poco meno di 60 jugeri (circa 15 ettari). La zona era considerata fra le più rinomate per il vino, dopo l’area del Falerno. Plinio racconta che Palemone aveva acquistato quel terreno per poco, anche se poi aveva dovuto investire diverso denaro per l’impianto del vigneto, che era un’operazione molto costosa, oggi come allora. In totale aveva speso seicentomila sesterzi.
Aveva dato l’appalto dei lavori (lo scasso, la realizzazione della vigna e poi anche la sua gestione) al viticoltore suo vicino, tale Acilio Sthenelo, anche lui un liberto. Plinio ci fa sapere che questi era un vignaiolo di provata capacità e che era stato proprio lui a consigliare Palemone in tutto questo affare. L'appaltatore, detto allora conductor, oggi si chiama contoterzista (cioè un agricoltore che, oltre i propri campi, lavora anche quelli di altri, grazie alla propria professionalità, manodopera ed attrezzi).
Dando in appalto il grosso dei lavoro, Palemone teneva pochissimi operai e vendeva l'uva in pianta. Chiaramente il grammatico era un imprenditore che voleva trarre il massimo profitto dalla sua vigna col minimo delle spese. Plinio stesso sottolinea che Palemone non era stato spinto dall'amore della viticoltura in tutto questo, ma dalla sua enorme e ben nota vanità. Plinio forse è sferzante anche per snobismo di classe? A Roma uno schiavo poteva anche ascendere socialmente ma si portava dietro tutta la vita il marchio delle sue origini. Tuttavia, allora come oggi, fra i ricchi e i potenti, era sicuramente di vanto avere la vigna!
Ad ogni modo, Plinio scrive che, nell’ottavo anno (l'anno di ingresso nella piena produzione per una vite maritata), il grammatico arrivò a guadagnare 400.000 sesterzi dalla vendita dell'uva, 2/3 di quanto aveva pagato l'intero vigneto. Secondo Plinio, è un rendimento molto importante. Lo paragona agli utili che si ricavavano dal commercio con le Indie.
Anche Svetonio racconta della vigna meravigliosa (in De Grammaticis et rhetoribus). Sostiene che un ceppo di queste viti arrivava a dare ben 360 grappoli! Questo numero spropositato forse è un'iperbole per rimarcare l’eccellenza della vigna (Svetonio non era di certo un agronomo). Tuttavia, il sistema tradizionale romano, la vite maritata (arbustum), il più diffuso allora nel centro Italia, può dare veramente un'elevatissima produzione per ceppo.
Ad ogni modo, la vigna era diventata ormai molto famosa. Al decimo anno Seneca volle acquistarla a tutti i costi, anche se dovette "abbassarsi" a fare affari con un personaggio che mostrava di disprezzare. Plinio ci fa sapere che egli la comperò per quattro volte il prezzo pagato inizialmente da Palemone (due milioni e quattrocentomila sesterzi), concludendo così in bellezza la sua dimostrazione della grande valenza economica della viticoltura.
Seneca l'acquistò evidentemente solo per motivi di prestigio, non certo per fare un investimento vantaggioso. Ancora oggi succede che un personaggio facoltoso comperi a carissimo prezzo una vigna o un’azienda viti-vinicola di grande nome o di un territorio molto famoso.
Seneca non continuò con la vendita dell'uva, ma vi produsse direttamente il vino. Chissà se fu quest'attività ad ispirargli quei passi, nelle sue opere, in cui il vino o la vigna diventano metafore dell'esistenza umana, come ad esempio:
"Ma tu (Lucilio), fin d'ora, serba gelosamente tutto quello (il tempo) che possiedi; e avrai cominciato a buon punto, poiché - ci ammoniscono i nostri vecchi - «è troppo tardi per risparmiare il vino, quando si è giunti alla feccia». Nel fondo del vaso resta non solo la parte più scarsa, ma anche la peggiore."
Un popolo di agricoltori.
Roma, come ogni civiltà, nacque sull'agricoltura che, inizialmente, era solo di sussistenza. Varrone racconta che, alle origini, Romolo assegnò a ciascun cittadino un appezzamento di terra coltivabile pari a due jugeri (all'incirca mezzo ettaro), lo stretto necessario per vivere. Secondo la tradizione, la classe dei patrizi discendava da questi primi abitanti - possidenti di Roma. L'immagine classica del Romano antico ideale era infatti quella dell'agricoltore, che lascia l'aratro o la vigna solo per impugnare la spada quando la patria chiama. Catone ci ricorda che, per lodare un uomo, si usava dire che fosse "un buon marito e un buon agricoltore".
Nel periodo più antico sembra che si cercasse di mantenere un certo equilibrio nelle proprietà terriere: si pensava che l'eccessivo arricchimento di qualcuno avrebbe destabilizzato l'intera società. Era però necessario contenere la cupidigia umana e Numa Pompilio, il grande legislatore, istituitì le feste Terminalia, in quella frammistione tipicamente antica di legge e religione. Fu ordinando ai Romani di delimitare i propri campi con dei cippi, consacrati a Giove Terminus, nume protettore di ogni diritto e di ogni impegno (Juppiter Terminus, poi diventato una divinità indipendente, il dio Terminus). I confini erano così resi sacri ed inviolabili. Chi lo faceva compiva uno fra i delitti più esacrabili e diventava "sacer". Questo termine si può tradurre come sacro ma nello stesso tempo maledetto, una persona che aveva compiuto azioni così terribili da porsi al di fuori della stessa società degli uomini, entrando in un ambito di appartenenza agli dei. Non era neppure perseguito dalla legge, ma chiunque avrebbe potuto ucciderlo impunemente. Numa introdusse in queste feste anche la misura delle proprietà. Se superavano i 50 jugeri (circa 13 ettari), l'eccendenza era confiscata dallo stato. Tullio Ostilio iniziò a concedere queste terre requisite ai nullatenenti.
La storia agiografica romana ci rimanda figure di straodinaria integrità circa questo ideale romano della morigeratezza, cioè di una vita regolata dalla temperanza e dalla sobrietà. Ricordiamo ad esempio il generale Curio Dentato che, nel 285 a.C., rifiutò 50 jugeri in Magna Grecia che il Senato voleva donargli, per ringraziarlo di aver sconfitto Pirro. Disse che non voleva dare il cattivo esempio. Il caso più famoso è quello di Cincinnato che, per rispondere alla chiamata dello stato, lasciò il suo campo di 4 jugeri sul colle Vaticano e tornò a lavorarlo una volta terminato il suo incarico politico, senza averlo ingrandito (cioè senza essersi arricchito). Ricordo anche che il Senato dovette ammettere fra le spese pubbliche il pagamento dei lavori dei campi del generale Attilio Regolo, che aveva dovuto prolungare la sua permanenza in Africa ma, senza le sue braccia, la famiglia rischiava di morire di fame.
Questi lodevoli esempi erano solo eccezioni. Infatti, nel tempo, si instaurarono comunque degli squilibri che si accentuarono sempre più, grazie anche a leggi sempre più permissive sulla proprietà.
Quando Roma iniziò le prime conquiste, i terreni dei vinti erano confiscati ed erano annessi all'ager publicus, il demanio. Una parte di esse era venduta ai cittadini liberi. I più ricchi si aggiudicavano non solo gli appezzamenti più grandi ma anche i terreni migliori. Una parte era comunque data a chi non poteva permettersi di pagare ma, in cambio, doveva rendere ogni anno una parte del raccolto. Poi gli appezzamenti saranno assegnati anche ai veterani degli eserciti.
Non è facile capire come si passò dall'agricoltura di pura sussistenza alla nascita di aziende agricole con finalità economiche. Si pone come pietra miliare in questo senso l'epoca di Catone il Censore (a metà circa del II sec.a.C.), grazie alla sua testimonia della trasformazione in atto. Le prime ville erano medio-piccole e purtroppo sappiamo che la loro crescita fu legata soprattutto al lavoro schiavistico dei prigionieri di guerra.
Ad ogni modo, iniziò un periodo di grande prosperità per il vino e il suo commercio, così come per l'agricoltura italiana in generale, che rimarrà floridissima più o meno fino alla fine della Repubblica ed il primo Impero. Da lì in poi iniziò però un progressivo declino, per molteplici ragioni. Ebbe grande importanza in questo senso la nascita ed espansione del latifondo, come temevano i Romani più antichi, che portò alla perdita dell'agricoltura specializzata ed alla dipendenza dalle provincie. Come si arrivò a questo punto? Non è semplice fare una sintesi ma provo a dare un'idea della trasformazione in agricoltura.
Il latifondo finì per predominare ed espanersi per la scomparsa progressiva delle piccole proprietà. Anche nell'era più florida il piccolo-medio agricoltore non aveva sempre vita facile. Diversi autori ci testimoniano di come fossero ingenti i costi per avviare e gestire un'azienda agricola, soprattutto con l'impianto del vigneto, e di come fossero pesanti le tasse. Se aggiungiamo anche il rischio di annate scarse o andate proprio male, le difficoltà si moltiplicavano. I piccoli proprietari erano costretti molto spesso ad indebitarsi, con poche o nessuna tutela, con interessi spesso altissimi.
Progressivamente, sempre più piccole proprietà sparirono, per i costi ingenti ed i prestiti usurai, che sono denunciati già dall'epoca di Catone. Se gli agricoltori non riuscivano pagare monetariamente i debiti, dovevano andare a lavorare come servi nei campi e nelle vigne dei loro creditori, trascurando i propri. Questa forma di servaggio era chiamata nexus. Chi non ce la faceva neppure così, doveva cedere la proprietà, contribuendo così all'allargamento di quelle dei più ricchi. Chi non si era compromesso a tal punto da diventare schiavo, abbandonava le campagne e si accalcava in città, dipendendo dall'erario statale per mangiare.
Così denuncia Varrone: "... i padri di famiglia a poco a poco si sono introdotti dentro le mura della città, hanno abbandonato la falce e l'aratro, e preferiscono usare le mani per applaudire nel teatro e nel circo piuttosto che nella coltivazione dei campi e delle vigne, così paghiamo per sfamarci chi ci porti il grano dall'Africa e dalla Sardegna e facciamo le vendemmie nelle isole di Coo e di Chio".
Dalla tarda Repubblica in poi, questo disagio politico e sociale per la progressiva scomparsa delle piccole e medie proprietà è testimoniata da numerosi autori dell'epoca, con denunce della situazione o l'incitamento morale a tornare all'agricoltura. C'è chi compone lodi poetiche sulla vita agricola, chi trattati in cui esalta la sua valenza economica (soprattutto della viticoltura, come Plinio con la vigna di Palemone). L'intento è di spingere i Romani a tornare ad occuparsi di queste attività, sempre più in pericoloso declino.
In tarda età repubblicana e prima età imperiale, a lato delle piccole proprietà, nacquero latifondi sempre più grandi. Già Cicerone denunciava che, alla sua epoca, la maggior parte delle terre agricole erano di proprietà di soli 2.000 capifamiglia. Ci fu chi tentò, debolmente, di arginare questi fenomeni. Nerone lo fece in modo brutale, con un gesto più stizzoso che altro: fece giustiziare sei latifondisti che, da soli, si spartivano quasi tutte le terre africane.
Non è che le aziende agricole medie o piccole sparirono del tutto nel corso dell'Impero. Diverse rimasero a lungo, alcune anche fino alla fine dell'era Romana, soprattutto in territori marginali, come ho già raccontato per la nostra zona di Bolgheri (vedete qui e qui).
I latifondi però arrivarono ad occupare buona parte della penisola. Erano così grandi che era sempre meno conveniente investire in produzioni specializzate, come la viticoltura. Molti di essi si basarono principalmente sull’allevamento, poco costoso e che richiedava poca manodopera. Si diffusero così paesaggi abbandonati ed informi, definiti saltus, che compaiono anche nei paesaggi pittorici dell’epoca.
In un primo tempo, il saltus si allargò a discapito del paesaggio naturale delle selve, distrutte con incendi, o andando ad usurpare le terre pubbliche. Nel corso dell'Impero si espanse a spese soprattutto del paesaggio agricolo e divenne sempre più perfettamente sovrapponibile alle grandi proprietà terrierie. Solo qua e là era interrotto da piccoli appezzamenti lavorati, ad uso dei guardiani e dei pastori o coltivato dalla nuova figura del colono (di cui parlo più avanti).
Palladio, nel IV secolo d.C., torna a denunciare quei ricchi che si costruiscono ville e giardini a dismisura, trascurando l’agricoltura o tramutando i campi fertili in pascoli. Si lamenta che vi si allevino animali utili solo a nutrire il lusso di pochi (come pavoni, piccioni, tordi, quaglie, ...), mentre sempre più gente affamata fugge disperata dai campi e s’accalca in città.
Quello che restava dell'agricoltura del Tardo Impero andò sempre più in decadenza anche per l'eccessiva pressione fiscale, il dispotismo militare e l’anarchia. Le invasioni barbariche fecero il resto.
I nostri colleghi di allora.
L'agricoltura delle origini, di sussistenza, vedeva protagonista il proprietario e la sua famiglia, come Cincinnato o Attilio Regolo descritti sopra. Col tempo nacque la villa, cioè l'azienda agricola con finalità di profitto. Catone è il primo a descriverla, nel De agri cultura (o De re rustica), nel 160 a.C. Anzi, scrisse la sua opera proprio con l'intento di fornire consigli pratici agli agricoltori (di un certo censo) per far crescere la loro attività, una sorta di manuale che propone un modello "manageriale" da seguire.
Secondo Catone, la vigna è la coltivazione più importante e la più redditizia, per cui deve occupare una parte importante dell'azienda. La dimensione ideale per lui è di cento jugeri (poco più di 25 ettari). Solo più avanti nasceranno i grandi latifondi. Non dobbiamo comunque paragonarla ad una vigna di oggi della stessa dimensione, perché la viticoltura romana, ricordo, era sempre promiscua. Alle viti era alternata la coltivazione del grano o altri cereali, come resterà comune in Italia fino al Novecento (vedete la foto).
Non credo sia così interessante parlare dei ricchi proprietari che si recavano più o meno saltuariamente a controllare il lavoro nelle loro proprietà o che, più avanti nella storia, trascorrevano ore di piacevole otium in villae diventate (più o meno) principesche. Se ne legge ovunque. Voglio andare a conoscere i veri vignaioli.
Catone ci dà indizi su chi erano, raccontandoci che per la sua azienda ideale di 100 jugeri ci vogliono 16 persone al lavoro. A gestirla c'è il vilicus, il fattore, a cui spetta la direzione di tutti i lavori agricoli e l'amministrazione, coadiuvato dalla moglie, la vilica.
Sotto di essi ci sono 10 operarii (operai) generici, più quattro specializzati. Questi ultimi comprendono i “trattoristi” dell’epoca: i lavori erano fatti con gli animali. Ci voleva un bubulcus (il bifolco, guardiano e guidatore dei buoi), un subulcum (il sottobifolco, aiutava il bifolco e si occupava dei maiali) e un asinarius (chi si occupava degli asini). Per arare e trainare i carri infatti ci vogliono due buoi e tre asini, di cui due per i carri ed uno per la mola (delle olive), con tutti gli equipaggiamenti. Ci voleva poi un salictarius, detto vinchiaiuolo in epoche più recenti. Era colui che aveva cura del saliceto, il boschetto di salici, i cui rami erano di molteplice utilità: quelli più sottili erano usati per legare le viti e altre piante. Quelli un po’ più spessi servivano per realizzare cesti, stuoie ed altro.
Erano liberi o schiavi? Sappiamo tutti che le ville romane si basavano soprattutto sul lavoro schiavistico, eppure Catone parla sempre di operarii, operai, mai servi o schiavi. Ciò non toglie che le ville crebbero e si espansero proprio grazie all'arrivo di manodopera gratuita, soprattutto a partire dalle guerre sanniche e puniche. Per molto tempo i prigionieri di guerra furono i principali lavoratori in agricoltura. Può consolarci pensare che gli schiavi potessero almeno riscattarsi come liberti e fare addirittura ascese sociali (come Palemone o Acilio Sthenelo). Era però difficile che fossero gli sfortunati lavoratori delle campagne. Era molto più facile per chi viveva a stretto contatto dei padroni, riuscendo magari a conquistarsi il loro affetto o il rispetto. Ad esempio, il giovane Palemone, accompagnando a scuola il figlioletto della sua padrona, era riuscito a dimostrare grandi doti intellettuali. Questa donna di buon cuore gli donò così la libertà e la possibilità di studiare. Non a caso, comunque, nelle grandi proprietà successive a Catone, comparve anche la figura dell'ergastularius, il guardiano degli schiavi e dei servi; li controllava e li rinchiudeva la sera perché non potessero fuggire.
Nelle grandi ville, a volte ricche fino allo sperpero, comunque aumentò in modo esponenziale il numero di addetti e la loro specializzazione. Ecco qualche esempio: vinitor (il vignaiolo, chi si occupava della vigna in modo specifico, in queste grandi proprietà), putator (l’esperto di potature), frondator (chi passava a sfrondare le viti o altre piante), fossor (lo zappatore, usato anche come sinonimo di sciocco), pastinator (l’operario che zappava la vigna), vindemiator (il vendemmiatore), arator (l’aratore generico), germiniseca (colui che negli orti e nelle vigne tagliava i piccoli germogli, faceva la spollonatura), strictor (il raccoglitore delle olive dai rami), legulejus (colui che ripassava a raccogliere le olive cadute per terra), saltuarius (il boscaiolo), topiarii (i giardinieri), mellarii (si occupavano delle api e della produzione del miele) e tanti altri ancora.
Columella addirittura raccomanda che ciascuno, a seconda del lavoro, abbia certe caratteristiche fisiche. Ad esempio il bifolco deve avere la voce e il corpo grosso, chi ara deve essere alto di statura, il vignaiolo deve avere le braccia robuste, il pastore deve essere diligente e frugale, ecc. Fa però piacere scoprire che Columella sottolinei che gli schiavi debbano essere trattati con famigliarità e rispetto, anche nel loro ruolo professionale. Infatti scrive che devono essere consultati nelle scelte di lavoro. Purtroppo non era la norma.
Non dimentichiamo però anche gli uomini liberi, come accennato sopra, che dovevano prestarsi al lavoro servile (nexus) per pagare i debiti. C'erano anche lavoratori liberi e retribuiti, prevalenti in territori in cui si erano instaurati rapporti sociali diversi. Un esempio in questo senso era la nostra antica Etruria del nord, come ho già raccontato qui. Infine, gli appezzamenti di un latifondo potevano anche essere affittati ad agricoltori (coloni) liberi, che lo coltivavano con la loro famiglia e i loro schiavi.
Nel corso dell'Impero il sistema schiavistico entrò in crisi: non c'era più espansione e quindi venne a mancare l'alimentazione continua dei prigionieri di guerra. L'economia era oppressa da un sistema fiscale e burocratico sempre più asfissiante. Le campagne erano sempre più abbandonate. Per far fronte alla carenza di manodopera, dal III sec. d.C. nacque il cosidetto colonato, una sorta di anteprima della servitù della gleba medievale.
Il termine colono (colonus) indicava da sempre l'agricoltore, ma in quel periodo iniziò ad assumere un significato particolare. Ufficialmente non era uno schiavo ma un affittuario, ma aveva un rapporto che era di esclusivo beneficio dei ricchi proprietari. Era vincolato all'appezzamento assegnatogli dal padrone del latifondo, quindi non poteva andarsene a suo piacimento. Doveva al padrone quasi tutta la produzione, salvo lo stretto necessario per vivere, oltre che doveva svolgere corveé di lavoro nei campi padronali. La beffa finale era che il colono doveva anche pagare le tasse.
Si era coloni per nascita, lo potevano diventare ex-schiavi. Lo diventavano anche uomini liberi, piccoli proprietari terrieri che preferivano (si fa per dire) rinunciare alla loro indipendenza perchè oppressi dai debiti e dal fisco. C'era anche chi ci arrivava per condanna, per reati vari come l'evasione fiscale o la bancarotta. Questa condizione poteva cessare solo con la scelta di entrare nell'esercito o nel clero o per estinzione temporale del reato. Nel periodo di Giustiniano era praticamente impossibile liberarsi: si poteva uscirne solo riuscendo ad acquistare il fondo o diventando vescovo (!). Molti provavano naturalmente la fuga, come gli schiavi, col rischio di essere puniti severamente dal padrone, anche con la morte. Chi ce la faceva a scappare non poteva che darsi al brigantaggio nei boschi o si nascondeva nelle folle delle città, oppure gli toccava mettersi sotto la protezione di un altro signore.
(... continua...)
Bibliografia:
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Storia dell'agricoltura italiana nell'età antica. Italia Romana. A cura di Gaetano Forni e Arnaldo Marcone, Edizioni Polistampa, 2002.
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Dalmasso e Marescalchi, 1931-1933-1937, “Storia della vite e del vino in Italia”.
Emilio Sereni, 1961, “Storia del paesaggio agrario italiano”.
Paolo Braconi, “Vinea nostra. La via romana alla viticoltura”.
Paolo Braconi, “Catone e la viticoltura intensiva”.
Paolo Braconi, “In vineis arbustisque. Il concetto di vigneto in epoca Romana.
Paolo Braconi, “L’albero della vite: riflessioni su un matrimonio interrotto”.
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Attilio Scienza et al., Atti del Convegno “Origini della viticoltura”, 2010.
Cornelia Cogrossi, "Il vino nel «Corpus iuris» e nei glossatori". In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 499-531.
M. R. Caroselli, "Terra e produzione agraria in Italia nell'Evo Antico".
Jesper Carlsen, "Landuse in the Roman Empire", ed. L'Erma di Bretschneider, 1994.
Buona Pasqua
Cari amici, buona Pasqua a tutti!
Vi auguriamo il meglio, anche se in questo momento è veramente difficile trovare parole di speranza, con così tanti morti e persone sofferenti, l’economia in grave difficoltà, politici che ci riempiono di parole vuote, ...
Eppure, Albert Camus scriveva che la speranza (da sola) equivale alla rassegnazione. E vivere non è rassegnarsi.
In genere, come voi, mostriamo sempre la nostra faccia più allegra ed ottimista, ma il nostro lavoro è da sempre fatto di spine oltre che di rose.
Lavoriamo con la natura, qualcosa che può riempirci di soddisfazione e di gioia, ma ogni tanto ci pungola con colpi terribili: la siccità, la gelata, un’annata storta, … Poi dobbiamo lottare con una burocrazia asfissiante, l’importatore che di colpo ti molla, il trattore o l’imbottigliatrice che all’improvviso si rompe (e quelli che devi tirare fuori non sono pochi spiccioli), …
Per questo siamo abituati, come succede anche a voi, ad essere forti contro gli ostacoli della vita, a reinventarci, a lavorare tanto, come e più di prima. Questo virus è uno dei colpi peggiori, ma non ci fa paura: se non ci vincerà, ci renderà ancora più forti.
Quindi, vi auguriamo di avere forza.
Facciamoci forza, per noi e per i nostri cari, per i meno fortunati, per chi veramente non riesce a farcela da solo.
Andrà tutto bene solo se noi facciamo in modo che sia così.
… e non dimenticate di bere un ottimo vino, il rimedio migliore per lo spirito!
Annalisa e Michele Scienza
foto: Katrin Pfeifer
Rute, nuova annata 2017
Nuova annata del Bolgheri Rosso Rute, la 2017. Dovevo scrivere la scheda e ho pensato a cosa è Bolgheri per noi: semplicemente, la nostra casa. Ho cercato allora cosa Michele ed io (e i nostri figli) amiamo di più del nostro vivere qui e l'ho descritto così, in poche righe:
"Bolgheri è stato per secoli un territorio di fatica,
aspro e selvaggio.
Oggi è un giardino mediterraneo, dalla bellezza ancora un po’ selvatica.
Per noi, è la nostra casa,
che ha il profumo dei sentieri di collina nella macchia,
del salmastro dei tomboli*,
che ha il suono delle onde del mare,
degli schiamazzi dei ragazzi che si bagnano nel guado ...
Rute è questa Bolgheri a noi famigliare,
che cerchiamo nella terra e nei sassi delle nostre vigne,
nel nostro lavoro artigianale."
Che ne dite?
*I tomboli sono le dune di sabbia dietro la spiaggia. Qui sono ancora preservate, con una bellissima e delicata flora spostanea che le caratterizza.
La viticoltura a Roma e la riscoperta del Genius Loci
I Romani erano grandi viticoltori. Al momento del loro apice agricolo, avevano raggiunto conoscenze empiriche di lavoro in vigna molto approfondite (pur con i dovuti limiti). Ci vorranno secoli, dopo, per recuperare queste competenze. Fra queste conoscenze, l’elemento veramente dirompente della viticoltura romana, che marcherà la cultura viti-vinicola italiana (ed europea in generale) fino ai nostri giorni, fu la comprensione del legame inscindibile fra vino e territorio.
Sono conoscenze costruite in secoli di storia, dalla viticoltura primitiva delle origini fino a quello che è considerato l'apice, la seconda parte del I secolo a.C. In questo periodo scriveva quello che è considerato il primo agronomo della storia, Columella. La sua opera “De Re Rustica” è così preciso e particolareggiato da essere considerato il primo vero e proprio trattario agrario in assoluto. Chi scriverà dopo di lui riprenderà essenzialmente i suoi contenuti e non per poco tempo: Columella rimarrà come riferimento principale per l’agricoltura almeno fino alla fine del XVIII secolo.
La scelta del suolo, del clima e delle varietà
Columella fa numerose riflessioni circa la scelta del luogo della vigna, in relazione al suolo e al clima, e alla conseguente scelta delle varietà più adatte. Non tutte le sue considerazioni sono corrette, alla luce delle nostre conoscenze, anche se molte lo sono, seppure generiche. Quello che è rilevante è cogliere come allora si capisse l'importanza di queste relazioni.
Il terreno migliore non deve essere né troppo argilloso e neppure troppo sciolto (oggi diremmo di medio impasto), ma si avvicini di più a quest’ultimo. Ne sia troppo magro ma neppure troppo fertile, meglio però verso il secondo. Non è il migliore il terreno scosceso neppure l’estrema pianura, meglio comunque un piano più o meno inclinato (per far drenare l’acqua). Si deve comunque investigare la tipologia della terra anche sotterranea e non guardare solo alla superficie. La cosa migliore comunque è fare delle prove con i diversi tipi di terreno, per capirne le diverse risposte produttive.
In generale, comunque, se il terreno è adatto a dare vino gradevole e prezioso, meglio piantare una vite che non sia troppo produttiva ma neppure troppo poco. Se invece il terreno non è tanto buono, meglio mettere una vite molto fertile per averne comunque una buona rendita nella quantità.
Nel piano si ha vino più in abbondanza, nelle colline quello più gradevole. Le vigne inclinate verso il nord sono più fertili, ma quelle verso il sud danno il vino dal gusto migliore. Nei luoghi freddi è meglio avere l’esposizione a sud, in quelli tiepidi è meglio l’est, purché in entrambi i casi non siano esposti a venti provenienti da quelle direzioni.
Conosciamo i nomi di molte varietà romane, infatti sono state elencate in diversi testi antichi. È veramente difficile riuscire a collegarle a quelle moderne. I nomi erano mutevoli già allora. Quelle che sono nominate da Catone, non lo sono più da Columella e Plinio, che scrivono 200 anni dopo. Anche questi due autori, che sono contemporanei, presentano a volte delle discordanze. Ad ogni modo, non faccio l’elenco delle varietà, anche perché si possono trovare ovunque. Mi sembra più interessante la parte in cui Columella spiega la scelta delle viti in relazione ai territori.
Egli scrive che, quando si deve fare una vigna, ci si informi di persona sulle viti migliori da piantare e non si affidi ad altri l’acquisto delle barbatelle (viviradicem). Meglio ancora che si faccia il vivaio (vitiarium) interno e questo non deve essere posto in un suolo di qualità peggiore di quello della vigna.
L’agricoltore deve capire che le varietà di viti che resistono alla nebbia sono adatte alla pianura, invece sono più adatte al colle quelle che tollerano bene la siccità ed i venti. Così nel terreno pingue e fertile si pianterà la vite magra e poco feconda, nel terreno magro la vite più vigorosa, nel terreno denso la vite forte e che produce molti sarmenti. Nel terreno umido non sono adatte le viti che producono acini grossi e molli, ma vengono meglio quelle con acino piccolo e duro. Nel terreno ben drenato possono crescere invece varietà diverse.
Non bisogna però fare solo attenzione al terreno ma anche al clima. Dove c’è più freddo e nebbia, si mettono le viti più precoci, i cui frutti maturano prima oppure quelle che hanno acino robusto e duro. Dove c’è tanto vento e tempesta, si metteranno anche qui viti robuste e con acini duri. Dove c’è molto caldo ci possono stare le più tenere e che hanno i grappoli più compatti. Nei luoghi più placidi e sereni nel clima si può mettere ogni sorta d’uva, ma stanno meglio quelle più precoci.
Il vignaiolo avveduto oltre alle viti migliori, dovrebbe mette sempre diverse varietà, perché ciascuna può rispondere in modo diverso alle avversità di ogni annata.
In questi capitoli si intuisce anche che la prassi più comune di allora era quella di vigne con più varietà mescolate insieme, alla rinfusa, come rimasto in Italia per i secoli a venire. Secondo Columella però è meglio disporle in modo separato ed elenca i vantaggi di questa scelta. Non tutte fioriscono e maturano allo stesso momento. Se si raccolgono insieme le uve con diversa maturità si creano problemi: se si aspettano le uve più tardive, le prime sono mangiate dagli uccelli e danneggiate dai venti e dalle piogge. La separazione permette anche al vignaiolo di sapere come potare, difficile nelle vigne con le varietà mescolate, visto che in quel momento non ci sono neppure le foglie a far capire la tipologia. Allo stesso tempo, ogni specie potrà essere piantata nella parte di vigna più adatta alle sue caratteristiche, per suolo o con la giusta esposizione.
Tuttavia l’autore ammette che è difficile attuare questo principio, anche perché la maggior parte dei vignaioli non sa distinguere le diverse varietà. Sembra qui di rileggere i testi degli agronomi dell'Ottocento, che cercavano di traghettare la viticoltura di allora verso forme più razionali. Ad ogni modo, Columella scrive che la miglior cosa, se non è possibile altrimenti, è piantare insieme quelle varietà che hanno gusto simile e maturità simile.
La vigna con più varietà è chiamata da Plinio vitis conseminea, da Columella conseminales vinea.
La nascita del concetto di "terroir" e Genius Loci
Nel suo e in altri testi latini si sottolinea ed esamina come ogni suolo e clima richiedano la scelta delle varietà di uve più opportune, scelte diverse di approccio di lavoro e la produzione di tipologie di vino diverse. Questo, legato al fatto che i Romani identificavano il vino essenzialmente col luogo di provenienza e l’annata di produzione, ci fa capire che furono i primi a concepire e a lasciarci in eredità quel concetto fondamentale che noi oggi chiamiamo comunemente “terroir”.
I Romani non avevano esplicitato questo aspetto culturale del vino con un termine specifico, così come non sarà fatto nelle epoche successive, in Italia e nel resto d’Europa. Eppure era un sentire comune diffuso e vivo.
È stato fatto in epoca più recente, all'interno di quel lungo processo di trasformazione del settore viti-vinicolo del XX secolo che è alla base della nascita del vino moderno. In particolare, se ne discusse molto nel secondo dopoguerra.
In questo periodo molti studiosi ed esperti iniziarono a riflettere profondamente sul concetto di territorio viticolo, come elemento basilare della nostra cultura, capace di marcare in modo unico le caratteristiche di un vino.
La sua definizione non è semplice, in quanto è composto da molti fattori. Il primo, quello più scontato, è sicuramente quello territoriale in senso stretto, legato alle caratteristiche geografiche e quindi pedo-climatiche, cioè di suolo e di clima, con le tutte le sfumature di variabilità che ci possono essere nelle micro-situazioni di singole vigne o addirittura di particelle (l'esposizione, la presenza di barriere ai venti, zone di maggiori umidità, ecc.). In relazione a queste differenze pedo-climatiche, vi sono poi le diverse risposte che ogni varietà di uva può dare in un determinato territorio o micro-territorio. Inoltre bisogna considerare le variazioni annuali di questi elementi, legate all'annata. Non intervengono però solo però gli elementi "naturali". Altri aspetti imprescindibili dipendono dall'altro grande protagonista della nascita del vino, l'uomo: le tradizioni locali, le loro trasformazioni nel tempo, la modellazione del paesaggio, la storia, la cultura viticola, le scelte produttive, modi diversi di concepire la propria relazione con l'ambiente ed il proprio lavoro, ...
Era però necessario trovare un nome per esprimere questo concetto così denso. La parola "territorio" è limitante, troppo di uso comune e quindi possibile causa di fraintendimento. L'errore più scontato, che ancora oggi molti fanno, è quello di ridurlo alle sole caratteristiche pedo-climatiche. Si iniziò così a pensare d'introdurre termini diversi, in grado di comprendere questa complessità. Nacque così l'uso di Genius Loci e di terroir.
Sono diversi? No, esprimono più o meno lo stesso concetto, ma nascono in due ambiti culturali diversi.
Il Genius Loci
La locuzione Genius Loci, di origine romana, fu ripresa in epoca moderna prima di tutto in architettura, inserita nella storica riflessione sul concetto di "luogo". Da qui fu traslata al concetto di territorio viticolo.
Il Genio, Genius (da gignere= creare, generare), nell'antica Roma era uno spirito tutelare, un nume benevolo che vegliava su ogni persona, a metà fra gli uomini e gli dei. Più o meno lo stesso concetto era presente nella cultura greca, dove era chiamato daimon. Non era solo del singolo individuo, ma anche di collettività: c'erano anche Genii della famiglia, della Province, dello Stato, di associazioni varie, ecc. Il concetto era anche esteso ai luoghi, col nome di Genius Loci, il genio del luogo. Si trattava di un custode benevolo che veglia su di esso e sulle persone che lo abitavano o anche una sorta di sua personificazione.
Secondo Servio “nullus locus sine Genio est” (nessun luogo è senza un Genio).
Virgilio, nell’Eneide, lo descrive come un viscido e grande serpente che esce strisciando dalle viscere della terra (libro V, 84-75). Infatti era spesso raffigurato come un serpente, un animale considerato simbolo di fortuna. La sua immagine sui muri di un edificio era l'espressione della volontà di mettersi sotto la tutela del Genius Loci. Spesso è raffigurato come un serpente che si avvolge intorno all'altare, dove sale per divorare le offerte che gli sono state fatte.
Per avere la sua benevolenza bisognava rispettare il luogo, invocarne il protettore e fargli offerte di profumi, fiori, frutti, focacce e vino. Il Genio allora sarebbe stato benevolo, si sarebbe palesato riempiendo il luogo di sacralità. Se invece la persona fosse stata ostile al luogo, lo avesse devastato, esaurito le sue risorse, allora si sarebbe inimicata il Genio. Egli allora si sarebbe negato, avrebbe svuotando il luogo della sua presenza, causando quindi sventura.
A volte è rappresentato come una figura umana, circondata da simboli di piante ed animali propri del luogo. Un'immagine molto più comune dei Genii era invece quella della figura alata, da cui sono derivate le raffigurazioni degli angeli cristiani.
Queste credenze saranno comunque assimilate nel cristianesimo nelle figure degli angeli custodi e dei santi patroni.
Ad introdurlo per primi nel dibattito moderno sul significato di "luogo" furono gli architetti Aldo Rossi, alla fine degli anni ’60 e, soprattutto, il norvegese Christian Norberg-Schulz, un decennio dopo. Il latino Genius Loci iniziò così ad essere usato per definire la molteplicità complessa di quegli elementi che costituiscono l'identità più profonda di un Luogo. Comprende l’insieme delle sue caratteristiche intrinseche, fatte da elementi geografici e strutturali, naturali e artificiali, ma anche da elementi immateriali e mutevoli, come le stratificazioni storiche, culturali, il modo stesso in cui viene percepito dall’osservatore, il suo “carattere”, i colori, le variazioni della luce, ecc.
Poco tempo dopo, il prof. Attilio Scienza, prendedono ispirazione dal dibattito architettonico, propose l'introduzione dell’uso della locuzione Genius Loci nell’ambito viti-vinicolo, per richiamare in modo potente quel legame fra vino e territorio ereditato dai Romani, scandagliato ed approfondito dal dibattito moderno intorno al territorio viticolo descritto sopra.
La nascita del "terroir"
Più o meno nello stesso periodo, anche in Francia stava maturando questa riflessione, partita dal medesimo retroterra culturale: tutti i territori viticoli europei sono figli ed eredi della viticoltura Romana.
I francesi esplicitarono questo concetto col termine di terroir, che si è iniziato ad usare con questo significato più o meno dalla metà del '900. Fino ad allora, questa parola era un sinomimo di suolo, di terreno, di territorio, non di uso comune nella Francia moderna. Era un arcaismo impiegato per lo più nell'ambito agricolo. L'aspetto curioso è che, nel XVIII-XIX secolo, era usato in senso spregiativo. Il « goût de terroir » indicava un sapore negativo del vino. «On dit que le vin a un goût de terroir, quand il a quelque qualité désagréable qui lui vient par la nature de la terre où la Vigne est plantée » (Louis Liger, Dictionnaire pratique du bon ménager de campagne et de ville. Ribou, Paris, 2 t., 449 & 407 p.). "Si dice che il vino che ha il gusto di territorio, quando ha qualche qualità sgradevole che gli viene dal tipo di terra dove la vite è stata piantata".
Soprattutto negli anni '70-'80, il prof. Attilio Scienza si impegnò sulla diffusione e riflessione intorno al territorio viticolo come Genius Loci, nell'ottica di rimarcarne l'importanza produttiva e culturale, ma anche di sottolineare la nostra primogenitura, in quanto italiani, di un'eredità culturale nata in Italia, usando un nome latino.
Purtroppo il mondo del vino italiano non colse allora la centralità di questo aspetto, oltre che la grande valorizzazione del vino italiano nel mondo che ne sarebbe derivata. Quando ha iniziato a capire l'importanza di raccontare l'atavica relazione fra vino e territorio, ha accettato supinamente il terroir, alla francese, che nel frattempo si era ormai imposto. Infatti i nostri vicini, a differenza nostra, ne avevano capito l'importanza ormai da decenni, lo avevano coltivato e diffuso. Infine, è stato amplificato e consolidato in modo universale dagli scrittori di settore anglosassoni. Oggi spesso i francesi sostengono anche di averlo inventato (non solo come termine)! Sic transit gloria mundi.
Non posso nascondere di essere di parte. La mia anima latina mi fa amare di più il Genius Loci, anche perchè mi sembra che esplori profondità maggiori! Niente mi appare così affascinante come l'immagine di un Genio che ci dispensa favori o sventura per quanto noi amiamo e rispettiamo la nostra terra!
Comunque, al di là di primogeniture e parole, resta il fatto che niente come il Genius Loci (o il terroir) sia in grado di rappresentare l'anima più vera del vino artigianale, da oltre duemila anni. C'è chi dice che sia qualcosa di impalbabile, difficile da spiegare nel dettaglio, da capire in modo razionale mentre si assaggia un vino. D'altra parte è la sua natura: in parte si spiega con la scienza, ma ha anche qualcosa di sfuggevole, complesso, più facile da capire col lato intuitivo della nostra mente. Quando fai questo lavoro però ti accorgi che niente comunque è più vivo e vero di esso.
Bibliografia
Columella, “De re rustica” , 65 d.C.
Giangirolamo Pagani, 1794, Rustici Latini Volgarizzati, Lucio Giunio Moderato Columella, ed. Vittorio Curti Venezia.
Attilio Scienza et al., 2010, Atti del Convegno “Origini della viticoltura”.
Luigi Manzi, 1883, “La viticoltura e l’enologia presso i Romani”.
Dalmasso e Marescalchi, 1931-1933-1937, “Storia della vite e del vino in Italia”.
Emilio Sereni, 1961, “Storia del paesaggio agrario italiano”,
Marcella Peticca, "Genius Loci: perdita e riscoperta del luogo", 2015, Università di Bologna.
P. Prévost, P. Morlon, J. Salette, "Le Mots de l'Agronomie", 2017, https://mots-agronomie.inra.fr/index.php/Terroir
https://www.romanoimpero.com
Le immagini senza didascalia sono mosaici ed affreschi di epoca romana.
Restiamo a casa
Come purtroppo sapete, siamo in emergenza Corona virus. Quindi ci adeguiamo alle regole e stiamo chiusi. Se volete i nostri vini, ve li spediamo a casa. Scritemi a info@guadoalmelo.it per ogni informazione o chiamate tel. 0565 763238.
Insieme ce la faremo!
L'equilibrio della vigna inizia sempre con una buona potatura
In questi giorni stiamo facendo in vigna la potatura secca (o invernale), che è il più importante fra tutti i lavori utili ad indirizzare le viti ad un equilibrio armonioso. Con questo post cercherò di farvi capire a grandi linee come e perché facciamo questo lavoro.
Prima di tutto vorrei sottolineare che niente è improvvisato: ci basiamo su un sapere che nasce da millenni di cultura contadina, approfondito ed ampliato poi dalle conoscenze sulla fisiologia della vite e le sue relazioni con l’ambiente che gli sta intorno. Per coltivare al meglio una pianta, è necessario conoscerla. Solo così è possibile rispettare i suoi equilibri ed intervenire in modo rispettoso ma utile.
È importante non fare errori nella potatura, altrimenti non riusciremo a produrre grandi vini di territorio. Sbagliare, o fare una cattiva potatura per trascuratezza o scarsa competenza, significa limitare l’espressione di tutta la potenzialità della propria vigna e/o danneggiarla a tal punto da accorciarle la vita.
In pratica, quando la vite è in riposo, tagliamo i tralci dell’anno passato, lasciando un certo numero di gemme. Queste sono da valutare attentamente, perchè determinano la produzione che avrà la vite l’annata seguente. Numero e distribuzione delle gemme definiscono anche lo spazio di vita della pianta, cioè quella che è chiamata forma di allevamento. È importante perchè da essa dipende l’equilibrio fra tutte le parti della vite (tronco, radici e chioma), in relazione all’ambiente in cui vive.
Il taglio va valutato pianta per pianta, vigna per vigna. Può essere fatto solo a mano, da persone esperte. Nessuna scelta è casuale nella buona gestione del vignaiolo: se avrete la pazienza di andare fino in fondo a questo post lo capirete.
Non è comunque l’unico lavoro che agisce sull’equilibrio complessivo, per cui deve essere fatto con una visione d’insieme, inserito in un ciclo iniziato con la nascita stessa della vigna, come è evoluta nel tempo e pensando già ai lavori successivi. In vigna niente è separato dal resto.
Cosa succede se non si pota la vite?
Se non si pota, come succede alla vite selvatica in natura o come si faceva nelle forme di viticoltura primitiva, la pianta tende a crescere molto e a produrre tanti grappoli. Sono piccoli, poco dolci e poco equilibrati. È un’uva che va bene per essere mangiata dagli animali selvatici o per fare un vino rudimentale.
Gli antichi viticoltori iniziarono però a capire con l’esperienza che, potando, riuscivano a produrre un'uva migliore, più dolce, più buona, che produceva un vino molto più interessante. Da allora in poi questa pratica non è stata più abbandonata ma affinata al punto da essere diventata quasi un'arte.
La vite non potata tende anche ad avere una notevole alternanza produttiva. Significa che un anno si ha una produzione abbondante, l'anno dopo invece ci sarà pochissima uva o praticamente niente, e così via (al di là delle normali fluttuazioni delle annate legate all'andamento stagionale).
Quando si pota:
La potatura si fa quando la vite è nella fase di riposo invernale.
Bisogna considerare che il tempo della potatura condiziona quello del germogliamento primaverile. Prima si pota e prima la vite germoglierà (e viceversa). In genere, noi vignaioli vogliamo evitare che il germogliamento sia troppo precoce, perchè l'inizio della primavera è quello più a rischio di maltempo. Ci potrebbero essere gelate o grandinate, che potrebbero danneggiare i germogli. Per questo, in genere, si cerca di spostare la potatura il più avanti possibile. Dipende comunque molto dal proprio clima: il rischio è massimo nel nord Italia, minimo al sud, con tutte le variabili possibili. Da noi, è legato essenzialmente a possibili gelate causate dai venti di grecale o tramontana.
Bisogna anche tener conto, soprattutto per chi sta nei climi più freddi, che alcune varietà sopportano meno bene i geli invernali se sono state già potate. In questo caso sarebbe meglio aspettare di aver superato il periodo più gelido.
Infine, bisogna fare i conti con le proprie forze e la dimensione delle proprie vigne, per calcolare i tempi esatti, perché il lavoro deve essere terminato, in ogni caso, prima del “pianto della vite”. Si tratta della fuoriuscita di goccioline dai punti di taglio del legno: è il segnale della ripartenza del circolo della linfa nella pianta, il primo segno del prossimo sviluppo dei germogli.
Gli strumenti del vignaiolo.
Fino a non molto tempo fa i contadini usavano strumenti da taglio diversi per ogni regione. A nord si usava soprattutto la roncola, nel centro e nel sud, come da noi, il pennato (nel disegno), con diverse forme a seconda delle zone. Questi attrezzi rendevano il lavoro difficile: bisogna fare attenzione a non ferirsi, a non ferire troppo la pianta (per evitare l’ingresso di malattie e parassiti) e ci voleva una certa forza. Nell’Ottocento si è cominiciato ad usare le forbici a molla e questo ha reso il lavoro un po’ più semplice. Oggi si usano ancora queste, a volte elettriche o pneumatiche, che riducono la fatica e l’usura delle mani. La sega si usava e si usa solo per tagli di rami particolarmente grossi o parti di tronco.
Per questioni di sostenibilità, oggi molto spesso si fa anche la pre-potatura (come facciamo anche noi). È un taglio dei tralci molto grossolano, fatto con un attrezzo apposito portato dal trattore. Poi i potatori lavorano di fino, col taglio di potatura vero e proprio. La pre-potatura consente di eliminare la perdita di tempo e la fatica di districare i lunghi tralci, avvolti intorno ai fili e fra di loro. La velocità è importante perchè, come scritto, spesso la finestra temporale di lavoro non è molto larga.
Cosa ce ne facciamo dei tralci?
Come da tradizione, noi spezzettiamo i tralci tagliati nel vigneto e li usiamo per fare compost, utile a recuperare sostanza organica nella vigna. C'è anche chi li brucia, ma è poco ecologico ed è anche uno spreco. Il compost vegetale, che facciamo anche con tutti gli altri resti vegetali (raspi, erba, ecc.), contribuisce ad arricchire il suolo soprattutto di azoto, calcio e potassio. L’alto indice di biodiversità favorisce la mineralizzazione della sostanza organica e la corretta distribuzione di questi nutrienti.
Scendiamo nel dettaglio:
Un equilibrio molto delicato e complicato.
La vite indirizza la sua energia a diverse finalità: la crescita di tutte le sue parti (legnose e verdi), la formazione e sviluppo del grappolo, il deposito degli zuccheri e altri composti organici negli acini, l’accumulo di sostanze di riserva. Tutte queste funzioni sono fondamentali per un ottimale equilibrio della vite (e della vigna nel complesso) perché cresca bene, dia buona uva e abbia una lunga vita.
La potatura (con altri lavori successivi) agisce sulla regolazione del vigore della vite, indirizzando la sua energia prima di tutto alla produzione di uva equilibrata ma preservando sempre un sviluppo armonioso della pianta.
Questi lavori sono condizionati pesantemente dal territorio (clima e suolo), della varietà, del portinnesto, ecc., tutti elementi che bisogna conoscere bene per fare le scelte ottimali. A seconda delle diverse condizioni, a volte può essere necessario stimolare il vigore della pianta, a volte è meglio limitarlo.
Una vite troppo vigorosa tende a crescere tanto in tutte le sue parti, producendo tanta uva ma scadente. Anche una vite troppo debole non produrrà il miglior vino che potrebbe esprimere. Manca di energia e non riesce ad accumulare nel grappolo tutti i composti organici necessari. Inoltre non “starebbe bene” in generale: non riuscirebbe a compiere il rinnovo vegetativo, a depositare le sostanze di riserva negli organi perenni. Questo comprometterebbe l'equilibrio della pianta, compreso il lavoro ottimale delle radici, con ripercussioni importanti sulla vita presente e futura della vite.
In entrambi casi si avrebbe uva di scarsa qualità, per ragioni opposte, che matura male. Non si tratta solo di un accumulo sbilanciato degli zuccheri (troppi o troppo pochi). Sarà anche un’uva che produrrà un vino con un’acidità non equilibrata, che potrebbe mantenere caratteri erbacei, che non riuscirebbe a sviluppare complessità aromatica, ecc.
Il ciclo della vite è circolare: dorme in inverno, si sveglia in primavera, germoglia, cresce, fruttifica e torna a dormire. Non è però un ciclo chiuso: ogni anno è strettamente connesso al precedente. Le gemme che germoglieranno la prossima primavera si sono formate l’anno prima, così come le riserve della pianta. Queste gemme, che restano dormienti fino alla primavera successiva, sono dette “ibernanti”. Sono quelle che decidiamo di tenere o meno con la potatura.
La gemma ibernante si sveglia a primavera, germoglia e forma i nuovi tralci. Sugli internodi dei tralci nascono le foglie, i grappoli, i viticci e nuove gemme. Si formano sia quelle ibernanti (che “serviranno” l’anno dopo) che quelle dette “pronte” o “laterali”. Queste ultime sono attive nella stessa annata in cui nascono: svilupperanno i rami laterali nel corso della primavera e dell’estate. Per ora però non ci interessano.
Se affettiamo una gemma ibernante nel suo anno di nascita e la guardiamo al microscopio, vediamo che all’interno c'è l'abbozzo del futuro tralcio, sul quale compaiono già gli abbozzi dei futuri grappolini. Il loro numero indica la fertilità della gemma.
Capite quindi perché l'andamento più o meno buono dell'anno precedente condiziona anche la produzione di quello successivo? La fertilità dipende da tanti fattori, come la varietà, il vigore della pianta o del singolo tralcio (cresce con la crescita del vigore ma i due estremi invece, troppo o troppo basso, riducono entrambi la fertilità), ecc.
Da questa osservazione al microscopio, possiamo anche vedere che nella gemma non c’è solo un abbozzo di futuro tralcio. Al centro ce n’è uno, il più grande, chiamato “asse principale”. Vicino ce ne sono altri due (o uno) più piccoli. Sono chiamati gemme secondarie o di controcchio. Sono come delle “riserve”: se l’asse principale muore per qualche ragione, si sviluppano le gemme di controcchio, che però in genere non sono fertili.
Non proprio tutte le gemme ibernanti lasciate con la potatura si svilupperanno. Alcune muoiono, altre ancora possono rimanere latenti, come riserva della pianta in caso di necessità. Vengono inglobate nel legno in crescita e possono svilupparsi anche dopo parecchi anni. Sono risvegliate da eventi particolari, difficili per la vita della pianta (colpi, gelate, potature drastiche, ecc.) che stimolano queste riserve segrete di sopravvivenza. Quando si svegliano, formano dei rami bassi, sterili, detti succhioni. In genere i vignaioli li eliminano con la potatura verde. A volte però tornano utili, perché questi tralci bassi si possono impiegare per riformare le parti strutturali di una pianta che sono state danneggiate da traumi o parassiti.
La carica delle gemme.
Un elemento chiave della potatura, che cambia il flusso del vigore della pianta, è la carica delle gemme da lasciare, cioè il numero di gemme per ceppo (per singola vite).
Questa scelta dipende da tanti fattori. Molto in generale, un numero troppo alto di gemme causerebbe un eccesso di uva prodotta, troppo basso indurrebbe una crescita troppo vigorosa delle parti verdi, sottraendo energia alla maturazione dei grappoli. Dipende però molto dalla propria situazione particolare: dalla varietà, dal portinnesto, dal proprio clima, suolo, densità delle viti, di come sono andate le annate precedenti, ecc.
Il sistema migliore per capire la carica ottimale è solo l’esperienza e la conoscenza. Oltre che conoscere le basi, è necessario vivere la propria vigna, fare piccole prove ed osservazioni accurate, portate avanti negli anni, che ci fanno comprendere se stiamo lavorando bene oppure no.
Questo equilibrio deve anche essere il più possibile continuo. Cambi troppo drastici, anche se di correzione, possono essere a volte più dannosi che utili. Infatti, alterano troppo bruscamente un equilibrio ormai impostato, che riguarda tutta la pianta, non solo la chioma (tralci e foglie). Per questo è importante valutare certi cambiamenti in modo integrato, considerando tutti i lavori dell'anno in vigna.
Potatura corta o lunga?
Un altro elemento chiave della potatura è se viene fatta lungo o corta. Questo dipende dal fatto che le gemme non hanno sempre la stessa fertilità lungo il tralcio. Lo si sapeva fin dai tempi di Columella. Dipende molto dal clima ma anche dalle varietà.
Perché dal clima?
Nei climi più freddi, le gemme che stanno sui primi internodi (dette prossimali) “vengono un po’ male”, non formano gli abbozzi dei grappoli (in termini scientifici, si dice che non differenziano bene). Saranno quindi poco o per nulla fertili. Questo succede perché sono le prime a svilupparsi, all'inizio della primavera. In questi climi, questo è un momento poco favorevole, sia per le condizioni ambientali (ancora difficili), sia per il fatto che la pianta non è ancora ben nutrita. Lo stesso succede nella tarda estate, per le gemme degli ultimi internodi. Le più fruttifere sono quelle che nascono nel momento migliore di vita della pianta e che si trovano nella parte intermedia del tralcio (dette anche distali, cioè distanti dall'inizio del tralcio).
Nei territori più caldi, come nel nostro caso, questo di solito non succede, perché il clima è buono fin da subito, per cui sono fertili anche le gemme dei primi internodi. In questo caso è sempre meglio potare corto. Se si pota lungo, si lascerebbero troppe gemme fertili e si avrebbe troppa produzione.
Alcune varietà però si comportano in maniera diversa, indipendentemente dal clima. Quindi, possono essere fertili sulle prime gemme anche in climi freddi. Viceversa, possono produrre meglio sulle gemme distali anche in climi caldi.
Dove è possibile, comunque, di solito si preferisce sempre la potatura corta, che in genere dà un migliore equilibrio fra foglie e grappoli, con una maturazione migliore. Con questa potatura, tagliando il tralcio, rimane un moncone corto detto sperone (in passato anche cornetto o custode).
La potatura lunga o media si fa invece più frequentemente nel nord, nei climi più freschi, oppure è necessaria per alcune varietà. Col taglio, rimane un pezzo di tralcio più lungo, con più internodi, dalle cui gemme nasceranno in primavera i nuovi tralci fruttiferi.
Ci sono anche sistemi di potatura mista, con alcuni tralci tagliati corti ed altri lunghi. Sono necessarie per certe forme di allevamento, per la necessità di avere sia i tralci fruttiferi che per rinnovare le parti legnose.
Continuo a scrivere “in genere” perché questi aspetti sono molto variabili e solo l’esperienza e la conoscenza della propria situazione portano alla scelta migliore.
Potatura d’allevamento.
La potatura di produzione, di cui abbiamo parlato finora, dipende molto anche dalla forma di allevamento della vite.
Nei primi anni di vita di una vigna, la potatura stessa si dice di allevamento. Non ha finalità produttive ma serve a far crescere bene la piccola vite e a portarla a prendere la forma di allevamento utile per quel territorio.
Sulle forme di allevamento ci tornerò con più dettagli, ora vediamole solo in modo molto generale per quanto si aggancia alla potatura e alle scelte principali.
Fra le tante forme di allevamento (e in Italia ne abbiamo veramente tante!), una differenza sostanziale è l’altezza del tronco della vite. Questo elemento cambia notevolmente gli equilibri della pianta. All’interno del tronco ci sono dei vasi che portano in giro per la pianta quanto viene assorbito dalle radici (acqua e sali minerali) e, viceversa, quanto prodotto dalle foglie (le sostanze organiche e l’energia). Più il tronco è lungo, più si perde energia solo per questi trasferimenti, sottraendola al resto. Ci sono però anche esigenze diverse. che dipendono da tanti fattori, che possono rendere più o meno utile avere il tronco più o meno alto. Per esempio, in ambienti dove la vigoria non è un problema ma ci sono rischi di umidità e gelate, può essere più utile avere il tronco alto, per allontanare i grappoli dal suolo.
La forma d’allevamento e la potatura condizionano anche la disposizione della chioma. Se ci fate caso, ci sono vigne con i rami in verticale, in altre sono più o meno inclinati, se non addirittura ricadenti. Anche questo orientamento non è casuale. L’attività di vegetazione, il vigore di un tralcio, è infatti favorito dalla posizione verticale. Questa viene in genere preferita dove ci sono condizioni ambientali limitanti per la vite. Più il ramo è piegato rispetto alla verticale, più perde in vigoria, per cui si trova spesso nei territori dove si vuole contrastare un vigore troppo elevato. È un fenomeno che dipende anch'esso dai complessi trasporti interni della pianta.
Ci sono poi sistemi di allevamento dove i tralci sono più o meno affastellati, disposti a fare cerchi, pergolati, ecc. In generale, i tralci troppo uniti e sovrapposti favoriscono il ristagno d’umidità, le malattie, limitano l'assorbimento della luce del sole da parte delle foglie, ecc. Tutte queste scelte dipendono molto dalla situazione particolare della vigna. Ad esempio, nei climi molto siccitosi l’affastellamento limita la perdita d’acqua, riducendo la traspirazione. Dove c’è invece poco sole, è invece meglio disporre rami e foglie in modo che prendano al massimo l’energia solare, senza troppe sovrapposizioni che favoriscono anche l’umidità e quindi malattie e marciumi, più frequenti nei climi umidi, ... Le variabili sono molte.
Le nostre forme di allevamento e di potatura.
In un clima come il nostro, caldo ed arido d’estate, un po’ più piovoso in inverno e in primavera, suolo magro e ben drenato (alluvionale), le forme migliori sono quelle basse, sottoposte a potatura corta, a volte medio-lunga (a seconda delle varietà), con chioma verticale. Per questo abbiamo il Guyot e il cordone speronato.
Guyot: è un sistema tradizionale antichissimo italiano. Eppure, è stato erroneamente attribuito a questo agronomo francese, Jules Guyot, che lo ha descritto e ha contribuito a diffonderlo nel suo paese nel XIX secolo. È una forma poco produttiva e di alta qualità. Si trova in molte parti d’Italia, dalla Sicilia al Piemonte. È un sistema di potatura misto. Per noi è perfetto per quelle varietà che sono più fertili nelle gemme distali. È una forma poco espansa, adatta a terreni poco fertili e siccitosi, dove la vite ha in genere uno sviluppo contenuto. Quando si pota si tengono due capi: un tralcio potato lungo sarà il capo a frutto, l’altro si pota a sperone, che servirà per il rinnovo del legno dell’anno successivo.
Cordone speronato: anch'esso tradizionale, deriva dal Guyot. In questo caso però c’è solo la potatura corta. È adatto a terreni di bassa o media fertilità, anche asciutti, per quelle varietà che hanno buona fertilità sulle gemme prossimali (le prime). Si trova molto in Toscana e altre regioni del centro. Durante i primi anni di allevamento, il tralcio migliore viene messo in orizzontale e diventa un elemento strutturale della pianta. Le gemme della parte di sotto sono accecate (eliminate). In primavera, dalle gemme superiori si formeranno i tralci fruttiferi. L’anno seguente ogni tralcio sarà tagliato a sperone, formando il cordone. Ogni anno successivo si taglierà con potatura corta. Questo sistema ha avuto successo e si è diffuso per l’ottima gestione della qualità della vigna ma anche per una potatura semplice e veloce.
Nelle nostre vigne storiche abbiamo anche:
Alberello: presente tradizionalmente nei luoghi di antica cultura greca o fenicia, una delle forme più antiche. È adatto a terreni estremamente siccitosi, scarsamente fertili, oppure ventosi o molto freddi, dove conviene avere una vegetazione contenuta e che rimane prossima al terreno. È nel punto più basso della scala di produttività, con gradazioni zuccherine fra le più alte. Si trova in Valle d’Aosta (che è semiarida) e Sicilia, per ragioni climatiche opposte. La potatura può essere cortissima, come da noi (l’alberello greco vero e proprio, la vites capitatae di Columella), corta o anche lunga o mista, a seconda dei territori e delle varietà.
La pergola: la raffigurazione più antica è nelle tombe Egizie, dove è rappresentata a forma di tunnel, come noi l’abbiamo riprodotta a Guado al Melo. Ai tempi dei romani si idearono pergole orizzontali, chiamate jugatio compluviata, per coprire viali e terrazze, descritte sia da Columella che da Varrone. Se ne sono poi sviluppate tantissime varianti, alcune più adatte all'uva da tavola, altre a quella da vino. È una forma a vite alta, con i tralci ben distribuiti su una superficie più o meno inclinata, per captare al massimo i raggi solari, evitare i ristagni di umidità, ma non dare eccessivo vigore. Per il vino, è molto usata nelle zone di montagna, come il Trentino. La potatura può essere di diverso tipo, a seconda dei territori e delle varietà.
La vite alberata o maritata: una delle forme più antiche in assoluto, quella della nostra tradizione primigenia. Ne ho già parlato a lungo (qui, qui e qui). Nelle forme primitive non era potata per nulla. Più tardi e fino al Novecento, era sottoposta a potatura lunga e rada (ogni due anni o anche tre). Era il sistema che garantiva più longevità in assoluto alla vite, che diventava di frequente ultracentenaria (prima che arrivasse la fillossera a complicare la vita dei vignaioli).
Al Vinexpo di Parigi col TreBicchieri WorldTour
Saremo a Parigi martedì 11 febbraio col TreBicchieri World Tour del Gambero Rosso, a Vinexpo.
In assaggio soprattutto il vino premiato, Criseo Bolgheri DOC Bianco 2017, oltre che i nostri grandi Rossi.
Vinexpo Paris, Porte de Versailles
Pad. 7.2
martedí 11 febbraio, orario 14.00-18.00
Presentazione Cuzziol GrandiVini a Milano
Lunedì 20 gennaio, ci sarà a Milano, all'hotel Gallia, la presentazione del catalogo del nostro distributore per l'Italia, Cuzziol GrandiVini. Ci sarà anche Michele, che vi racconterà della nostra produzione artigianale e sostenibile e vi farà degustare i nostri vini.
Ricordo che è un evento dedicato ai clienti professionali. L'accesso è previo accredito. Nel caso, chiamateci o scriveteci (tel. 0565 763238; info@guadoalmelo.it ).
Ecco le aziende in degustazione.
Vi aspettiamo!
Antica Roma: una vigna persa nella traduzione
“Da dove potremmo meglio cominciare se non dalla vite, rispetto alla quale l’Italia ha una supremazia così incontestata, da dar l’impressione di aver superato, con questa sola risorsa, le ricchezze di ogni altro paese, …?” Plinio
Oltre a Plinio, anche Orazio racconta che i Romani consideravano la viticoltura come una delle più grandi risorse economiche della nazione. Catone la pone al primo posto fra le colture per redditività. Non ci stupisce: l’Italia è la terra di elezione della vite e ancora oggi ne ha il primato produttivo.
Penserete: cosa si può dire della viticoltura romana che non è già stato detto e ridetto?
Sebbene sia stata ben descritta dai Rustici Latini (le nostre fonti: vedi qui), esaminata in lungo ed in largo da studiosi di tutti i secoli, la viticoltura romana è stata spesso travisata, per malintesi linguistici e culturali. Questo fatto ha fatto perdere spesso la percezione di quello che è il suo tratto originario ed assolutamente distintivo: la coltivazione della vite maritata all’albero (o vite alberata) di matrice etrusco-laziale, forma che rimarrà in Italia fino alla prima metà del Novecento. Questa forma di coltivazione è presente anche in altre culture antiche ma in Italia ha rivestito un ruolo particolarmente importante e duraturo per millenni.
La viticoltura a Roma, come per quasi tutti i popoli italici, si perde nella storia. Fin da quando l’uomo ha calpestato le nostre terre, ha da sempre raccolto le uve selvatiche nei nostri boschi mediterranei. A Roma il passaggio verso la viticoltura vera e propria sembra sia avvenuto per influenza etrusca. Sulle origini della viticoltura in Italia ho già parlato in modo più approfondito qui.
La viticoltura originaria romana era quindi la stessa degli Etruschi, un sistema d'allevamento basato sul modo naturale di crescita della vite. Nel bosco infatti essa usa gli alberi come sostegno per raggiungere la luce. In Etruria si utilizzavano soprattutto aceri, a Roma soprattutto olmi. In latino questo sistema di coltivazione era detto arbustum vitatum (vite alberata), col vitatum spesso omesso. Più poeticamente, era usato anche il termine vitis maritae, viti maritate (all'albero). Ho già descritto più in dettaglio questi aspetti qui.
Se vogliamo quindi immaginarci il classico paesaggio agricolo dell’epoca romana, dobbiamo pensare ad una campagna con viti maritate ad alberi disposte a filari o a quinconce (come il numero 5 su un dado), con strisce di terreno intermedie dove si seminava il grano (o altre colture). Naturalmente non mancava l’olivo.
Non è un mondo agricolo così distante da noi, anche se oggi dimenticato. Ancora ad inizio Novecento, il vino Chianti era prodotto da un modello di viticoltura molto simile, ben raffigurato in quest'opera di Raffaello Sorbi (1893): vigne con viti maritate (sistema detto in Toscana “testucchio”), alternate a strisce di grano o altre colture, gestite da coloni in mezzadria. Erano identici anche i buoi con la museruola (la consiglia anche Plinio, poi vedrete).
Solo più tardi Roma ingloberà anche la viticoltura di origine greca, la vigna bassa, con l'alberello senza sostegno o con un sostegno "morto" (il palo), portando poi avanti entrambe.
Lost in translation.
Mi rifaccio al titolo di un noto film di diversi anni fa, Lost in traslation (perso nella traduzione), che rende bene l'idea di quello che è successo con la viticoltura dell’antica Roma, spesso travisata per problemi di traduzione o culturali.
Purtroppo è anche colpa nostra. L'Italia moderna del vino non si è curata molto del suo immenso patrimonio storico-culturale, occupandosene solo in modo superficiale. Spesso la narrazione della storia del vino (compresa la nostra) in epoca moderna, è stata lasciata in mano ad autori estranei alla nostra cultura, che non avevano gli strumenti sufficienti per capirla.
La viticoltura romana è stata quindi spesso identificata solo con la vigna bassa. Studiosi o divulgatori estranei alla cultura italiana e/o senza competenze agrarie approfondite non conoscevano neppure l'esistenza della vite maritata all'albero. Altri l'hanno considerata assolutamente secondaria, una forma primitiva di scarso interesse, soppiantata presto dalle tecniche di prevenienza greca, considerate più avanzate. Ogni volta che veniva trovato il termine vigna (vinea) negli autori latini, si dava per scontato che ci si riferisse alla vigna bassa. Hugh Johnson, ad esempio, cita l'esistenza della vite alberata ma scrive che "gli autori antichi non ne parlano mai" (sic!).
Il termine latino specifico per la vite alberata, arbustum, è stato ampiamente frainteso, tradotto spesso come bosco. Apollinaire lo traduce come bouquet d’arbre, boschetto, così come diversi autori tedeschi (Jungholz) ed anglosassoni (plantation of trees). Così succedeva che non ci si accorgesse dell’assurdità di far dire a Varrone, per esempio, che da quel “bosco” si producevano certe quantità di vino e di grano!
Della vite alberata non parlano solo gli autori più agrari ma anche i poeti, (cosa che non succede con la vigna bassa). In Catullo, nei Carmina, la vite e l'olmo sono descritti come moglie e marito. Nell'epoca augustea è citata spesso da Virgilio ed Orazio, ma chi ne parla più di tutti è Ovidio, che la usa frequentemente come metafora d'amore negli Amores, nei Fasti, Heroides, Tristia e nelle Metamorfosi, nella storia di Vertumno e Pomona (vedete qui).
Come già accennato in precedenza sull'origine della viticoltura in Italia (qui), solo negli ultimi decenni ci sono stati diversi studi multidisciplinari (fra archeologia, linguistica e viticoltura) che hanno cercato di fare più luce sulle nostre origini viticole. Soprattutto è stato il lavoro di Paolo Bracali dell'Università di Perugia che ha chiarito il significato dei termini latini legati alla vigna ed il loro cambiamento nel corso della lunga storia romana.
Vinea o arbustum?
Catone, il primo dei Rustici Latini, è abbastanza chiaro quando scrive che per realizzare bene una vigna è necessario "che gli alberi siano ben maritati alle vite e che queste siano in numero sufficiente". La vigna, dalle origini ed ancora nella sua epoca, era fatta solo da viti maritate agli alberi. Egli la indica col termine generico vinea o, quando vuole sottolineare la forma di allevamento, quello più specifico di arbustum.
[one_third][info_box title="" image="" animate=""]*Cicerone racconta la storia di Atto Navio, giovane guardiano di porci dalle capacità divinatorie. Un giorno perse una scrofa in una vigna e fece voto a Giove, se l’avesse ritrovata, di offrirgli il grappolo più grande. Così successe e, per adempiere al voto, suddivise la vigna in diverse parti ed interpretò il volo degli uccelli per ciascuna, secondo gli usi divinatori di derivazione etrusca. Così facendo trovò un grappolo di incredibile grandezza e bellezza, da donare al dio. Il giovane divenne poi l’augure ufficiale del primo re etrusco di Roma, Tarquinio Prisco.
Questo mito è considerato alle origini del rito romano dell’auspicatio vindemiae. Prima della vendemmia il Flamen Dialis, il sommo sacerdote di Giove, offriva al dio un grappolo scelto da una vigna pubblica. Il rito serviva a garantire un buon raccolto e dava l'avvio ufficiale all'epoca della vendemmia. Per questo, il periodo della festa variava ogni anno. [/info_box][/one_third]Fino alla tarda epoca repubblicana quindi, ogni volta che si parla di vinea, ci si riferisce solo alla vite alberata, la forma tradizionale di viticoltura romana. Molti di questi autori non spiegano come è fatta, non hanno intenti agronomici, ma possiamo accorgercene anche da alcuni particolari. Cicerone, ad esempio, racconta un mito in cui un pastore porta dei maiali in una vigna*. Non può essere altro che una vigna alberata, visto che è praticamente impossibile che si portassero a pascolare porci in una vigna bassa con i frutti maturi (se li sarebbero mangiati!).
Fedro, che traduce e riadatta le favole di Esopo nel I secolo a.C., nella famosissima storia della volpe che non riesce a raggiungere l’uva, usa il termine “vinea alta”. Si inizia a intravedere qui un cambiamento. Infatti usa ancora la parola vinea alla maniera antica, ma sente l'esigenza di aggiungervi quell’alta. Forse teme di non essere capito?
Infatti Roma aveva ormai annesso diversi territori che erano state colonie greche, nei quali la vite era coltivata bassa, ad alberello, sostenuta a volte da un palo. Entrò quindi a far parte della cultura romana anche quest'altro sistema di coltivazione. L'esigenza di non confonderli portò ad un cambio linguistico che sembra fissarsi negli ultimi decenni del I sec. a.C.
Varrone sembra essere il primo ad usare due nomi distinti per indicare i due sistemi di coltivazione. Da lui in poi, nei testi latini, l'arbustum restò ad indicare la vite maritata, mentre vinea divenne il termine preferenziale per la vigna bassa. Il vinetum comprendeva entrambi, così come a volte anche vinea (...tanto per non rendere le cose troppo facili…).
Capite quindi la difficoltà? Era facile per traduttori poco esperti di aspetti viticoli perdersi, soprattutto scambiando l'arbustum per un boschetto, non capendo neppure che si stesse parlando di una vigna.
Vigna alta o vigna bassa?
Dalla tarda epoca repubblicana e sopratutto in quella imperiale, quindi, erano presenti entrambe le forme viticole.
In molti testi di storia del vino si trova una suddivisione schematica secondo la quale la vigna bassa era propria delle grandi ville schiaviste, con una produzione intensiva e di maggiore qualità. L’arbustum è relegato a contesti più primitivi o meno specializzati. Si tratta di una interpretazione che sembra rispecchiare però una concezione novecentesca di viticoltura, piuttosto che la comprensione dell'epoca.
Gli studi degli ultimi decenni, infatti, hanno portato a riconsiderare questo modello. Il concetto di specializzazione e di coltivazione intensiva ai tempi di Roma era differente da quello moderno. L’agricoltura promiscua era comunque prevalente, anche nelle grandi villae. Inoltre, la presenza dell'una o altra forma viticola sembra rispondere più alla tradizione culturale del luogo che alla dimensione aziendale o alla qualità del vino (pur con le dovute eccezioni), così come testimoniato da Virgilio, Plinio il Vecchio e tanti altri.
Ad esempio, Plinio il Giovane (nipote dell'altro Plinio) aveva grandi proprietà nell’alta valle del Tevere, che gli fruttavano ingenti guadagni nella vendita del vino a Roma. Plinio dice che i suoi coloni usavano coltivare “sotto e sopra”, dove per “sopra” s’intende la vite alberata e con “sotto” i cereali, in linea con la tradizione più antica locale. Plinio, parlando della sua attività di avvocato, usa questa metafora agricola che ci testimonia l'agricoltura promiscusa: “Come in agricoltura non curo e coltivo soltanto la vigna bassa (vinea), ma anche quella alberata (arbustum), e non solo la vite alberata ma anche i campi e negli stessi campi non semino soltanto farro o frumento, ma anche orzo, fave e altri legumi, così nella discussione di una causa, spargo ampiamente diversi argomenti, come se seminassi, per raccogliere quello che ne nascerà”.
Poteva quindi esserci una certa variabilità nelle scelte viticole. Tuttavia la prevalenza della tradizione locale è anche dimostrata dal fatto che le frontiere culturali viticole più antiche sono rimaste più o meno tali e quali, in Italia, fino al Novecento, così come sottolineato da nostri autori Ottocenteschi (come il Manzi) e ripreso più tardi da Emilio Sereni. A grandi linee, l'alberata rimase predominante nell'Italia centrale e settentrionale, dove era arrivata nel passato la tradizione Etrusca (compresi i popoli confinanti influenzati da essa). La vite bassa rimase prevalente nell'Italia del sud e in tutte le zone di antica cultura viticola greca. (vedete qui)
Nell'interpretazione moderna, la vite maritata è stata spesso legata alla produzione di un vino di scarsa qualità. I Romani però non la pensavano esattamente così. Plinio il Vecchio testimonia che i vini più rinomati della sua epoca, i famosi vini campani, capaci di lunghissimi invecchiamenti, derivassero proprio da viti maritate.
Egli è un sostenitore della vite alberata rispetto a quella bassa, così come Columella. Gli autori latini elencano una serie di vantaggi, considerati tali, in diverse parti d'Italia, fino all’inizio del XX secolo. Anche numerose fonti storiche e letterarie successive, dall’editto di Rotari (645 d.C.) fino alle opere ottocentesche, indicano la vite maritata come la più adatta all’economia dell’azienda agricola ed agli interessi del proprietario.
L’uva, tenuta lontana dal suolo, era più protetta dal gelo e dall'umidità. Le fronde dell'albero la preservavano (in parte) da altre avversità, come la grandine. Inoltre, nel passato era considerato un notevole pregio poter sfruttare lo stesso appezzamento di terreno per più usi. Deponeva a favore della vite alberata il fatto di poter coltivare senza problemi, fra i filari, il grano o altre colture. Vi si potevano far pascolare gli animali per buona parte dell’anno, senza rischi per l’uva o i germogli (salvo non vi fossero altre colture in mezzo da proteggere). All'epoca era comune che il proprietario affittasse il pascolo anche a pastori esterni. Nella vigna bassa invece tutto questo era possibile solo nel periodo di riposo della vite. In più, l'alberata permetteva il risparmio di recinzioni e siepi, essendo l’uva più protetta anche dagli animali selvatici. Solo il bestiame di grossa taglia è pericoloso per le vigne alte. Plinio infatti consiglia di mettere la museruola ai buoi quando si ara il terreno.
Quando Catone fa la sua famosa graduatoria delle coltivazioni economicamente più interessanti, ci ricorda che la vite alberata dà doppia redditività. Infatti la mette al primo posto come viticoltura vera e propria, ma la fa tornare anche all’ottavo posto per quanto si ricava dagli alberi di sostegno: le foglie come foraggio, le potature dei rami come legna da ardere, i frutti nel caso si utilizzassero alberi da frutto (Catone cita molto l'uso del fico). Questo passaggio è stato uno di quelli più travisati: la vinea al primo posto era interpretata come vite bassa e l’arbustum, all’ottavo posto, come un boschetto qualsiasi.
Non è che ci fossero solo vantaggi. Gli stessi Romani riconoscevano la difficoltà dei lavori. Plinio racconta che, alle origini, re Numa introdusse l'obbligo di potatura delle viti, ma i Romani non volevano salire sugli alberi, anche molto alti, per paura di cadere. Sembra che da allora s'introdusse l'uso di garantire ai vignaioli, nel contratto di lavoro, anche le spese del funerale. A parte i miti, Columella cita i Saserna, proprietari della Gallia Cisalpina, che giudicavano questo sistema troppo costoso.
Nei secoli successivi (soprattutto nell'Ottocento) continuerà la disputa che dividerà gli esperti fra detrattori e sostenitori. Si riconoscevano diversi aspetti negativi come l'ombreggiatura delle viti, la competizione fra le due specie (nei terreni non abbastanza fertili) con scarsa corposità dei vini, la lentezza a raggiungere la produzione ottimale di uva, i maggiori costi di potatura e vendemmia, l'impossibilità di una pur minima meccanizzazione, ... La grafiosi degli anni '20 del Novecento tolse parecchi indugi all'abbandono di questa forma tradizionale, facendo morire la maggior parte degli olmi. Semplicemente non c'era più spazio per la vite maritata, in un mondo contadino ormai al tramonto.
Vorrei infine ricordare che l'epoca romana, soprattutto nella fase Imperiale, fu caratterizzata da un periodo climatico piuttosto caldo. Anche ora, con i cambiamenti del clima in corso, ci siamo resi conto che bisogna rivedere gli equilibri produttivi di soli venti-trent'anni fa. Non si può escludere a priori che una forma espansa, se ben gestita, nel clima e nel terreno adeguato, non possa comunque produrre vini di buona qualità. Fra l'altro Columella ci testimonia come, all'apice della loro viticoltura, i Romani avessero ben chiaro il concetto del legame fra equilibrio produttivo e qualità del vino (almeno negli ambiti più acculturati), un aspetto che sarà "riscoperto" solo parecchi secoli dopo.
La vite maritata in giro per l’Europa (e non solo).
Della lunga "carriera" della vite maritata all'albero in Italia ho già parlato qui. Uno dei grandi meriti di Roma è di aver diffuso la viticoltura in altre parti d'Europa, tramite i suoi legionari. Anche qui si è dato per scontato che fosse solo la vigna bassa. In realtà portarono anche quella maritata. Di essa si trova infatti traccia nella storia viticola di altri territori europei.
Ricordo anche che altri sistemi di allevamento a vigna alta, con pali o pergolati, furono diffusi sempre dai Romani. Questi sono ancora presenti in molte parti d'Europa.
In Francia si trovano diverse tracce dell'antica tradizione dell'alberata. Le vigne alte (in generale) sono dette hautains. Le alberate vere e proprie erano numerose in epoca Medioevale in numerosi territori, ad esempio in Piccardia oppure in Provenza (su alberi di noci). Nel XIV secolo, ci sono documenti che ne dimostrano la diffusione ad Avignone. Olivier de Serres in “Le théâtre d’agriculture et mesnage des champs” ne testimonia ancora la presenza nel XVII secolo, soprattutto nella Brie, Champagne, Borgogna, Berri, Alto Delfinato (su ciliegi), Savoia e nella valle del Rodano. Fino all'inizio del XX secolo si potevano ancora trovare soprattutto nell’Alta Savoia e nella zona dei Pirenei occidentali baschi. Sono sparite del tutto dopo la fillossera.
Nel Portogallo nord-occidentale è rimasta ancora oggi la tradizione della vigna alta, con pali ma a volte ancora l'alberata vera e propria, col nome di viña de enforcato, nella zona di produzione del vinho verde.
In Spagna l'alberata non ha lasciato tracce nella tradizione viticolta, anche se sappiamo che vi fu portata dai Romani. In particolare, c'è la testimonianza diretta di Columella, che l'introdusse nelle sue proprietà in Baetica. Sono rimaste solo altre forme di vigna alta in Galizia e nei paesi baschi.
L'impronta culturale antichissima è rimasta almeno in un proverbio molto diffuso, che dice: “no se le pueden pedir peras al olmo”, "non si possono chiedere pere all’olmo", citato anche da Cervantes nel Don Chisciotte. In Portogallo ne esiste uno molto simile: "Não pode o ulmeiro dar peras", "l'olmo non può dare pere". Si usano per esprimere il concetto di non poter chiedere a qualcuno qualcosa che gli è impossibile, ma la maggior parte degli spagnoli e dei portoghesi non sa perchè si dice così. L'origine si trova molto probabilmente nelle Sententiae di Publilio Siro (I sec. a.C.), che scrive: "Pirum, non ulmum accedas, si cupias pira", "non vai dall'olmo ma dal pero, se vuoi le pere". Per gli antichi Romani era più facile capire: l’olmo era il “marito” preferito della vite, per cui non poteva certo dare pere, se mai l'uva.
Se gli spagnoli abbandonarono l'alberata in madre patria, la portarono nel Nuovo Mondo, con altre forme di vigna alta. Avevano bisogno di vino per la Messa, per cui piantavano vigne ovunque andassero. Ci riuscirono anche in Bolivia, nella valle del Cinti, ad un’altitudine di 1900-2550 metri slm, dove era veramente difficile pensare di coltivarci la vite. Eppure risolsero il problema “rispolverando” l’antico sapere romano, con viti maritate ad alberi indigeni, anche altissimi, l'unico modo per preservare germogli ed uva in quel clima così difficile.
Se volete vedere ancora la vite maritata, potete trovarla da noi, a Guado al Melo.
(...continua...)
Bibliografia:
Paolo Braconi, "Vinea nostra. La via romana alla viticoltura".
Paolo Braconi, "Catone e la viticoltura intensiva".
Paolo Braconi, "In vineis arbustisque. Il concetto di vigneto in epoca Romana.
Paolo Braconi, "L'albero della vite: riflessioni su un matrimonio interrotto".
P. Fuentes-Utrilla et al., "The historical relationship of elms and vines", Invest. Agrar.: Sist. Recur For (2004) 13 (1), 7-15
Attilio Scienza, "Quando le cattedrali erano bianche", Quaderni monotematici della rivista mantovagricoltura, il Grappello Ruberti nella storia della viticoltura mantovana.
Attilio Scienza et al., Atti del Convegno "Origini della viticoltura", 2010.
Luigi Manzi "La viticoltura e l'enologia presso i Romani", 1883.
Dalmasso e Marescalchi, “Storia della vite e del vino in Italia", 1931-1933-1937.
Emilio Sereni, "Storia del paesaggio agrario italiano", 1961.
Enrico Guagnini, "Il vino nella storia", 1981.
Hugh Johnson, “Il vino, storia, tradizioni, cultura”, 1991.
Valerio Merlo, "Contadini perfetti e cittadini agricoltori nel pensiero antico", Alce Nero.
Roger Dion, "Histoire de la vigne et du vin en France, des origines au XIX siècle", Parigi, 1959.
https://fr.wikipedia.org/wiki/Hautain
Guado al Melo News 2019
Come nostra tradizione, ricordiamo il 2019 (che sta finendo) con una piccola pubblicazione.
Parte col momento dell'anno per noi cruciale, la vendemmia, ma poi ripercorre i principali accadimenti e alcune novità per l'anno nuovo.
La citazione di quest'anno è di Edoardo Hughes Galeano, giornalista e scrittore uruguaiano, una delle personalità più auterovoli della cultura latinoamericana contemporanea, deceduto nel 2015. Ci è piaciuta perchè sottolinea, con sottile ironia, cioè che è essenzialmente la funzione del vino da sempre: dare gioia ai nostri giorni, facendoci dimenticare gli affanni della vita, così come l'amore.
Qui lo trovate anche in formato pdf.
Il gusto del vino al tempo degli antichi romani
Finora ho parlato dell’epoca romana nel nostro territorio (qui e qui), del fatto che vi si producesse vino e che questo avesse una commercializzazione europea.
Com’era però questo vino?
Come possiamo immaginarci oggi il gusto dei vini romani?
Prima di tutto ricordiamoci che il periodo romano fu molto lungo e con grandi cambiamenti sotto tutti gli aspetti. I vini della Roma arcaica erano sicuramente molto simili a quelli dell’antica Grecia e a quelli Etruschi. In quelle epoche remote, le tecniche produttive limitate producevano vini dal gusto “difficile”, il cui consumo richiedeva sempre l’aggiunta di spezie, aromi, miele e quant’altro (vedete qui).
A Roma però vi fu una notevole evoluzione agronomica e tecnica nei secoli, arrivando ad una situazione produttiva ben diversa, che cercheremo di capire.
Per conoscere la viticoltura e la produzione di vino romano ci sono 5 opere fondamentali, i cui autori erano chiamati in passato i Rustici Latini (rustici in quanto parlano di agricoltura). Si tratta di Catone, Varrone, Columella, Plinio e Palladio, a cui farò riferimento spesso in questi post sul vino ai tempi di Roma antica.
Ciascuna delle loro opere “fotografa” un momento storico diverso della lunga evoluzione dell’agricoltura romana (stiamo parlando, per l’Impero d’Occidente, di circa tredici secoli). Capire una cultura, un’epoca, non può prescindere anche dal suo divenire, come giustamente ha sempre sottolineato Emilio Sereni: il paesaggio agrario non è statico ma estremamente sottoposto ad una viva e perenne elaborazione storica.
Aiuti meno specifici, più sporadici ma non meno interessanti, arrivano da altri autori non di settore. Si tratta di storici, geografi, letterati, ecc., come Strabone, Galeno, Cicerone, Virgilio, Orazio e tanti altri.
Purtroppo sappiamo anche che ci è arrivata solo una parte minima della letteratura antica. Ad esempio Varrone, nell’introduzione al suo De re rustica, elenca cinquanta opere agronomiche in greco a cui lui fa riferimento, ormai perdute.
IL MANAGER: Catone (Marcus Porcius Cato, detto Censorius, il Censore, Tusculum Lazio 234- Roma 149 a.C.), militare ed uomo politico, scrisse il suo De agri cultura (o De re rustica) in epoca Repubblicana, pubblicato nel 160 a.C. Si tratta di una serie poco strutturata di consigli pratici rivolti al pater familias, il proprietario agricolo, soprattutto per spingerlo a passare da un’agricoltura antica, di sussistenza (o poco più), a quella più redditizia dell’azienda agricola con fini economici. Siamo agli albori dell'allora nascente villa romana. Catone vuole riproporre i valori antichi e pone come modello del vero civis Romanus (il cittadino romano) il "vir bonus colendi peritus", l’uomo onesto e bravo coltivatore, che impugna la spada al momento del bisogno. Lo stile è scarno, con un latino con diversi arcaismi.
L'INTELLETTUALE: Circa 120 anni dopo, abbiamo la testimonianza di Varrone, Marcus Terentius Varro, uomo politico ed erudito (Rieti, 116 a.C. – Roma, 27 a.C.). Pubblicò il suo De re rustica nel 32 a.C. È un tempo di crisi per l'agricoltura, che segue il periodo delle guerre civili. Alla sua epoca la villa agricola è ormai evoluta verso forme latifondistiche sempre più grandi, a discapito dei piccoli agricoltori. È anche diventata un luogo di piacere, di raffinato svago e riposo per i ricchi proprietari. L’opera è sotto forma di dialogo fra lo stesso autore, la moglie e degli amici. I destinatari non sono certo i piccoli agricoltori ma i grandi latifondisti, con tante terre e vasti allevamenti, amanti del guadagno e del lusso. Anch'egli vagheggia a proposito del recupero della mos maiorum, i valori dei padri. Con nobile nostalgia, estetizza anche una vita di campagna idealizzata, più semplice ed appagante di quella cittadina, piena di vizio e corruzione.
L’AGRONOMO: facciamo un salto di circa 90 anni ed arriviamo al trattato De re rustica di Columella (Lucius Iunius Moderatus Columella, Cadice 4 d.C. - 70 d.C.), tribuno militare e poi agricoltore nelle sue proprietà in Lazio. Fu pubblicato tra il 60 e il 65 d.C., in epoca imperiale. Per la precisione e completezza è considerato il primo vero e proprio trattato agronomico della storia. A differenza di tutti gli altri, emerge il fatto che chi scrive si occupava veramente in prima persona della gestione e dei lavori di un’azienda agricola. In esso troviamo l’apice dell’evoluzione delle tecniche agricole romane, un’opera rimasta insuperata per secoli. È incredibilmente dettagliata e precisa per le pratiche viticole. Per le parti di vinificazione comprende invece consigli più frammentari. Secondo Columella l'agricoltore deve occuparsi personalmente della gestione della sua azienda, formandosi adeguatamente su testi validi. Colpisce, data la mentalità dell'epoca, la sua esortazione a trattare gli schiavi con umanità e famigliarità, consultandoli anche nelle scelte di lavoro.
L’ENCICLOPEDICO: contemporaneo di Columella, Plinio (Plinio il Vecchio, Gaius Plinius Secundus, Como 23- Stabia 79 d.C.) ha dato un notevole contributo col suo capolavoro Naturalis Historia, scritto nel 73 d.C. Si tratta di un compendio generale e vastissimo sulle conoscenze dell’epoca che spazia dalla geografia, all’antropologia, alla botanica, ecc. A volte però si lascia un po’ prendere la mano dal gusto del fantastico e dell’enfatizzazione. Plinio morì in una delle più grandi catastrofi ricordate nella storia, l’eruzione del Vesuvio del 79. Spinto dalla sua curiosità scientifica di osservare il fenomeno, morì per le esalazioni velenose. La sua opera è importante nell’ambito del vino perché fornisce diverse indicazioni sulla viticoltura e produzione vinicola della sua epoca, l’elenco di moltissime varietà di uve e di vini, oltre che l’accenno alla diffusione della viticoltura in Europa.
IL GENTILUOMO DI CAMPAGNA: facciamo un salto di circa duecento anni ed arriviamo all’ultimo grande autore di agricoltura di epoca latina, nel Tardo Impero (IV secolo d.C.), il Palladio (Rutilius Taurus Aemilianus Palladius). Era un ricco e nobile proprietario terriero, autore dell’Opus agriculturae o De re rustica, che è una sorta di calendario rurale, in cui spiega i lavori agricoli per i diversi periodi dell’anno. In realtà non apporta evoluzioni tecniche che vanno oltre Columella. È molto interessante però la sua testimonianza storica, oltre che da un punto di vista linguistico, con un latino già volgarizzato.
Esistono altri autori classici, come ad esempio Cassiano Basso (le Geoponiche, del VI secolo d.C.) dell’Impero Romano d’Oriente. Sono considerati meno interessanti perché privi di apporti originali. Sono spesso raccolte di citazioni dei precedenti autori. In Occidente, dopo Palladio, ci fu un vuoto di circa otto secoli, fino al primo ed unico testo agronomico medievale considerato rilevante, scritto nel 1304 dal bolognese Pietro De’ Crescenzi (anche lui attinge tanto dai Rustici Latini).
Quello di Columella comunque rimarrà il testo agrario di riferimento per l’Occidente almeno fino al '700.
A differenza degli Etruschi, abbiamo tante testimonianze dirette, come visto. Possiamo quindi dire che sappiamo molto sui vini di Roma, ma anche che non sappiamo tutto. Infatti questi scritti sono incredibilmente dettagliati per certi aspetti (si veda ad esempio Columella, con le sue lunghe e minuziosissime descrizioni su come propagare le viti) ma anche incredibilmente lacunosi su altri, soprattutto sulla parte dei lavori di cantina. A proposito delle uve e dei vini, abbiamo poco più che elenchi o suggestioni fugaci.
Diversi autori romani inseriscono qua e là l'elogio di un vino pregiato o il disprezzo per uno cattivo, con aggettivi che possono assomigliare a quelli che usiamo oggi, senza però darcene mai una descrizione esaustiva. A seconda dei casi, il sapore del vino è definito austerum, dulce, tenue, pretiosum (usato per vini vellutati, morbidi), solidum o consistens (corposo, strutturato), ardens, indomitus o generosus (per vini con gradazioni alcoliche importanti), fragrans. Si parla anche di vino suave (amabile, serbevole), vetulo (vecchio), fumosus (dal gusto affumicato). I vini effervescenti sono saliens, titillans, spumans, spumescens, resi tali dalla presenza delle bullulae, le bollicine nel tardo latino. Non mancano le critiche per un vino fugens (debole), asperum (acetico), acerbum, agre o acutum (troppo acido), vapidum (svanito), faeculentum (torbido), sordidum (di scarsissima qualità), ecc. Naturalmente c’erano anche all’epoca gli esperti assaggiatori, detti haustores.
Eppure nella nostra testa rimane l'idea dei vini Romani come degli intrugli per noi incomprensibili, aggiunti delle cose più strane. Ne siamo proprio sicuri?
Secondo Plinio i grandi vini si riconoscono proprio dal fatto di essere buoni tal quali. È quindi un peccato guastarli aggiungendovi altro. Viceversa, se il luogo produce vino debole o se le viti sono giovani, consiglia di intervenire in diversi sistemi per migliorare il gusto e prolungare la vita del vino.
Anche Columella dice chiaramente che i vini provenienti dalle uve migliori e dai migliori territori non hanno bisogno di nessun intervento di cantina particolare. Sembra di sentire un vignaiolo artigiano di oggi:
“Riterremo ottima qualunque qualità di vino sia in grado di invecchiare senza condimento, ad esso non si deve mescolare alcuna sostanza da cui il sapore naturale possa restare alterato. Le cose migliori sono infatti quelle che possono piacere per le proprie caratteristiche intrinseche”.
Columella però ci fa un “dispetto”: non ci spiega per filo e per segno come erano le vinificazioni dei grandi vini, quelli che non avevano bisogno di nessuna sofisticazione. Soprattutto le macerazioni sono un grande mistero. Dagli altri autori possiamo aspettarcelo, ma non da lui.
Forse è come un grande cuoco, che non pensa di scrivere tutti i passaggi delle sue ricette perché dà per scontata la loro conoscenza da parte dei lettori. O forse è più minuzioso nel descrivere la viticoltura perchè la conosce meglio, mentre sulla vinificazione riporta (più sinteticamente) l'esperienza di altri. Oppure semplicemente non attribuisce particolare importanza a questi passaggi. Non lo sapremo mai. Come Plinio, si sofferma a lungo solo sui consigli per la manipolazione e le conce dei vini meno pregiati.
Comunque, tutti i testi antichi fanno trasparire due tipologie di vini ben distinte, comune a tante epoche: quelli di alto pregio e quelli di basso livello.
Quelli di alto pregio e di alto prezzo sono descritti come vini molto piacevoli e ricercati, capaci di lunghissimi invecchiamenti.
Provenivano principalmente dalle tenute delle famiglie patrizie romane, situate fuori Roma o, soprattutto, nell’area dell’alta Campania. Questo è un elemento tipico della produzione viti-vinicola di tutti i tempi, compresi i nostri: i migliori vini non sono solo quelli più buoni, ma quelli che arrivano da produttori o zone produttive che riescono ad imporsi per motivi di potere e ricchezza, oltre che geografici. Non si può negare che nel passato spesso le tecniche produttive migliori erano esclusiva di chi, grazie alla propria posizione sociale, aveva un’istruzione più elevata e la possibilità di comperare le migliori tecnologie dell'epoca. Oggi le maggiori capacità economiche permettono essenzialmente un marketing molto più efficace, precluso alle aziende più piccole o comunque meno ricche e strutturate.
La produzione più vasta riguardava invece vini modesti, di basso pregio e costo. Non erano solo più semplici nel gusto, come succede oggi per i vini più economici. Erano vini che subivano numerose manipolazioni e correzioni in cantina e il cui gusto, comunque non eccelso, era spesso coperto con aromi, spezie, miele o mosto cotto, come nell’epoca arcaica.
Partendo da queste fonti per molti versi lacunose, gli storici del vino hanno fatto diverse ipotesi su come potessero essere i vini Romani di pregio. Antonio Saltini li esamina in "Storia delle pratiche di cantina, Enologia antica, enologia moderna, un solo vino o bevande incomparabili?".
Giorgio Gallesio nel 1839 ipotizzava che i vini romani di lusso fossero tutti vini liquorosi, tipo gli attuali vin santi, ma non ci sono evidenze dirette in questo senso.
Hugh Johnson ha scritto (“Il vino, storia, tradizioni, cultura”, 1991) che i vini di pregio romani erano tutti bianchi e dolci, perchè nessun autore ci descrive la fase di macerazione, anzi a volte affermano di togliere abbastanza rapidamente le bucce dopo la spremitura dei grappoli.
La sua ipotesi va però contro l’evidenza che i testi latini parlano ampiamente di vini di molti colori, anche più di quelli che distinguiamo oggi. Addirittura per i rossi si distinguono: sanguineum (sanguigno), purpureum (purpureo), niger o ater (nero o scuro). Poi ci sono album (bianco), fulvum (aranciato o ambrato?), pallidum (Galeno lo descrive come una via di mezzo fra il bianco e il fulvo), rubellum (rosato?). Comunque, in genere, non servono periodi troppo lunghi di macerazione per estrarre colore. Non giocano a favore di questa tesi anche alcune descrizioni dei vini già citate sopra. Ad esempio Orazio, nell’ode XXVII libro I, usa l’espressione severi falerni, che dà più l’idea di un Falerno austero piuttosto che dolce.
Inoltre, il lungo invecchiamento di un vino con residuo zuccherino è molto meno facile che non per uno secco, soprattutto nella produzione enologica del passato, a meno che non si tratti di un vino mutizzato (tecnica con la quale si blocca la fermentazione con l'aggiunta di alcool, che agisce da conservante grazie al fatto che impedisce lo sviluppo di ogni microrganismo; è tipica della produzione di vini dolci da invecchiamento come Marsala, Porto, Madera o diversi Muscat del sud della Francia). Questo tecnica era però sconosciuta ai Romani, per quanto c'è dato sapere; è stata introdotta solo dal XIII secolo.
Tim Unwin ha scritto nella sua “Storia del Vino “(1993) che i vini migliori di Roma erano adatti ad invecchiamenti lunghissimi perché sottoposti a lunghissime macerazioni ad alte temperature, così da estrarre tutto il colore ed il tannino possibile dalle bucce. In realtà sono ipotesi non supportate dalle fonti, come già spiegato sopra. Inoltre, questo sistema produttivo porterebbe ad altri inconvenienti non proprio di alta qualità. In realtà per un lungo invecchiamento è molto più importante la componente acida del vino, che dipende soprattutto dagli equilibri compositivi delle uve.
Saltini è più d'accordo con Dalmasso e Marescalchi (“Storia della vite e del vino in Italia", Milano, 1931-1933-1937), i quali sostengono che sarebbe comunque molto difficile per noi immaginare dei vini che hanno subito l’affumicamento nell’apotheca e i tempi di invecchiamento pluridecennali, se non centenari, che spesso gli autori latini vantano dei vini più prestigiosi. Peggio ancora, al nostro gusto, dovrebbero risultare le aggiunte "strane" ai vini meno pregiati, come l’acqua di mare o altro.
Secondo me, rimangono comunque tante domande senza risposta. Questo passaggio nel caldo dell'apotheca, cambiava il gusto del vino o serviva solo per scaldare le anfore? Questi tempi d'invecchiamento incredibilmente lunghi sono veri o solo enfatizzazioni per lodare un vino?
Inoltre, alcuni degli interventi romani di cantina sarebbero un po' da riconsiderare. Ad esempio, in tutti testi che parlano di vino romano si trova sempre la notizia che lo mettevano in anfore impeciate o proprio vi aggiungevano pece. Ho sempre pensato, per ignoranza, alla pece come derivato del catrame. Mi verrebbe ben difficile pensare di bere qualsiasi cosa che abbia questo sapore o ne sia stato a contatto! Ho però approfondito, grazie a Luigi Manzi ("La viticoltura e l'enologia presso i Romani", 1883) e andando a cercare le analisi moderne degli archeologi su questi composti (Chioffi), scoprendo che in antichità il termine ha anche un altro significato, oggi in disuso o poco conosciuto. Il termine pece, in questo caso, era usato per indicare le resine di alcuni alberi.
Vedremo comunque questi aspetti nel dettaglio più tardi, così come vi spiegherò che altre aggiunte strane in realtà si avvicinano molto ad alcune sofisticazioni del vino di epoche anche recenti.
Comunque, se il gusto di questi vini rimane per noi un grande mistero insondabile, così come alcuni aspetti della loro vinificazione, possiamo però dire, col Manzi, che essi raggiunsero sicuramente elevati livelli produttivi, data la cura minuziosa del lavoro sia in vigna che in cantina che traspare da tutti questi testi.
Saltini non è d'accordo col Manzi su questo punto, ma io credo che sia più facile comprendere i vini romani per uno studioso dell'Ottocento rispetto a noi. I sistemi antichi di produzione erano sicuramente più vicini a quelli della sua epoca che ai nostri, senza considerare tutti i nostri pregiudizi. Ad esempio Columella consiglia di vinificare, per i grandi vini, solo uva sana e ben coltivata. Conoscevano molto bene già l’importanza della temperatura in fase di vinificazione, spostando le anfore al caldo o al freddo a seconda del momento o della tipologia dei vini. Producevano già vini frizzanti, sapevano già dell'importanza della pulizia di attrezzi e cantina, ecc. Naturalmente mancava però loro tutta quella conoscenza sugli aspetti microbiologici, la cui scoperta farà da spartiacque nel XIX secolo per la nascita del vino moderno.
Mettendo insieme tutti questi elementi, cosa possiamo pensare dei migliori vini romani?
Credo che possiamo azzardare di avvicinarli ai vini di lusso di epoche più recenti, che avevano un livello abbastanza simile di conoscenze e di sviluppo tecnico in vigna e in cantina. Potrebbero quindi non essere così diversi dei migliori vini prodotti fra il Seicento e l'Ottocento.
Sono i corsi e i ricorsi storici. Consideriamo che le grandi conoscenze dei Romani andranno quasi del tutto perse nel Medioevo, anche se in parte conservate nelle biblioteche dei monasteri. Molte di queste tecniche saranno poi “riscoperte” nei secoli successivi, soprattutto dal Seicento in poi. Di fatto, per tutte queste epoche non ci sarà un cambiamento sostanziale rispetto agli apici raggiunti in epoca Romana. Il vero ed importante salto in conoscenze e tecnologia, che ci porterà verso la produzione del vino moderno, partirà solo nella seconda parte dell'Ottocento.
Ci possiamo immaginare la piccolissima categoria dei vini di lusso di queste epoche come frutto di una produzione molto curata in vigna e da buone tecniche di cantina, anche se molto limitate. Come ci raccontano le fonti storiche, erano caratterizzati da buoni aromi, corpo, probabilmente ottima acidità, che li rendeva adatti a lunghi invecchiamenti. Questi erano possibili grazie ai contenitori (le anfore) ben protetti dagli scambi gassosi grazie ai rivestimenti interni con resine, le quali coprivano anche il tappo in sughero. Questa capacità d'invecchiamento sarà riproponibile solo dal '600 in poi, con l'introduzione delle bottiglie in vetro chiuse dal tappo in sughero, che saranno però usate in modo diffuso dall'Ottocento.
Molto probabilmente avevano note ossidative più o meno spinte e un più o meno intenso spunto acetico, come era comune nei vini fino ad un passato neanche troppo lontano. Ai vini romani dobbiamo aggiungere qualche aroma a noi sconosciuto, come i sapori resinati (più o meno intensamente) rilasciati dai rivestimenti dei contenitori, forse qualche nota affumicata. Sono aspetti gustativi per noi difficili, ma accettabili per un palato antico abituato ad essi.
Il consumo del vino a Roma: sobrietà o vizio?
Nel nostro immaginario spesso associamo il vino dell'epoca romana ai banchetti, con ubriachi in toga che vomitano anche l’anima, complici tanti film o rappresentazioni che esaltano i vizi del mondo antico.
In realtà, è vero che il vino era consumato tanto in epoca romana, ma in genere in modo sobrio. La cultura prevalente era quella che, più o meno, è rimasta in Italia: il vino si beveva quasi esclusivamente ai pasti e senza esagerare, sempre diluito con acqua (per stemperate le alte gradazioni dell'epoca). Le uniche eccezioni, come oggi, erano le feste, i banchetti. Comunque, gli eccessi di certi ricchi non erano certo la norma.
Il vizio dell’ubriachezza, detto temulentia (da temetum la parola più antica per vino in etrusco e latino) era piuttosto mal visto socialmente. Ad esempio, Ottaviano accusò spesso Marco Antonio di amare troppo il vino, utilizzando quest'arma per screditarlo politicamente. Che fosse vero o no, la nomea di ubriacone gli è rimasta appiccicata nella storia.
C'è stata comunque una grande evoluzione del consumo nei secoli. Nelle epoche più antiche il vino non era abbondante, sia perché la produzione era ancora limitata, sia per via del clima più rigido (vedete qui i cambi climatici di epoca romana). Per i Romani più antichi il vino era quindi un bene di lusso, riservato quasi solo ai banchetti, per eventi sociali e religiosi. Col tempo e l'espansione produttiva, verrà introdotto sempre più nei pasti comuni. Seneca racconta che gli avi di solito si concedevano un po’ di vino solo alla fine del pasto e consideravano dei ghiottoni quelli che lo bevevano anche durante.
I costumi rigidi della Roma più antica vietavano il vino alle donne. Il vino era associato alla perdita del controllo, quindi al rischio di adulterio da parte della moglie. Ai tempi di Romolo, tale Egnazio Mecenio uccise la moglie a bastonate perché beveva vino e fu addirittura lodato per la "punizione esemplare". Più avanti nella storia di Roma, le donne non rischiavano più la vita solo per un po’ di vino, ma per le signore "per bene" era comunque accettato socialmente solo un consumo moderato. Le cronache giudiziarie riportano, ad esempio, il caso di una donna che venne multata dal giudice, con la perdita della dote, perché aveva bevuto di nascosto più vino "di quanto fosse ritenuto necessario per la salute".
Nel tempo comunque la produzione di vino aumentò sempre più, arrivando a grandi produzioni di vino di bassa qualità per le masse e una piccola élite di vini raffinati per i ricchi, ed i costumi si fecero sempre meno severi. Il consumo di vino divenne la consuetudine a tutti i pasti. Nelle Satire di Varrone (I sec. a.C.) si scherza sul pasto senza vino, chiamandolo “prandium caninum”, il pasto dei cani (che non bevono di certo vino).
Arriviamo quindi all'epoca Imperiale, con gli eccessi celebrati nei tanti film in toga, dei quali Plinio dice di vergognarsi anche dal riferire. Nei casi più estremi, si poteva arrivare ad infilarsi una penna in bocca per indurre il vomito e poter ricominciare a bere e a mangiare.
Durante i banchetti, che non erano necessariamente sempre sfrenati, era uso brindare agli Dei, agli amici, agli innamorati o al potente di turno. C’era anche l'uso del nomem bibere: bere tanti bicchieri quante erano le lettere del nome dell’amata o del potente a cui si dedicava il brindisi.
Plinio riporta anche l’uso di “bere le corone”, cioè gli amanti si scambiavano coppe di vino con dentro i petali delle loro corone di fiori ed erbe. Queste corone vegetali, diventate di uso comune ai banchetti, erano nate dalla credenza che, portandole, avrebbero impedito l'ubriachezza. Nel tempo diventarono anche oggetti di lusso, fatte con i fiori più rari e profumati.
Fra le tante leggende nere che circolavano su Cleopatra, si racconta di quella volta che, offesa da Antonio, provò ad avvelenarlo, offrendogli la coppa con i petali della sua corona, che erano stati intrisi di veleno. All'ultimo però si pentì e lo bloccò, prima del sorso fatale. Per dargli comunque una lezione, fece bere la coppa avvelenata, davanti a lui, ad un condannato a morte.
Bibliografia:
Columella, "De re rustica" , 65 d.C.
Luigi Manzi "La viticoltura e l'enologia presso i Romani", 1883
Dalmasso e Marescalchi, “Storia della vite e del vino in Italia", 1931-1933-1937
Emilio Sereni, "Storia del paesaggio agrario italiano", 1961
Enrico Guagnini, "il vino nella storia", 1981
Hugh Johnson, “Il vino, storia, tradizioni, cultura”, 1991
Tim Unwin, “Storia del Vino “, 1993
Antonio Saltini, "Storia delle pratiche di cantina, Enologia antica, enologia moderna, un solo vino o bevande incomparabili?", Rivista di Storia dell'Agricoltura a. XXXVIII, n. 1, giugno 1998
E. Chioffi, "Anfore, archeologia marina", Egittologia.net
Il nostro Atis Bolgheri DOC Superiore a sostegno di Amnesty International
Per gli amici di Milano e dintorni: come ogni anno da oltre un decennio ormai, vi inviatiamo ad aiutarci a sostenere Amnesty International tramite la fiera enogastronomica "Una buona ragione per peccare di gola".
Noi regaliamo i nostri migliori vini e voi li acquistate: insieme possiamo dare un contributo alle campagne di Amnesty International a difesa dei diritti civili nel mondo.
Troverete il nostro Atis Bolgheri DOC Superiore 2015, sia in formato 750 ml che Magnum. Ci sono anche vini di altre grandi aziende italiane, oltre che prodotti gastronomici di alta qualità. Potete trovare l'elenco su
https://www.amnesty-lombardia.it/fiera-enogastronomica-2/
Dal 11 al 15 dicembre c/o i locali g.c. dell'Unione Femminile Nazionale in corso di Porta Nuova 32, Milano.
Sabato 7 dicembre, a Mantova, Attilio Scienza racconta la Vigna di Leonardo
CASA DEL MANTEGNA
via Acerbi 47 – Mantova
nell’ambito della mostra
SIMILITER IN PICTURA. Attorno a Leonardo
INCONTRO
Prof. Attilio Scienza
LA VIGNA DI LEONARDO
Cronaca di una scoperta
sabato 7 dicembre 2019, ore 17
a seguire degustazione di vini della Cantina Guado al Melo:
Jassarte 2015, un vino da complantazione
Sabato 7 dicembre, alle ore 17, Container Lab Association invita a partecipare presso la Casa del Mantegna di Mantova all’incontro “LA VIGNA DI LEONARDO. Cronaca di una scoperta”, tenuto dal professor Attilio Scienza all’insegna del binomio vino e cultura.
L’appuntamento rientra tra le iniziative collaterali della mostra “SIMILITER IN PICTURA. Attorno a Leonardo”, proposta fino al 6 gennaio nell’ambito delle celebrazioni per i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci.
La lectio è preceduta dall’introduzione “Arte e vino, passione e investimento” a cura di Antonio Urbano, CEO di VintHedge, fondo di investimento a favore del settore enologico italiano; l’intervento è teso ad evidenziare i punti di contatto e le possibilità di investimento in due settori che rappresentano nel mondo due grandi eccellenze del made in Italy, il settore artistico-culturale e quello vitivinicolo.
Al discorso si riallaccia quindi il professor Attilio Scienza, massimo esperto a livello internazionale del DNA della vite, che illustrerà i sorprendenti risultati di un coraggioso progetto iniziato nel 2004 e culminato in occasione di Expo 2015, con la riapertura al pubblico della celebre Vigna di Leonardo presso la Casa degli Atellani, in Corso Magenta a Milano. La vigna è oggi visitabile per volontà della Fondazione Portaluppi e degli attuali proprietari di Casa Atellani, grazie agli studi dell’enologo Luca Maroni e al contributo decisivo dell’Università degli Studi di Milano nelle persone della genetista Serena Imazio e del professor Attilio Scienza.
La storia della vigna va dal XV secolo agli anni Quaranta del XX secolo, per poi essere dimenticata fino alle soglie del Duemila, e rappresenta una testimonianza importante attorno alla figura del grande genio toscano, sullo sfondo della Milano sforzesca in un intreccio tra arte e vino. Seguendo la vicenda del suo vigneto si delinea un Leonardo naturalista, attento ai cambiamenti climatici e alle loro ripercussioni sulla coltivazione; Leonardo da Vinci è appassionato di vini, ma è anche un accorto vignaiolo, fin da quando Ludovico il Moro sul finire del 1498 gli dona circa un ettaro di filari nella zona di Porta Vercellina, presso la dimora degli Atellani, dove l’artista era ospite mentre eseguiva uno dei suoi più celebri capolavori, l’Ultima Cena nel vicino refettorio della Chiesa di Santa Maria delle Grazie.
Della sua vigna - unico bene immobile citato nel testamento del Maestro - pare addirittura fosse possibile trovare traccia anche nel Cenacolo, dove un grappolo d’uva con la sua caratteristica foglia compariva in un cesto di frutta posizionato di fronte ad un apostolo, dettaglio andato perduto a causa dei danni provocati dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Ad ogni modo, del medesimo grappolo con foglia troviamo tutt’oggi riscontro in un altro caposaldo della storia dell’arte, la Canestra di frutta del Caravaggio, che lo ritrae riconoscibilissimo tra mele, pere e fichi.
Le suggestioni dal mondo pittorico vanno quindi a supportare gli studi di laboratorio intrapresi dalla Facoltà di Scienze Agrarie e Alimentari dell’Università degli Studi di Milano, che recupera il materiale organico sopravvissuto, sotto circa un metro e mezzo di terra e sedimenti, dalla vigna originaria distrutta nel 1943, durante la guerra.
I test confermano che i reperti rinvenuti appartengono alla specie vitis vinifera, ossia la comune vite da vino europea; da qui viene ricostruito il profilo genetico completo del vitigno, sottoponendo i campioni di DNA, purificati e aumentati nella loro concentrazione con la Whole Genome Amplification, a diverse sofisticate analisi, dal barcoding ai marcatori molecolari microsatellite, per concludere che il vitigno leonardesco appartiene a un gruppo delle Malvasie, molto in voga all’epoca: la Malvasia di Candia Aromatica, proveniente dal paese di Candia Lomellina, vicino a Pavia.
Il prof. Scienza guiderà quindi il pubblico nell’appassionante viaggio della restituzione dell’anima genetica alla Vigna leonardesca, tra storia e leggenda, erbari e curiosità scientifiche, dal Quattrocento ad oggi.
Al termine della conferenza sarà offerta una degustazione di Jassarte 2015, un vino unico, nato da singola vigna con in complantazione 3 varietà rosse diverse.
L’evento è, inoltre, occasione per ammirare gli ottanta lavori pittorici di Luca Bonfanti, Enzo Rizzo e Togo, ispirati alla produzione artistica e alle scoperte scientifiche di Leonardo da Vinci, per la mostra “SIMILITER IN PICTURA. Attorno a Leonardo”, curata da Matteo Galbiati, Alberto Moioli ed Elena Pontiggia, i cui testi critici sono presenti nel catalogo dell’esposizione edito da Scripta Maneant.
Completano il percorso espositivo trenta riproduzioni di macchine vinciane realizzate da Giorgio Mascheroni, affiancate ad installazioni video e touch screen che integrano l’osservazione con contenuti didattici, a cui contribuisce anche un’utile applicazione smartphone interattiva.
Cenni biografici relatori. Attilio Scienza è attualmente professore di Viticoltura e presidente dei corsi di laurea di primo livello in Viticoltura ed Enologia all’Università di Milano; è membro del consiglio di laurea per il Dottorato in Biologia Vegetale e fa parte del comitato scientifico editoriale delle testate “Journal International des Sciences de la vigne et du vin” di Bordeaux, “Journal of Wine Research” di Londra, “Vignevini” di Bologna, “Rivista di Viticoltura ed Enologia” di Conegliano Veneto e di “Vitis” di Geilweilerhof. A partire dal 1991 riceve numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali per la ricerca scientifica nel campo della viticoltura e per il miglior libro di ricerca sui temi del vino e della vite. Ha scritto oltre 350 articoli e documenti di ricerca scientifica sulla viticoltura, pubblicati su testate di settore e riviste, e divulgati in conferenze accademiche in Italia e all’estero. È membro corrispondente di fama mondiale dell'Accademia dei Georgofili, che promuove lo studio di agronomia, silvicoltura, agricoltura ed economia tra gli studiosi. Viaggia in tutto il mondo sia per motivi accademici che per consulenze nel campo del vino e della viticoltura, ed è stato consulente di vari produttori di vino nazionali.
Antonio Urbano è tra i co-fondatori di VintHedge Partnership. Con oltre 20 anni di esperienza nell’Investment Banking tra Londra e Milano, ricopre ruoli sempre più senior nei mercati dei capitali azionari con Julius Baer, Société Générale Equities International, Carnegie Securities e Yamaichi Securities. Inizialmente specializzato nell’intermediazione azionaria sulle vendite istituzionali e sui banchi commerciali, negli anni successivi si focalizza sulla finanza aziendale. Inoltre, negli anni ’90 avvia e gestisce le operazioni commerciali londinesi per l’intermediazione italiana di AFV Sim e, recentemente, è co-fondatore di Kepler Capital Markets, una delle principali banche di investimento indipendenti europee. In Kepler è amministratore delegato della sede italiana e membro del comitato esecutivo europeo.
Coordinate evento
Titolo LA VIGNA DI LEONARDO. Cronaca di una scoperta
Relatori Attilio Scienza, Antonio Urbano
Data sabato 7 dicembre 2019, ore 17
Coordinate mostra
Titolo SIMILITER IN PICTURA. Attorno a Leonardo
A cura di Matteo Galbiati, Alberto Moioli, Elena Pontiggia
Organizzata da Container Lab Association - www.containerlab.eu
Sede Casa del Mantegna, via Acerbi 47, Mantova
Date 20 ottobre 2019 - 6 gennaio 2020
Orari mercoledì-sabato ore 10-12.30 e 14-18.30 | domenica ore 10-12.30 e 14-19
Chiuso: lunedì e martedì, 24 e 25 dicembre 2019, 1° gennaio 2020
Aperture straordinarie: 8, 26, 31 dicembre 2019 e 6 gennaio 2020
Ingresso € 5 adulti | € 3 ridotto (docenti, militari e forze dell’ordine non in servizio, over 65, gruppi di almeno 15 adulti, possessori Mantova Card, gruppi di scolaresche di ogni ordine e grado e possessori della Mantova card junior) | Gratuito (under 6, disabili, accompagnatori e/o famigliari, membri I.C.O.M., guide turistiche, 1 accompagnatore per gruppo di adulti, max 2 accompagnatori per gruppi scolaresche, giornalisti)
Visite guidate alla mostra (comprese nel biglietto d’ingresso): venerdì, sabato e domenica con partenza ogni ora dalle 10 alle 17, durata 1 ora circa - mercoledì e giovedì su prenotazione, contattando l’Associazione Flangini: Tel. +39 347 4533449 - associazione.flangini@gmail.com
Catalogo Scripta Maneant con testi critici di Matteo Galbiati, Alberto Moioli ed Elena Pontiggia
Info pubblico Casa del Mantegna
Tel. +39 0376 360506 - info@casadelmantegna.it - www.casadelmantegna.it
Info per visite guidate alle macchine vinciane e laboratori didattici
Alkémica Cooperativa Sociale Onlus, via Norsa 4, Mantova
Tel. +39 0376 225724 - +39 333 5669382 - alkemica.coop.onlus@gmail.com
Instagram @similiterinpictura
Bolgheri e l'epoca romana (2): la villa bolgherese
Ho raccontato qui delle mutazioni del nostro territorio, passando dall'epoca etrusca a quella romana, ma anche di come non fosse cambiato così tanto il tessuto culturale e sociale, compresa l'agricoltura.
Vediamo ora meglio come erano fatte le villae locali e di come qui si concluse l'era antica.
Le peculiarità della "villa bolgherese".
Nell'ager Volaterranus nacquero numerose villae, le aziende agricole dell'epoca, dedicate alla produzione di vino, olio d'oliva e cereali. Solo nell'area più vicina a noi se ne sono trovate ben 19, nate fra il II sec. a.C. e la prima metà del I sec. d.C., sopravvissute fin quasi alla fine dell’era antica.
Come si vede dalla mappa a lato (le ville sono i quadratini), la maggior parte si sviluppò nella pianura intermedia, lontane dalla costa acquitrinosa. Si pensa che fossero, con gli altri insediamenti, in prossimità del tracciato antico della via Aurelia. Altre sono nella pianura più alta o sulle prime colline (a destra nella mappa). Sono le stesse aree delle aziende agricole e vitivinicole di oggi. Non diamolo però per scontato: fra la prospera epoca Romana e la situazione attuale ci sono stati in mezzo molti secoli in cui il territorio era decisamente diverso, come vedremo.
Le villae romane più conosciute di altri territori italiani del centro e del sud, soprattutto quelle in Campania (di proprietà delle famiglie patrizie romane), furono aziende agricole anche molto ricche e redditizie. Erano molto specializzate e basate sul sistema schiavisitico. Il loro periodo di prosperità fu però relativamente breve. Con la concentrazione delle ricchezze di Roma in sempre meno mani, divennero latifondi sempre più grandi. L'ingrandimento fece però diventare sempre meno conveniente investire in agricoltura specializzata. Inoltre furono messe in crisi dalla concorrenza delle colonie non italiane e non ressero al minor prezzo di grano, olio e vino provenienti dall’Africa, dalla Spagna e della Gallia. Per questi motivi, oltre che per la crisi del sistema schiavistico, molte di esse scomparvero entro la fine del II sec. d.C. Altre si convertirono ad una produzione estensiva di cereali o, soprattutto, al pascolo e all’allevamento, con una degradazione del paesaggio agricolo sempre più spinta.
Quelle del nostro territorio, come di altri marginali, furono invece poco specializzate, economicamente più modeste, ma molto più durature. Queste ville sono infatti sopravvissute molto a lungo, fino alla fine (o quasi) dell'era antica, in genere fino al IV-V secolo d.C., in un caso addirittura fino al VI. Probabilmente fu proprio la loro dimensione più locale a renderle maggiormente longeve, meno soggette alla concorrenza esterna.
I resti trovati delle villae dell'ager Volaterannus coprono superfici che vanno dai 2.000 ai 10.000 mq. Non sappiamo invece, se non per ipotesi, quanto fossero grandi i terreni agricoli al loro servizio.
Ricordo che la villa comprendeva diverse parti, più o meno grandi, indicate con nomi legati alla loro funzione. La villa urbana non stava in città, ma era la parte riservata all'abitazione padronale; la villa rustica comprendeva invece gli alloggi dei lavoratori, le stalle e i magazzini degli attrezzi. La parte detta fructuaria comprendeva i magazzini dei prodotti agricoli, le cantine, i granai ed i fienili.
Purtroppo delle numerose villae di Bolgheri e dintorni è rimasto poco o nulla. Una delle poche con alcune parti conservate è la Villa di San Vincenzino, , che è stata anche oggetto di scavi e studi approfonditi. Si trovo poco più a nord di Bolgheri, vicino alla foce del fiume Cecina (oggi Marina di Cecina). Era di proprietà della famiglia già menzionata dei Caecinae.
A lato vi è la ricostruzione della sua planimetria. Nella parte in alto di essa si vede anche la cantina, con i grandi dolii interrati in fila (le anfore da vinificazione). Sotto vi è una elaborazione in 3D ed il video che permette di esplorarla.
I resti trovati delle villae dell'ager Volaterraneus comprendono materiale da costruzione (laterizi, tegole, pietre, ecc.), dolii e anfore di diverse tipologie. A differenza di quelle di altre zone, che nel tempo divennero anche dimore raffinate (nella parte della villa urbana), qui è raro trovare parti decorative lussuose. Forse erano meno usate come residenze dai proprietari, più dedicate a fini propriamente agricoli.
L’abbellimento è stato trovato solo in pochissimi casi, comunque avvennuto in epoca molto più tarda che altrove, solo dal II sec. d.C. ( altrove questa evoluzione era già avvenuta dalla fine del I sec. a.C.). Un esempio importante in questo senso è la Villa del Mosaico di Castagneto Carducci (vedi box). Anche la villa di San Vincenzino fu aggiunta di ricche decorazioni solo dalla fine del II secolo e, in più fasi successive, fino al V. Forse vi fu una scoperta tardiva dei piaceri della vita di campagna, piuttosto che un disamore per quella di città. Forse non è un caso che questo nuovo corso corrisponda al periodo storico della decadenza di Volterra.
La Villa del Mosaico di Castagneto: Ai piedi della stessa nostra collina di Segalari, un po' più verso Castagneto, fu ritrovata a metà Ottocento parte di una sontuosa villa romana a due piani. Fu chiamata Villa del Mosaico per via dei pavimenti a mosaico ben conservati. Risaliva all’età augustea (I sec. d.C.), mentre i mosaici erano il frutto di una ristrutturazione successiva, del II sec. d.C.
Data la mentalità dell'epoca del ritrovamento, i mosaici furono staccati e portati al Museo Guarnacci di Volterra. I resti della villa furono lasciati all’abbandono e sono ormai completamente scomparsi (forse le pietre furono usate per scopi costruttivi, come probabilmente per i resti di tante altre villae locali). I mosaici si possono vedere ancora oggi nelle sale del primo piano del museo, anche se non ne viene raccontata la storia e la provenienza. Almeno però si sono salvati.
Diverse delle caratteristiche particolari finora elencate delle ville dell'ager Volaterranus (la scarsa propensione economica, i proprietari di discendenza etrusca, la mancanza di una vita in villa del tipico stile romano, il rapporto particolare con le genti dei villaggi e dei piccoli insediamenti, ecc.) hanno fatto pensare agli archeologi che, almeno agli inizi, queste avessero un significato diverso rispetto alla mentalità romana.
Nella cultura romana la villa nacque come un investimento economico votato all’agricoltura intensiva, come racconta Catone nel II sec. a.C. Poi evolvette, come ci dice Varrone circa 120 anni dopo, come luogo di svago intellettuale e relax dei proprietari, un rifugio dalle tensioni sociali e politiche della vita di città.
Per i domini locali, dal nome romanizzato ma forse ancora molto legati alla cultura dei loro antenati, la villa all'inizio sembra rappresentare più un nuovo simbolo prestigioso di potere e di controllo del territorio, come lo erano stati i grandi tumuli tombali dei loro avi etruschi. La romanizzazione culturale sarà completata solo qualche secolo più avanti.
La commercializzazione del vino locale.
Anche se non erano villae molto ricche e sfarzose, producevano prodotti agricoli che rappresentavano un'ottima risorsa economica per il territorio: soprattutto vino, olio d'oliva e cereali. In parte erano consumati localmente ed in parte esportati, grazie ad una buona viabilità (la via Aurelia) e diversi scali portuali. Arrivavano a Volterra soprattutto via nave, lungo il fiume Cecina. Per Roma ed altre destinazioni partivano invece dal porto di Vada e da scali minori lungo la costa.
A noi interessa soprattutto il vino, del quale non sappiamo molto. Si è però potuta tracciare la sua commercializzazione, grazie al riconoscimento delle anfore di trasporto di produzione locale.
Sembra che all’inizio il commercio interessasse l'area nord dell’Etruria. Dal I sec. a.C. invece si espanse: sono state trovate anfore di vino dell'ager Volaterranus sulle coste liguri, in quelle della Gallia mediterranea, lungo le vie fluviali del Rodano e del Reno. Dal III al VI sec. d.C. il commercio tornò ad essere principalmente locale, ma con ancora ritrovamenti di anfore a Roma e in Corsica.
La crisi e il disfacimento di un territorio.
Già nel III secolo vi fu una crisi generale dell’Impero che nel nostro territorio non ebbe però grandi ripercussioni. Ne soffrirono più le piccole fattorie (infatti diverse scomparvero), meno le villae e i villaggi che mostravano attività minerarie. La vera crisi (di tutto l’impero Romano d’Occidente) iniziò fra il IV e il V sec., con difficoltà economiche e politiche sempre più importanti.
Il degrado e l’incuria del territorio si diffusero sempre più anche a causa di uno spopolamento progressivo, dovuto all’inizio delle incursioni barbariche. Le prime furono condotte dai Visigoti (410-412), poi dai Vandali. Seguì poi la guerra greco-gotica, con le sue distruzioni, carestie e pestilenze, per finire con l’invasione longobarda (fine del VI sec.).
L’incuria e l’abbandono del territorio portarono al progressivo dilagare delle aree paludose costiere. La Maremma si riappropriava dei terreni che le erano stati strappati da millenni di lavori di bonifica e cura. E così resterà per molti secoli a venire.
Gli insediamenti umani diminuirono progressivamente ed i pochi rimasti si spostarono sempre più verso l’entroterra collinare. Da un lato le popolazioni sfuggivano al dilagare delle paludi costiere. Dall’altro si allontanavano dalla via Aurelia che, da risorsa, era ormai diventata la porta d’ingresso al territorio degli incursori.
La stessa via Aurelia si stava già degradando da tempo. Nel Tardo Impero molti tratti delle vie romane erano ormai impraticabili, senza più nessuna manutenzione da parte di governi sempre più deboli. Il già citato Namanziano, agli inizi del V sec., racconta che aveva dovuto affrontare il viaggio verso la Gallia per nave proprio a causa delle pessime condizioni dell'Aurelia:
“Ho scelto il mare perché le strade sono, in pianura, allagate dai fiumi e in collina piene di sassi. Da quando l’ager Tuscus e la Via Aurelia sono stati messi a ferro e fuoco dai Goti non c’è più fattoria che controlli la selva, non c’è più ponte che negozi un fiume, meglio contare sulle mie vele e prendere la via del mare.”
La viabilità di pianura venne pian piano sostituita da nuovi percorsi posti più nell’entroterra, a mezza collina o di crinale, lontani dall’aria malsana delle paludi, seguendo anche lo spostamento degli insediamenti umani. Nacque così una viabilità alternativa più disorganica, che rispondeva soprattutto ad esigenze locali. Questo si rifletterà anche nella nascita delle nuove fondazioni medioevali di abbazie, villaggi e castelli, che avverrà ormai solo nelle terre più alte e di collina. Del Medioevo però parleremo un’altra volta.
La gloriosa e lunga era antica si chiudeva così, su un territorio ormai quasi spopolato e distrutto.
Dopo questo tuffo nella storia locale, nei prossimi post cercheremo di capire meglio come erano i vini di questa epoca e come erano prodotti.
Bibliografia:
"Storia del paesaggio agrario italiano", Emilio Sereni (1961)
"Analisi di Agricoltura – la viticoltura e l’enologia presso i Romani", Luigi Manzi, 1883, Roma tipografia Eredi Botta.
"Castello di Donoratico. I risultati delle prime campagne di scavo (2000-2002)" A cura di Giovanna Bianchi, Quaderni dell’università degli Studi di Siena.
"Populonia e la romanizzazione dell'Etruria Settentrionale", Franco Cambi et al., Atti del Convegno Internazionale Sapienza Università di Roma, 7-9 maggio 2012, 2013.
"Le stele funerarie d'età imperiale dell'Etruria settentrionale", di Giulio Ciampoltrini, in Prospettiva, 30, 1982, pp. 2-11
"Ricognizioni archeologiche nel territorio di Volterra: la pianura costiera" di Alessandra Saggin and Nicola Terrenato, Archeologia Classica, Vol. 46 (1994), pp. 465-482 (18 pages), Published by: L’Erma di Bretschneider
"Sepolture tardoantiche in Toscana (III - VI d.C.): i corredi e le epigrafi", di A. Costantini, Published in "Studi Classici e Orientali", 60, 2014, pp. 99-161
Il Museo Archeologico di Rosignano Marittimo - "Risorse e insediamenti nell’Etruria settentrionale Costiera" - Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Polo Museale della Toscana, Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Pisa e Livorno, Comune di Rosignano Marittimo, Museo Civico Archeologico Palazzo Bombardieri
Pubblicazioni varie del Museo Archeologico del Territorio di Populonia e dei Parchi della Val di Cornia.
“Il paesaggio come risorsa – Castagneto negli ultimi due secoli”, Mauro Agnoletti, 2009, Ed. ETS.
https://www.museoarcheologicocecina.it/il-museo-archeologico/la-villa-romana-di-san-vincenzino/
Bolgheri e l'epoca romana (1): l'ager Volaterranus
Nel corso del III secolo a.C. il territorio passò sotto la dominazione romana, in modo non così traumatico come altrove (come poi racconterò).
La produzione locale di vino in questa epoca è ben documentata, grazie al ritrovamento dei resti di numerose villae, le aziende agricole di allora, che producevano appunto vino, olio d'oliva e cereali. Erano localizzate nella stessa area dove sorgono la maggior parte delle aziende odierne: la fascia pedecollinare e di alta pianura fra Bolgheri e Castagneto.
Un'anfora da vino in argento:
L’oggetto di epoca romana più iconico della nostra costa è una preziosa anfora da vino in argento, un pezzo unico della seconda metà del IV sec. d.C. Fu ripescata dal mare, nel Golfo di Baratti, da un pescatore nel 1968. Poteva contenere 22 litri di vino. Presenta delle finissime decorazioni, 132 ovali in ciascuno dei quali è raffigurata una figura diversa. Si tratta di divinità, personaggi legati al culto di Cibele, al mito di Paride, menadi e baccanti. L’anfora doveva essere dotata di manici, purtroppo mai ritrovati. È custodita al Museo del Territorio di Piombino.
Viaggiando per antiche strade.
Il nostro territorio (nel rettangolo nero della cartina, più o meno in mezzo fra Populonium e Vada Volaterrana), in epoca romana come in quella etrusca, non presentava centri di rilievo.
Era essenzialmente, come ancora oggi, una striscia di terra agricola, stretta da una fila di colline ad est e dal mare ad ovest. Non c'erano allora le pinete costiere, oggi così caratteristiche: saranno piantate dall'uomo molti secoli più tardi.
In epoca antica era comunque un tratto di costa ben popolato, con la prevalenza di fattorie e villaggi. Nell'epoca romana nacquero anche numerose villae agricole ed aumentarono notevolmente le superfici delle terre coltivate. Furono recuperate diverse aree boschive, con la pratica antica dell'incendio. Verso il mare, invece, furono estesi i lavori di bonifica delle aree paludose costiere, già iniziate dagli Etruschi.
[one_third][info_box title="Il centro amministrativo" image="" animate=""] In cima a questa collina dominava una fortezza, nata in epoca etrusca e rimasta anche in quella romana. Questo luogo presenta una continuità abitativa che va dalla Preistoria fino al Medioevo, epoca in cui prese il nome di castello di Donoratico (quello che vedete è quanto rimane della torre medioevale). Era un sito evidentemente strategico, trovandosi sulla sommità di una delle prime colline verso il mare, inclinata in modo da avere visuale su tutta la costa in direzione nord. Divenne una fortezza a metà circa del IV secolo a.C., una di quelle che Populonia utilizzava per il controllo capillare e la difesa del suo territorio. Occupava una superficie di circa 7000 mq, contornata da un'imponente cinta muraria.
In epoca romana perse la sua funzione originaria e divenne il centro amministrativo del territorio, nel quale nascevano sempre più insediamenti agricoli. Purtroppo il sito è chiuso, posto in una proprietà privata. [/info_box][/one_third]
In epoca etrusca sul nostro territorio dominava Populonia. Nella nuova era romana il baricentro del potere si spostò su Volterra (Volaterrae). Eravamo infatti parte di quello che veniva chiamato l'ager Volaterannus, la campagna di Volterra, che partiva da noi ed arriva più su, fino al promontorio di Castiglioncello, e dentro nella Val di Cecina. Era un territorio agricolo non ricchissimo ma, come andremo a vedere, eccezionalmente stabile in tutto il periodo romano, da un punto di vista sia sociale che economico.
Uno dei cambiamenti più importanti della nostra costa, nell'epoca romana, fu sicuramente la costruzione della via Aurelia (in blu nella cartina), che tagliava in due la pianura agricola. Si trattava di una delle grandi strade consolari romane, nata sulla base della precedente viabilità etrusca. Oggi non è rimasto nulla dell'antica strada. Le ultime testimonianze di tratti originali risalgono al Settecento. Il tracciato antico non era però molto diverso di quello dell’attuale strada statale Aurelia SS1 (non della variante). Si pensa che fosse solo un po’ più nell’entroterra. Questa via nacque nel III secolo a.C., per collegare Roma con Cerveteri (Caere nella mappa). Con la conquista del resto dell’Etruria poté poi proseguire fino a Pisa (Pisae). Qui rimase ferma per un po’, per la difficoltà di superare le paludi della Versilia (le Fossae Papirianae) e per l’opposizione tenace delle popolazioni montanare delle Apuane. Fu completata verso la Liguria solo nell'età di Augusto (I sec. d.C.).
Il centro abitato più importante a sud era ancora Populonia (in latino Populonio o Populonium), l'etrusca Pupluna (o Fufluna). Nel corso di questo periodo la potente città andò sempre più in declino anche se, per i primi secoli, rimasero ancora importanti sia il porto (nel Golfo di Baratti) che il distretto minerario, per via del ferro utile per approvvigionare di armi gli eserciti. Da una sua “costola” nacque in questo periodo un altro piccolo porto, Falesia, da cui nel Medioevo si svilupperà Piombino.
Dal III secolo d.C. smisero anche le attività estrattive e Populonia divenne praticamente un villaggio. Nel IV secolo dell’antica e gloriosa città non restavano che rovine, come racconta Claudio Rutilio Namaziano, che, tornando da Roma alla natia Gallia, viaggiò via nave lungo la costa nel 415 d.C.
"Vicinissima, Populonia schiude il suo lido scuro portando la baia naturale entro i campi. …
I monumenti del passato non si possono vedere più: il tempo che divora ha consumato baluardi grandiosi.
Fra i crolli delle mura restano solo tracce; tetti sepolti giacciono sotto l’estensione delle rovine.
Non indigniamoci che i corpi mortali si dissolvano: vediamo bene, da esempi come questo che possono morire le città."
Claudio Rutilio Namaziano, 417 d.C. (De Reditu suo, Il Ritorno, I, versi 401-414)
La stazione di posta sull'Aurelia era ad Aquae Populoniae, ora Venturina, dove ci sono ancora oggi le terme. La prima località successiva era Vada Volaterrana, più o meno l’attuale Vada (oggi un piccolo centro a nord di Cecina), l’antico porto di Volterra, stazione di posta ed anche baricentro di un’area di saline.
Alle spalle di Vada, nell’entroterra della Val di Cecina, stava Volaterrae (Volterra), l’antica etrusca Velathri. Come detto, la potente città, a differenza di Populonia, seppe conquistarsi uno spazio importante anche in questa nuova era. Fra l’età di Cesare e quella di Augusto divenne Colonia Augusta, centro politico e militare a capo di tutta la nostra costa, attraversando un periodo di grande prosperità. In epoca Imperiale andò però in declino, ormai tagliata fuori dalla viabilità principale.
Una romanizzazione "soft".
Come detto, la romanizzazione qui fu meno traumatica che altrove, soprattutto nelle zone di campagna, grazie al grande lavoro di mediazione che seppero fare le famiglie aristocratiche locali. Dopo un po’ di alti e bassi nei rapporti con Roma, riuscirono a mantenere le loro posizioni di potere, oltre che la stragrande maggioranza delle proprietà terriere.
In altre zone dell'Etruria (e non solo) la colonizzazione avvenne secondo un modello più brutale: le terre erano sottratte ai vecchi proprietari, erano centuriate* e spartite a piccoli lotti ai veterani degli eserciti di Roma. Le vecchie famiglie etrusche sparivano dagli orizzonti del potere. La nuova classe dirigente poi allargò le proprietà a discapito dei piccoli agricoltori e nacquero le villae, aziende agricole specializzate, basate essenzialmente sul lavoro schiavistico e abbastanza distaccate dal contesto territoriale.
Nel nostro territorio questo modello di colonizzazione avvenne solo in modo marginale. I proprietari terrieri rimasero per lo più le famiglie aristocratiche etrusche precedenti, radicate da secoli, legate ai possedimenti terrieri e allo sfruttamento minerario. Ormai però non vivevano più nelle campagne ma per lo più a Volterra, il centro del potere locale, o addirittura a Roma, come i Caecinae, la famiglia più potente del luogo (romanizzazione del nome etrusco Ceicna).
*Centuriazione: il territorio conquistato era suddiviso nelle centuriae, quadrati con un lato di 710 m ed una superficie di circa 50 ha, che erano la base capillare del sistema agrario, sociale, economico, giuridico ed amministrativo romano. Questa sorta di scacchiera era definita da due linee fondamentali: il decumanus (in genere tracciato in direzione est-ovest) e il cardo (in genere nord-sud). Altre linee secondarie potevano suddividere le centurie in unità ancora più piccole. Una volta effettuate le operazioni di centuriazione e di assegnazione delle terre, il territorio veniva rappresentato su mappe chiamate formae (come le nostre mappe catastali), conservate in duplice copia a Roma e nel capoluogo della provincia.
Non erano solo linee ideali: su di esse nascevano le recinzioni o le siepi di confine, oltre che la viabilità pubblica secondaria e quella vicinale che porta ai poderi, fino al sistema più ampio degli acquedotti e delle strade principali. L'antica tracciatura romana del territorio è rimasta quasi immutata fino ai nostri giorni in diverse parti d’Italia.
A cavallo fra l'epoca etrusca e la romanizzazione, anche qui le grandi proprietà terriere evolvettero verso il modello della villa agricola romana. Non erano però le proprietà di conquistatori ma dei discendenti delle storiche famiglie gentilizie locali, che quindi continuarono a coesistere in modo equilibrato con le comunità del territorio.
Non furono villae basate sul sistema schiavistico. Sembra che i proprietari terrieri locali si avvalessero principalmente del lavoro degli abitanti dei vicini insediamenti, ai quali erano legati da rapporti di antica clientela etrusca.
Mantennero anche un rapporto diverso con i piccoli agricoltori che qui non diminuirono ma, viceversa, crebbero di numero. Tra il III e il II secolo a.C. si è registrato un boom di nuove piccole fattorie del territorio: ne nacquero ben 26. Non si sa se questi agricoltori fossero proprietari o meno, molto più probabilmente erano affittuari di fondi messi a disposizione dai nobili.
Anche l'agricoltura non cambiò più di tanto. L'Etruria e Roma avevano in comune la stessa matrice agricola originaria, già descritta qui. Era fatta di filari di viti maritate agli alberi e di ulivi, alternati a strisce di terreno dedicate ai seminativi. I Romani, oltre che tracciare linee e confini, non modificarono di molto la sistemazione idraulica e di lavorazione di fondo dei campi, salvo introdurre l’impianto delle viti con scassi a trincee (piccole fossette). Comunque conosceremo in modo più approfondito la viticoltura romana e le sue importanti evoluzioni più avanti.
La villa bolgherese di un nobile volterrano
Poco lontano da noi lungo la via Bolgherese, in località il Puntone di Bolgheri, c'era una villa romana, ormai scomparsa. Oggi lì c'è la vigna del nostro amico Valerio Cavallini (azienda Campo al Coccio).
Non è rimasto praticamente nulla, se non una stele funeraria del II-III sec. d.C., conservata al Museo di Cecina, che ci ha permesso di conoscere l'antico proprietario della villa.
L'iscrizione della stele ci rivela che fu fatta realizzare dal liberto Autumnalis, per disposizione testamentaria, per ricordare il nobile proprietario defunto. Si trattava di un signore di Volterra, il cavaliere Marcus Anaenius Pharianus, magistrato municipale e tante altre cose (l’elenco dei titoli è molto lungo). Il nome romanizzato rivela ai linguisti l'ascendenza etrusca.
Il testo si conclude con la classica locuzione latina del culto dei morti:
SIT TIBI TERRA LEVIS
che la terra ti sia lieve
...continua nel prossimo post, nel quale vedremo meglio come erano le ville agricole del nostro territorio.
Eccellenze di Toscana 2019
Sabato 30 novembre e domenica 1 dicembre, saremo presenti con i nostri vini ai tavoli di degustazione delle Eccellenze di Toscana, all'interno dell'evento Wine & Food in Progress, organizzato dall'AIS Toscana alla Stazione Leopolda di Firenze.
Michele Scienza vi aspetta dalle ore 10.00-11.00 alle 19.00, nei due giorni di degustazione.
Mostra Mercato dei Vignaioli Indipendenti 2019
Vi aspettiamo alla corsia D, tavolo n.18 (vicino all'entrata).
Un Mercoledì da Vignaiolo: il racconto di cosa significa essere un vignaiolo FIVI
Grazie di cuore a la Divina Enoteca di Firenze che ci ha ospitato per il Mercoledì da Vignaiolo, evento in cui FIVI è stata protagonista.
Il nostro Michele e Angela Fronti (azienda Istine di Radda in Chianti) hanno fatto da relatori, raccontando della FIVI, dei suoi ideali e delle sue manifestazioni (soprattutto la Mostra Mercato di Piacenza, l'evento clou di noi vignaioli FIVI), dell'essere vignaiolo. In degustazione, per spirito di gruppo, non c'erano i nostri vini e quelli di Angela, ma di altri colleghi vignaioli (vedete la foto sotto).
Cos'è la FIVI, per chi non la conosce ancora? Si tratta della Federazione dei Vignaioli Indipendenti Italiani. Nata nel 2008 (noi siamo soci dalla sua fondazione), mette insieme aziende medio-piccole di tutta Italia, contraddistinte dal fatto di essere vignaioli.
Il vignaiolo nel passato era semplicemente chi lavorava in vigna. Oggi essere vignaioli significa avere un'azienda vitivinicola e gestirla direttamente, in modo spesso famigliare, seguendo personalmente tutti i processi, dalla coltivazione della vigna, fino alla bottiglia finita.
Molti chiedono perchè "indipendenti"? Da cosa? Questo termine ha un significato storico, che nasce con le prime associazioni di questo tipo nel XX secolo. Il vignaiolo indipendente era proprio quello che faceva tutto da sè, produceva la sua uva, la lavorava e vendeva con la sua etichetta, mettendoci la sua faccia ed esponendosi personalmente sul mercato. Era nata per distinguerlo dai molti vignaioli non indipendenti, perchè invece svolgevano solo un passaggio della trafila produttiva (in genere la coltivazione dell'uva), per poi cederla ad una cantina sociale o venderla a privati (o lo stesso per il vino sfuso).
FIVI è nata come una sorta di sindicato, per dialogare innanzi tutto col mondo politico ed amministrativo, che tanto influisce con leggi e disposizioni sul nostro lavoro, ma che era quasi sempre condizionato dai big del vino (dall'industria, dai grandi produttori e dalle cantine sociali), dimenticandosi spesso delle richieste e necessità delle molte migliaia di piccoli produttori.
Poi è diventata anche una voce per dialogare con i nostri clienti, con gli appassionati di vino o semplici consumatori, per farci promotori della realtà dei vignaioli d'Italia, piccole e medie aziende famigliari che sono l'ossatura fondamentale di questa nostra millenaria tradizione.
Ricordiamoci che i vignaioli sono i più solerti custodi dei loro territori, delle tradizioni e dell'artigianalità del vino, i principali fautori della necessità di lavorare in modo sostenibile (pur con diverse scelte, ma con la stessa finalità di rispetto per la terra).
Premiazione dei Vini TreBicchieri del Gambero Rosso, Criseo 2017 in degustazione il 27 ottobre
Domenica 27 ottobre ci sarà la premiazione dei vini che hanno ottenuto i riconoscimenti della Guida ai Vini d'Italia del Gambero Rosso. Fra questi, c'è il nostro Criseo Bolgheri DOC Bianco 2017.
Nel pomeriggio, dal ore 15.00 alle 20.00, i vini premiati saranno in degustazione al pubblico presso lo Sheraton Rome Hotel, Viale del Pattinaggio, Roma EUR.
Potrete conoscere il Criseo, da singola vigna, affinato sui lieviti, primo vino bianco di Bolgheri che ottiene questo grande riconoscimento.
Michele Scienza ed io, Annalisa Motta, saremo presenti per buona parte del pomeriggio.
Premiazione dei vini 4 viti della Guida Vitae dell'AIS: il nostro Jassarte 2016 in degustazione in anteprima
Sabato 26 ottobre ci sarà anche la premiazione e presentazione della guida Vitae AIS, in cui verrà premiato il nostro Jassarte 2016.
Tutti gli appassionati potranno accedere all'evento di degustazione, nel quale i sommelier AIS offriranno i vini premiati.
Annalisa Motta sarà presente per Guado al Melo, per ritirare il premio, che verrà consegnato alle ore 17.00.
La degustazione sarà aperta dalle ore 11 alle ore 19, Auditorium la Nuvola di Fuksas, Viale Asia, 40 - 00144 ROMA EUR
Potrete assaggiare in anteprima il Jassarte 2016, che uscirà alla vendita a breve.
Verticale di Jassarte a Taormina Gourmet, sabato 26 ottobre
Sabato 26 ottobre a Taormina Gourmet, manifestazione di alta enogastronomia, Michele Scienza terrà una Masterclass, dove presenterà una verticale del nostro vino più iconico e personale, Jassarte. Con lui, nel guidare la degustazione, ci sarà Daniele Cernilli, alias DoctorWine.
Jassarte nasce da una singola vigna con un'amplissima complessità varietale, facendolo diventare così l'espressione assoluta del territorio e di un modo antico di concepire il vino.
Michele presenterà una verticale di 6 annate: 2004 - 2005 - 2008 - 2011 - 2013 -2015
ore 15, Sala Belvedere, Hotel Villa Diodoro, Taormina
Per informazioni ed iscrizioni vedete qui
Un Mercoledì da Vignaioli, 23 Ottobre
Mercoledì 23 ottobre, torna un evento in tutta Italia: Un Mercoledì da Vignaioli
Organizzato dalla Federazione dei Vignaioli Indipendenti Italiani (FIVI), si tiene in contemporanea in 48 enoteche d'Italia, i Punti d'Affezione FIVI, negozi che hanno deciso di dedicare una parte dei loro scaffali ai produttori di questa associazione, condividendone valori ed idee.
L'idea è quella però di rimescolarsi: in ogni punto ci sarà una coppia di vignaioli che presenterà in generale il proprio lavoro, ideali e passioni che ispirano la FIVI, con in degustazione 4-5 vini di altri vignaioli soci, NON i propri.
Quindi noi saremo in due situazioni diverse:
- a Firenze, presso la Divina Enoteca, via Panivale 19/r, h. 21.00: Michele Scienza sarà presente come relatore con Angela Fronti dell'azienda Istine (Radda in Chianti). In degustazione i vini di altri vignaioli FIVI: Antico Castello (Campania, Taurasi), Cieck (Piemonte, Erbaluce di Caluso), Pomona (Chianti Classico), Santori (Marche), Torrazzetta (Lombardia, Metodo Classico)
- a Cadeo (PC), presso l'enoteca Welcome Coffee Shop, Via Emilia 42/44/46 , h. 20.30: la stessa cosa, con altri vignaioli a raccontarsi ( Chantal Smet di Corte Guarinona e Marco Cordani di Cordani Vini) e vini in degustazione, fra cui il nostro Rute Bolgheri DOC Rosso 2016 con vini delle aziende La Tosa, Pojer e Sandri, Speri e Uccellaia