Grazie per Vinitaly
Quest'anno andare a Vinitaly ha significato tanto di più rispetto agli anni passati. Ha significato un primo tentativo di ritorno alla "normalità", dopo due anni di pandemia (anche se stiamo ancora capendo cosa sarà la "normalità" d'ora in poi).
Ad ogni modo, è stato bello poter rivedere tante persone che abbiamo avuto l'opportunità di conoscere grazie al nostro lavoro, alcune delle quali diventate nel tempo anche più che semplici rapporti lavorativi.
Grazie, grazie di cuore a chi è passato a trovarci, a chi ha continuato ad amare e portare nel mondo i nostri vini nonostante il Covid19! Grazie!
Un grazie particolare a Luca Cuzziol e a tutto lo staff di Cuzziol GrandiVini per l'organizzazione, oltre che il clima sempre "famigliare" che sanno creare.
Ecco alcune foto, che ho condiviso anche sui nostri social, per ricordare questi momenti.
Atis 2018, nuova annata 95 p.ti AIS
Non ho fatto in tempo a pubblicare la presentazione della nuova annata dell'Atis che la rivista Sommelier Toscana dell'AIS è uscita con un articolo di presentazione dei nuovi Bolgheri Superiore dove l'Atis risulta fra i migliori assaggi, con ben 95 punti.
Il 2018 per noi è l'annata in uscita da sempre, perchè abbiamo fatto la scelta fin dalle origini di questo vino, nel lontano 2003, di lasciarlo maturare per un tempo più lungo rispetto alle scelte di altre aziende del territorio che, come vedete infatti, escono ora col 2019. Sono scelte aziendali: secondo noi l'Atis è un grande vino che merita più evoluzione e complessità, che gli conferiscono ben 2 anni in legno vecchio sui lieviti e un anno di bottiglia. Non è filtrato, ma pulito dalla feccia solo con travasi. Ve lo proponiamo, quindi, perfettamente pronto da assaporare, con la capacità di evolvere per decenni.
Il 2018 è stata un'annata più fresca della media. Fra il resto, la seconda parte di settembre è stata caratterizzata da un notevole abbassamento delle temperature (da circa 30° a 20°), grazie al vento di grecale. La maturazione delle uve a temperature più miti del solito, in una situazione di sole e vento, ha determinato note uniche in questo straordinario vino.
Un'altra particolarità di questa annata speciale riguarda le uve. Vi ricordate che con l'annata 2017 abbiamo sostituito il 10% di Merlot col Rebo (leggi qui) ? Col 2018 abbiamo aumentato ancora di più questo vitigno resistente di grande interesse e perfettamente adattato al nostro territorio, arrivando ad un 15%, a discapito del Cabernet franc, che è sceso al 5%. La base principale, 80%, rimane il grande re delle nostre vigne, il Cabernet sauvignon, qui presente da oltre 100 anni.
NB Purtroppo queste immagini sono un'anteprima della rivista di qualità non eccelsa. Se volete leggere meglio i testi, collegatevi a questo link, pag. 38-39.
Raspi sì o no in vinificazione?
Vi è mai capitato di sentire parlare di vinificazione con i raspi? Viceversa, vi siete mai chiesti perché la diraspatura è la pratica prevalente nelle cantine?, Anzi, sapete che in genere si cerca di pulire il mosto da ogni resto vegetale? Ad ogni modo, la diatriba “raspo sì o raspo no” è molto probabilmente vecchia quanto il vino (o quasi).
Nella vinificazione di norma l'uva viene diraspata e poi pigiata, infatti si parla di macchine diraspa-pigiatrici (attenzione a non invertire!). La vinificazione con i raspi consiste invece nella vinificazione del grappolo intero, senza diraspatura, che viene leggermente o per nulla pigiato. Un altro sistema invece prevede che l'uva venga prima diraspata e pigiata, poi sono aggiunti i raspi nella vasca di fermentazione. Qual è la scelta migliore? O meglio, quali vantaggi e svantaggi comportano queste due pratiche?
Inevitabilmente, stando a bagno nel mosto/vino, i raspi interagiscono con esso. Posso rilasciare delle sostanze che contengono o, viceversa, assorbirne altre. Di cosa è fatto un raspo? Provate a succhiarne un pezzo e sentirete senza difficoltà che è tannico, leggermente acido e che ha un gusto erbaceo. Il raspo contiene acqua e diverse sostanze fra cui alcuni acidi organici (il tartarico e soprattutto il racemico), molti tannini, ecc. Con la lignificazione, diminuisce soprattutto la componente acida.
Nella tradizione si possono trovare entrambi i casi di vinificazione. Spesso la scelta era frutto del caso, delle pratiche tramandate localmente o conseguenza delle tecniche di pigiatura utilizzate. C'era però già una riflessione su quale sistema fosse migliore. Infatti, se andiamo a leggere i trattati viticoli di tutte le epoche, dal romano Columella fino ai nostri giorni, l’opinione più comune era che la vinificazione senza raspi fosse migliore per ottenere vini fini ed eleganti, per via dei gusti amari ed erbacei portati dai raspi. L'impiego di questi era invece considerato utile per vini da vigne giovani o per migliorare quelli un po' scarsi, comunque per vini con minori pretese di qualità. Vedremo il perché di tali affermazioni. Oggi abbiamo anche i dati di numerose ricerche scientifiche che hanno messo a confronto la vinificazione con i raspi rispetto a quella senza.
Proviamo quindi a capire quali sono i vantaggi e gli svantaggi generali della vinificazione con i raspi rispetto a quella senza. Eccovi un breve riepilogo dello stato dell’arte. Iniziamo con gli effetti secondari, per arrivare a quelli più importanti. I dati analitici che riporto sono presi dall'articolo di M. Blackford et al., “A Review on Stems Composition and Their Impact on Wine Quality” (Una rassegna delle ricerche sulla composizione dei raspi e del loro impatto sulla qualità del vino"), Molecules. 2021 Mar; 26(5): 1240.
Migliora la fermentazione?
Un primo effetto positivo spesso ricordato nella vinificazione con i raspi è che si ha una fermentazione migliore. Dalle prove fatte, è infatti possibile verificare un andamento generale un poco più favorevole. Si pensa che questo effetto possa essere dovuto alla quantità aggiuntiva di lieviti che i raspi portano sulla loro superfice, oltre per la capacità di intrappolare fra le loro asperità una certa quantità di aria che favorisce la vitalità dei microorganismi. Inoltre, la massa dei raspi sembra limitare un po’ gli sbalzi termici durante la fermentazione, il che favorisce la sopravvivenza dei lieviti fermentatori.
Tuttavia, si è visto che la maggiore presenza di ossigeno favorisce anche lo sviluppo di microorganismi indesiderati. La conseguenza più evidente è che si ha in genere un'acidità volatile più elevata. Inoltre, in presenza di uve non proprio perfette, con un po’ di muffa, la vinificazione con i raspi sembra accentuare la gravità degli effetti sul vino, la cosidetta alterazione ossidasica (anche se non è chiaro il perché).
L’effetto diluente e adsorbente
I raspi a bagno nel mosto/vino possono rilasciare dell’acqua, con un effetto diluente sugli altri componenti del vino. L’acqua rilasciata è in realtà minima sulla massa del mosto. Che sia questo o per altri motivi, nelle ricerche fatte si evidenziano delle differenze nella composizione del mosto/vino, alcune minime ed altre più importanti. Vediamo quali.
Nella vinificazione con i raspi rispetto a quella senza, si è misurato un lieve aumento del pH (nei vari studi varia dall’1% al 9%) ed una diminuzione dell’acidità (2%-15%), non sempre però confermata in tutti gli studi e per tutte le varietà. La variazione dell’acidità potrebbe dipendere dalla diluizione ma non solo. Si pensa che ci sia anche un’azione sui fenomeni che inducono la precipitazione dell’acido tartarico. Infatti, i raspi incrementano la presenza di sali (soprattutto potassio, ma anche calcio e fosforo), che si legano al tartrato e ne favoriscono la precipitazione. In alcuni studi si sono viste lievi variazioni anche di altri acidi.
Si sente spesso dire che la vinificazione col raspo abbia l’effetto (oggi considerato positivo) di abbassare il contenuto alcolico del vino. C’è chi lo ha correlato sempre alla diluizione, ma anche ad un possibile effetto di adsorbimento delle molecole di etanolo da parte della struttura del raspo. Tuttavia, dagli studi fatti, non si sono visti risultati così eclatanti: in alcuni casi la variazione è nulla, in altri lieve (varia dal 1% al 8%). Credo che abbia molto più senso lavorare bene in vigna per avere equilibri produttivi adeguati.
I raspi sembrano invece avere un effetto sulla diminuzione del colore del vino (rosso), più o meno evidenti a seconda delle varietà. Diminuiscono le antocianine dal 1% al 22%, così come l’intensità del colore (dal 7% al 33%), In particolare, si accentuano i riflessi giallastri in invecchiamento. Anche qui le ipotesi sulla causa sono diverse, forse sommate fra di loro: la diluizione, l’adsorbimento del colore e le variazioni del pH.
Gli effetti più marcati: aromi e tannini
I raspi rilasciano degli aromi che non sono proprio fra quelli più gradevoli. Le analisi chimiche confermano l’aumento soprattutto dei composti pirazinici, che danno note vegetali. Gli studi sugli aromi non sono facili. Come ho già scritto in precedenza, anche se si analizza la presenza e la concentrazione delle molecole aromatiche di una miscela complessa come il vino, non è poi comunque semplice prevederne la percezione olfattiva. Dall’analisi sensoriale, i vini vinificati con i raspi sembrano avere toni meno fruttati (frutta fresca), mentre aumentano le sensazioni di frutta cotta, di erbaceo e di spezie. C’è chi parla di maggiore complessità, ma rimane il dubbio sulla piacevolezza, che comunque è un elemento sempre molto personale.
L’effetto sul gusto del vino sembra invece essere più definito. Negli studi fatti si è visto che la vinificazione con i raspi aumenta la sensazione di astringenza e di amaro nei vini. Infatti, arriviamo finalmente all’evento più rilevante di tutti nella vinificazione con i raspi: il rilascio di una maggior quantità di polifenoli totali, in particolare dei tannini. Il rilascio dei tannini non è sempre uguale ma comunque importante, dal 20% al 80% a seconda del vitigno, della temperatura e della durata della macerazione. L’incidenza dei tannini del raspo è inversa alla durata della macerazione: più essa è lunga, più diventano preponderanti i tannini delle bucce. Se la macerazione è breve invece, i tannini del raspo diventano (logicamente) i più importanti nel vino. Siamo quindi arrivati a capire il motivo principale per cui si considerava utile in passato, in certi casi, la vinificazione con i raspi: soprattutto, il rilascio di tannini nei vini rossi.
I tannini dell’uva si trovano soprattutto nella buccia dell’acino e sono rilasciati nel vino nel corso della macerazione. A volte però il tannino manca, perché si usano uve di scarsa qualità (per i motivi più disparati: perché coltivate in luoghi non vocati, coltivate male, per annate poco favorevoli, vendemmie fatte al momento sbagliato, ecc.), oppure perché si usano vitigni che ne sono naturalmente poveri. Storicamente, dalle testimonianze dall’epoca romana fino ai nostri giorni, si sono sempre cercati dei sistemi per aggiungere tannini ai vini che ne sono sprovvisti. Fin dall’antichità si era però anche capito che i tannini vegetali non sono tutti uguali. Usare un tipo piuttosto che l’altro comporta una notevole differenza finale di gusto nel vino. Nel raspo sono presenti molti tannini di un certo tipo chimico (catechinico) simile a quelli dei vinaccioli e di tutte le altre parti verdi della pianta. Rispetto a quelli “nobili” della buccia dell’uva, sono più ruvidi in bocca, molto più erbacei ed amarognoli. Inoltre, hanno una tendenza ossidativa molto più spiccata.
In passato, il tannino considerato migliore da aggiungere al vino era quello delle galle delle querce. Se passeggiate vicino a questi alberi, potrete facilmente vedere strane escrescenze su diverse parti della pianta (rami, fusto, ecc.). La galla si forma a seguito dell’aggressione di un parassita per proliferazione incontrollata dei tessuti cellulari. La pianta reagisce accumulando in quel punto delle sostanze di difesa, i tannini appunto. L’uso dei tannini delle galle è antichissimo e continua ancora oggi, anche se ormai si usano prodotti purificati che possono avere anche costi molto elevati. Invece, i raspi erano considerati sistemi più alla buona per aggiungere tannini. A volte si usavano anche le foglie, con effetti nel vino decisamente ancora meno eleganti. Questi sistemi erano comunque tollerati e consigliati per la grande massa dei vini senza troppe pretese.
Abbiamo però bisogno oggi di aggiungere tannino al vino? Eccoci alla domanda fondamentale! In una produzione artigianale, grazie alle conoscenze odierne, in un territorio vocato alla vite, è necessario “aggiustare” i vini quando sono frutto di un lavoro poco curato o inesperto in vigna e in cantina. Secondo noi, l’aggiunta di tannino, qualunque sia la sua origine, rimane qualcosa di estraneo alla produzione di un vino di territorio. Non credo che ci sia concettualmente molta differenza se viene fatto con i raspi o con un tannino di quercia purificato.
Vita di cantina: dallo sgranellare a mano fino alle macchine diraspatrici
Con l'evoluzione delle pratiche di cantina dell'Ottocento, non solo non si volevano i raspi in fermentazione, ma neppure nella fase di pigiatura. La diraspatura iniziò a diventare una pratica qualitativa descritta nei testi di viticoltura, effettuata nelle (allora poche) cantine che cercavano di produrre vini più ricercati. In seguito è diventata sempre più comune.
Un sistema antico molto grossolano per la diraspatura, antenato (almeno nel concetto) delle macchine moderne, era quello di far roteare in una cesta di uva un bastone ramificato. Nelle aziende più evolute si preferiva un sistema più laborioso ma delicato, cioè quello di staccare gli acini a mano. Si diceva “sgranellare”. Per ovvi motivi, si riservavano queste cure costose ai pochi vini di alto valore.
Le prime macchine meccaniche, prima solo pigiatrici, poi anche diraspa-pigiatrici, furono a lungo viste con sospetto per l’azione troppo distruttiva sul grappolo. Quelle che usiamo oggi sono frutto di una notevole evoluzione che, nel tempo, ha spinto sempre più verso la capacità di agire in modo delicato, riuscendo a staccare accuratamente le bacche dal raspo senza strappare o tagliuzzare i pedicelli e le altre parti verdi. Le macchine odierne hanno anche la capacità di pigiare molto poco l’acino stesso.
Nella produzione del vino bianco, dove il gusto è molto più delicato ed il vino si altera molto più facilmente, diventa ancora più rilevante la necessità di non portarsi inutilmente gusti amari ed astringenti, oltre che tannini facilmente ossidabili. Molti vignaioli artigiani, come noi, non pressano il grappolo intero nella vinificazione in bianco, ma prima praticano la diraspatura. Dopo di che, per essere assolutamente sicuri di eliminare tutti i pezzettini di foglie o raspi o altro, viene fatta anche la pulizia del mosto per sedimentazione spontanea. Basta lasciare il mosto una notte al fresco della cantina per far sì che i torbidi precipitano sul fondo della vasca. Il mosto viene quindi prelavato dall’alto, senza smuovere il fondo, e trasferito in un nuovo contenitore per la fermentazione.
In definitiva, avrete capito che noi non vinifichiamo con i raspi e anche il motivo. Il vino per noi si fa con l’uva, con i suoi equilibri unici che nascono in vigne vocate, grazie anche a tanto lavoro per ogni singola pianta. I raspi apportano qualcosa di estraneo al frutto, neppure tanto piacevole, che preferiamo non avere. Oltre tutto, abbiamo un territorio che dona già tanto ai nostri vini, sia come gusto che come aromi, non vediamo nessuna necessità di aggiungere qualsiasi cosa. Ciò non toglie che in altri situazioni non si possa ritenere utile l'apporto dei raspi per i propri vini, dando più peso ai vantaggi piuttosto che agli svantaggi.
I raspi sono comunque importanti nel ciclo aziendale, non sono solo scarti: dopo la diraspatura li mettiamo nella nostra stazione di compostaggio, dove contribuiscono a formare un compost vegetale perfetto per la concimazione delle vigne.
Per approfondire:
Riberaux-Gayon et al. “Trattato di scienza e tecnica enologica”, ed. AEB Brescia, 1980.
M. Blackford et al., “A Review on Stems Composition and Their Impact on Wine Quality”, Molecules. 2021 Mar; 26(5): 1240.
NB: alcune immagine le ho trovate sul web: sono disposta a rimuoverle nel caso qualcuno avesse a risentirne dell'uso.
Le illustrazioni d'epoca vengono da libri antichi della nostra biblioteca sul vino.
Ecco L'Airone 2021
Diamo il benvenuto alla nuova annata dell'Airone che apre, come ogni anno, le nostre nuove uscite. L'Airone è il nostro bianco che esprime tutta la freschezza del Vermentino, varietà perfetta per il nostro clima marino, che sopporta molto bene il vento ed il caldo di un clima mediterraneo-mite come il nostro. Questa varietà è presente sulla costa toscana e, in generale, quelle tirreniche, da secoli, anche se la sua provenienza è incerta.
Dell'ultima vendemmia ho già parlato a lungo: come saprete, l'abbiamo giudicata un'ottima annata. E' stata siccitosa ma le nostre vigne non hanno mostrato sintomi di sofferenza idrica, perchè invece aveva piovuto in abbondanza in inverno. E' stata calda ma senza eccessi e molto ben ventilata. L'uva era favolosa, perfetta e sana.
Ha come al solito ottimi profumi, che in questa fase giovanile ricordano soprattutto gli agrumi tipici del Vermentino, in particolare il pompelmo. A questi si aggiungono delicati aromi di salvia. Ha lievi punte di frutta esotica, come ananas e frutto della passione. In bocca è molto fresco e piacevolmente leggero, leggermente sapido, con discreta lunghezza. Attenzione però: un vino artigianale è vivo e stando in bottiglia evolverà nei mesi. Potrete sentire aumentare alcuni aromi, come quelli di frutta esotica, aggiungersene altri come i fiori bianchi, leggeri sentori di miele e di crosta di pane, ...
E' un ottimo vino da bere fresco, direi intorno ai 10°-12°C. Appena tolto dal frigo, saprà di poco. Aspettate un po' prima di berlo, che si scaldi leggermente. Questo vino è giovane, ma dategli comunque qualche minuto dopo la stappatura, per aprirsi per bene.
E' perfetto come aperitivo ma anche per accompagnare piatti non troppo intensi. Ad esempio, posso suggerirvi di berlo con i classici spaghetti alle vongole, una frittura di pesce oppure di verdure, una frittatina alle erbe aromatiche, un tortino di verdure primaverili, ...
Se non lo bevete subito, mi raccomando la conservazione! Non è proprio il massimo tenere un vino alla luce (peggio che mai sotto ad un faretto!), a temperatura ambiente o al caldo, ma neppure dimenticarselo in un frigorifero per mesi. Tutte queste situazioni lo scombinano, ne alterano i profumi ed il gusto, possono causare precipitazioni di piccoli cristalli (niente che fa male, è solo il tartrato di potassio dell'uva). Questo succede perchè è un vino artigianale: non facciamo stabilizzazioni chimiche o filtrazioni intense, c'è anche il minimo di solforosa possibile. Conservatelo con rispetto: a bottiglia sdraiata (in piedi è OK solo se lo bevete a breve), in un luogo fresco (circa 10°-12°), al buio.
Ecco qui sotto la scheda, qui in formato PDF, che trovate anche sulla pagina dell'Airone, che ho appena aggiornato.
A Lugano, il 3-4 aprile, torna Vinissima di Tamborini Vini
Tamborini Vini è il nostro importatore e distributore per la Svizzera e ogni anno organizza una bella manifestazione per presentare i vini ai clienti. Quest'anno torna finalmente, dopo la pausa imposta dal Covid. Noi ci saremo: vi aspettiamo!
Ecco la loro presentazione:
Vinissima 2022 torna il 3 e 4 aprile dopo due anni di “stop” nella storica cantina ticinese Tamborini Vini di Lamone. L’evento nasce come appuntamento annuale per gli appassionati, i curiosi e gli operatori del mondo enologico per degustare vini e distillati di produzione Tamborini e delle cantine importate. Saranno presenti infatti 35 produttori italiani e francesi che vi presenteranno con competenza e passione più di 150 tra vini e distillati. Vinissima rappresenta anche un’occasione unica per conoscere le novità di produzione Tamborini e il nuovo listino prodotti 2022.
“New entry” dell’edizione 2022 sarà l’angolo bar con degustazione di cocktail, show mix e workshop a cura del bartender Roger Docourt. Saranno presenti anche dei Food Truck per poter accompagnare al vino ottimo cibo.
Per tutti gli acquisti effettuati durante l’evento dai visitatori, verrà applicato uno sconto speciale.
Fra Medioevo e Rinascimento: l'alba di una nuova geografia viticola italiana
Nel corso del Trecento si impose un altro vino orientale di lusso, col nome di Malvasia, commercializzato dai veneziani. Sembra che il nome derivasse dal luogo in cui era stoccato, Monembasia, un porto del Peloponneso, mentre la produzione sembra che avvenisse soprattutto a Creta. La Malvasia era un vino ancora più forte, liquoroso e dolce dei precedenti (si pensa fra i 16° ed i 18° alcolici). Divenne il vino più nobile dell’epoca in tutta Europa. Venne imitato ovunque in Italia. Da qui il lascito delle tante varietà attuali che conservano il nome Malvasia (Malvasia nera, nera di Basilicata, nera lunga, bianca, bianca lunga, bianca di Candia, bianca di Basilicata, di Casorzo, delle Lipari, di Sardegna, di Schierano, Istriana, ecc.). Non hanno necessariamente parentela fra loro. Devono il nome, molto probabilmente, solo al fatto che erano usate localmente per produrre questa tipologia di vino.
Come scritto nel post precedente, quasi tutti i vini italiani fino al Duecento erano anonimi e distinti solo per il colore (il bianco, album, il rosso, vermilium, …), per il sapore (dulce, bruscum, …), dalla zona di produzione (vinum de plano, vinum de monte). Col Trecento, emersero sempre più dei vini locali che si distinguevano per la qualità, anche se non imitavano i vini orientali. Erano vini che non uscivano dal consumo locale, al massimo regionale. Non erano di lusso, ma iniziavano a spuntare costi maggiori, alla portata di persone benestanti. Erano anche i più consigliati nei trattati di medicina, che spesso disdegnavano quelli di lusso perché troppo pesanti e sovraccarichi. Questi vini iniziarono pian piano ad avere un nome, che poteva essere legato alla zona di produzione o altre caratteristiche. Fra questi ricordiamo i diversi Moscatello, prodotti in varie zone d’Italia, il Nebbiolo e l’Arneis piemontesi, il Razzese ligure, il Groppello lombardo, lo Schiavo lombardo-veneto, il Garganigo ed il Marzemino veneti, il Refosco friulano, il Chianti toscano, dalla Campania il Lacrima ed il Fiano, il Gaglioppo del sud, ecc. Alcuni erano una sorta di clonazione locale dei vini di lusso, come la Vernaccia di Cellatica (vicino a Brescia), la Vernaccia di San Gimignano, la Ribolla di Imola, il Greco di Corsica, il Greco di Velletri, la Malvasia e la Vernaccia sarde.
L'alba delle varietà moderne. Non ha grande senso cercare vini e varietà attuali nel Medioevo, anche se a volte si ritrovano gli stessi nomi. In mezzo ci sono troppi secoli e tante probabili trasformazioni. Il Medioevo, come l'epoca antica, fu un momento in cui viaggiavano i vini ma anche molto le varietà, per il Mediterraneo e per l'Europa, con anche la possibilità di incroci con i vitigni locali. Questi scambi sono raccontati, ad esempio, nelle "Trecentonovelle" (1390) di Franco Sacchetti. Si legge che in Italia c'era così tanta voglia di produrre grandi vini che i produttori cercavano di accaparrarsi le migliori varietà di uve da ogni parte, recuperando le barbatelle (magliuoli) direttamente o sfruttando la rete di contatti offerta dalla Chiesa. Sacchetti riporta ad esempio che il nobile fiorentino Vieri de' Bardi si fece mandare nella sua proprietà di Antella (Bagno a Ripoli) delle barbatelle da Portovenere, con le quali si produceva la celebre Vernaccia di Coniglia. "Tanto è grande lo studio di vino che da un gran tempo in qua gran parte dell’Italiani hanno si usato ogni odo d’avere perfettissimi vini che non si sono curati di mandare, non che per lo vino, ma per li magliuoli d’ogni parte; acciocché ognora se li abbino veduti e usufruttati nella loro possessione, e perché siano stati chierici, non hanno auto il becco torto. Fu, non è molti anni, un cavaliere ricco e savio nella città di Firenze, che ebbe nome messer Vieri de’ Bardi, il quale era vicino al piovano all’Antella, là dove un suo luogo dimorava spesso. E veggendosi in grande stato, per onore di sé e per vaghezza nel suo alcuno nobile vino straniero, pensò di trovare modo di far venire magliuoli da Portovenere della vernaccia di Coniglia".
Dalla metà del '300 ai primi del '400 circa, ci furono alcune importanti trasformazioni, che mutarono ancora una volta in modo significativo la geografia viticola italiana.
Da un lato iniziò a peggiorare sempre più il clima, dopo il periodo caldo medievale che aveva favorito il boom della viticoltura. Iniziava quel periodo di freddo chiamato la "Piccola Era Glaciale", che sconvolgerà tutta l’Europa con una crisi agricola generale. Le prime carestie contribuirono alla diffusione delle epidemie come la Peste Nera che, dal 1348, portò alla decimazione delle popolazioni. La crisi fece diminuire in generale l'agricoltura, fra cui anche la viticoltura. Inoltre, il freddo la fece proprio sparire da tutti quei territori dove il clima era ormai diventato un limite insormontabile.
Il vino fra ubriachezza, beffe e piacere. La Peste Nera, come saprete, fa da sfondo al Decamerone del Boccaccio, da cui ho tanto attinto finora, in quanto è la massima opera medievale che parla molto spesso di vino. Come sapete, il Decamerone è composto da un serie di novelle che un gruppo di giovani nobili fiorentini, sette ragazze e tre ragazzi, si raccontano a turno per passare il tempo nella villa di campagna dove si sono rifugiati per sfuggire al contagio. Nell'introduzione, Boccaccio descrive le bellezze di tale dimora, fra cui le cantine, ricche di vini pregiati che, secondo lui, sono più adeguate a "buoni bevitori che a savie e oneste donne". Nel Medioevo, le donne di buona reputazione non dovevano mai lasciarsi andare troppo. L'eccesso di vino era comunque deprecato per tutti, sia per la morale che per la salute. Eppure le novelle del Boccaccio sono molto poco moraliste e spesso semi-serie: l'ubriachezza è fonte di inganni o di beffe, mentre le donne intelligenti riescono spesso a vincere le avversità della vita.
La storia di Alatiel. La bella Alatiel, figlia del sultano di Babilonia, viene mandata dal padre in sposa al re del Marocco. Inizia per lei un lungo viaggio per il Mediterraneo, nel corso del quale viene rapita e violata da diversi uomini. Il primo, Pericone, pensa di farla cedere col vino. "Poiché si era accorto che a lei piaceva il vino, a cui non era abituata perché la sua religione le impediva di berlo, pensò di farla cedere, con l’aiuto del vino e di Venere. Una sera la invitò ad una festa e ordinò al coppiere di servirle un bicchiere di vari vini mescolati tra loro. Bevuto l’intruglio, la donna, dimenticando le sventure passate, divenne lieta e vedendo alcune donne ballare danze spagnole, ballò anche lei alla maniera alessandrina. Così trascorse quasi tutta la notte, tra vini e danze. Allontanatisi i convitati, l’uomo, che era molto robusto ed energico, entrò nella camera da solo con la donna, che più calda di vino che di onestà, si spogliò e si coricò." Alla fine della storia, la ragazza riesce a tornare a casa, ma la sua vita sarebbe stata compromessa da tante disavventure, per la morale del tempo. Riesce però a convince il padre di essere stata accolta tutto quel tempo in un convento e così sposa comunque il suo fidanzato.
Nella novella di Tofano e Ghita, il ricco Tofano è molto geloso della bella moglie Ghita. Il suo tormento spinge infine la donna a corrispondere ad un giovane spasimante. Così Ghita prende l'abitudine di far ubriacare il marito, per far "poi il piacer suo mentre egli addormentato fosse". Una notte, mentre lei torna da un incontro con l'amante, il marito la chiude fuori di casa per svergognarla di fronte ai vicini. La donna minaccia allora di suicidarsi, dicendogli che poi avrebbero dato la colpa a lui. Favorita dal buio, getta quindi una pietra nel pozzo. L'uomo, preoccupato, corre fuori a guardare. Ghita, svelta, entra in casa e chiude fuori il marito. La situazione si inverte comicamente: Tofano inizia ad inveire ed urlare, svegliando il vicinato, mentre Ghita grida a tutti che il marito si ubriaca sempre e passa la notte nelle taverne. La cattiva condotta di Tofano si diffonde ed arriva anche alle orecchie dei parenti di Ghita, i quali picchiano l'uomo e portano via la donna. Alla fine della storia, Tofano capisce che tutto l'accaduto è partito dalla sua folle gelosia e si pente. Convince la moglie a tornare, con la promessa che lei potrà fare tutto quello che vuole, a patto che lo faccia con discrezione.
Fra la fine del '300 e l'inizio del '400 ci fu anche un cambiamento epocale nei commerci, chiamato la “rivoluzione dei noli”. Fino ad allora il commercio del vino era limitato ai prodotti più cari, oltre che conservabili, perché i costi di spedizione erano calcolati essenzialmente in base al volume occupato dalla merce sulla nave. Le botti di vino occupano parecchio spazio. In proporzione, costava meno trasportare ad esempio pietre preziose. La rivoluzione dei noli introdusse invece l'uso di calcolare il costo tenendo anche conto del valore intrinseco della merce. Il vino ne trasse un grande giovamento e, di conseguenza, ci fu un aumento importante del suo commercio che divenne generalizzato.
Come detto, fino ad allora la vite si coltivava praticamente ovunque in Italia, per avere vino a disposizione per la comunità e, salvo i prodotti di lusso, il consumo dei vini comuni era essenzialmente locale. Quando i trasporti diventarono più convenienti, tanti più vini cominciarono a viaggiare. Il commercio fu facilitato anche dalla nascita di entità politiche più grandi, anche regionali, il che abbassava il numero dei dazi negli spostamenti e quindi il prezzo finale al consumatore. Inoltre, nelle zone più ricche del Nord e del Centro Italia, ci fu un anche un miglioramento delle strade. Le persone si ritrovarono quindi ad avere a disposizione sempre più un'ampia scelta e si orientarono sempre più sul consumo dei vini migliori, non per forza quelli locali.
Tutti questi eventi contribuirono a mutare in modo importante, ancora una volta, la geografia italiana del vino. La viticoltura si ridusse in generale e, in particolare, diminuì o scomparve da tutti quei territori poco o per nulla vocati. Al contrario, crebbe invece sempre più in quei distretti considerati di maggiore qualità, dove il rendimento economico divenne sempre più rilevante, come la Toscana, l’Oltrepò pavese, i colli veneti, l’Istria, i Castelli Romani, la Puglia, la Calabria, le Langhe, ecc. Non era per forza più necessaria l'alta gradazione alcolica dei vini orientali (o fatti in quello stile), ottenuta per appassimenti o concentrazione. Bastava fosse una buona gradazione, derivata da un territorio vocato alla viticoltura, sufficiente perché i vini si conservassero abbastanza bene, preservandone la piacevolezza ed i profumi.
Aumentando la commercializzazione, aumentò sempre più la necessità che i vini fossero riconoscibili, con identità precise. Non si parlò quasi più solo di vino rosso o bianco (o poco più), ma i nomi dei vini iniziarono a diventare una prassi comune. Derivavano spesso dalla tipologia del prodotto, spesso unito al luogo di produzione o, in altri casi, a quello di stoccaggio o distribuzione, raramente delle uve. Iniziarono ad essere sempre più citati i territori particolarmente vocati, a volte anche le singole vigne di grande qualità. Ad esempio, nel catasto fiorentino del 1427 sono identificate 106 diverse località produttrici di vino intorno alla città.
Non pensiate però che ci fosse una grande chiarezza, come oggi. La situazione era ancora molto confusa, sia per l’epoca che per gli studiosi moderni che hanno cercato di decifrarla, perché con lo stesso nome e provenienza si trovano anche vini con caratteristiche molto diverse fra loro (bianchi e rossi, vini dolci e non, ecc.). Siamo ancora ben lontani da una geografia del vino ben precisa e delineata. Possiamo dire che iniziava a prendere forma.
Nel Quattrocento il consumo del vino era ormai molto evoluto. Si iniziavano a distinguere e conoscere i vini per le peculiarità organolettiche e culturali, oltre che per gli abbinamenti col cibo. Nacquero in quel periodo anche i primi trattati di cucina.
A metà ‘400 crollò l’Impero Bizantino, scomparve il commercio genovese col mondo del Mediterraneo orientale, mentre quello veneziano si ridusse notevolmente. Crollò in parte il prestigio dei vini orientali o orientaleggianti, molto dolci, aromatizzati ed alcolici. Non se ne perse comunque il gusto, soprattutto nei banchetti e nelle cerimonie. Si impose però una nuova tipologia di vino di lusso, quello proveniente da un territorio vocato, secco, non eccessivamente alcolico, bianco o rosso, gradevolmente profumato. Erano vini giovani, in quanto i processi d’invecchiamento torneranno ad essere “scoperti” solo qualche secolo più tardi. Del Rinascimento però parleremo meglio un'altra volta.
... Continua
Bibliografia:
Prof. Alfonso Marini (AA 2020-2021) Dispense del corso di storia medievale.
Pini, Antonio Ivan (2003) Il vino del ricco e il vino del povero. In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 585-598.
Antonio Saltini (1998), Per la storia delle pratiche di cantina (parte 1) enologia antica, enologia moderna: un solo vino, o bevande incomparabili? In Rivista di Storia dell’Agricoltura n.1, giugno 1998.
Branca Paolo (2003) Il vino nella cultura arabo-musulmana. Un genere letterario… e qualcosa di più. In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 165-191.
Anna Maria Grasso, Girolamo Fiorentino (2012) Archeologia e storia della vite e del vino nel medioevo italiano. Il contributo dell’archeobotanica e di nuove metodologie di analisi integrate per la caratterizzazione varietale applicate ai contesti archeologici della Puglia meridionale. 2012, VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale
AAVV (1988) Il vino nell’economia e nella Società italiana medioevale e moderna. Convegno di Studi Greve in Chianti, 21-24 maggio 1987 Firenze, in Quaderni della Rivista di Storia dell’Agricoltura, Accademia dei Georgofili Firenze.
Emilio Sereni (1961), Storia del paesaggio agrario italiano, Editori Laterza.
Pietro Stara (2013), Il discorso del vino - origine, identità, come problemi storico-sociali, ed. Zero in Condotta.
Giovanni Spani (2010-2011), Il vino di Boccaccio: Usi e abusi in alcune novelle del Decameron, Heliotropia 8-9.
Gino Tellini (2014), Il "figlio del sole" : vino e letteratura in Toscana. Soc. Ed. Fiorentina
L'Europa non dice no al vino: cultura e bere responsabile
Apprendiamo con piacere che l'Europa è tornata sui propri passi circa l'idea di bollare il vino in etichetta come alimento pericoloso per la salute.
Non neghiamo che ogni prodotto che contenga alcool sia da gestire con grande cautela, soprattutto per i più giovani e fragili. Da sempre raccomandiamo un consumo consapevole e moderato (sul nostro sito qui), così come è tradizione in Italia. Il vino, soprattutto quello artigianale, non è comunque il prodotto dello sballo. Piuttosto, insegniamo ad assaporare con attenzione ogni sua preziosissima goccia.
Il valore culturale profondo del vino in Italia è ben descritto da Pier Vittorio Tondelli:
"Per me è stata una delle più piacevoli sorprese degli ultimi anni scoprire il Salento, per esempio, o la campagna friulana. E sono sempre state rivelazioni che hanno avuto a che fare con il vino: con quello sensuale, erotico e levantino della Puglia, o con quello robusto, vitale e virilmente dolce delle pendici del Collio. E quando viaggio in Toscana, in quei paesaggi così “Piero della Francesca”, o in Piemonte, attraverso le Langhe e quei vitigni bassi, piccoli, forti (quei paesi che hanno ognuno il proprio museo del vino, a riprova di come la cultura del vino si innesti sulla cultura più generale di un popolo e di una terra); quando attraverso la Sicilia o mi lascio andare a quei sonnolenti dopo-pranzi nella campagna romana, con la caraffa ghiacciata di Frascati o di vino dei Colli ancora appannata; quando bevo un’«ombra», godendomi l’ultimo sole alle Zattere, in un tramonto, là, in fondo alla Giudecca, che sembra un quadro di Turner; quando apprezzo l’acidulo del Gavi di Liguria accompagnato a un piatto di animelle, o i vini marchigiani, o quell’Orvieto che resterà per sempre il sapore del mio servizio militare; quando nella bassa lombarda, d’inverno, sciolgo la nebbia con una robusta e frizzante barbera, allora sento che è proprio attraverso il vino che si esprime una grande, antichissima ricchezza del nostro paese. Sento allora il vino come un fatto di profondissima civiltà e cultura."
Pier Vittorio Tondelli, Un racconto sul vino, in “L’abbandono. Racconti dagli anni Ottanta”, a cura di Fulvio Panzeri, Milano, Bompiani, 1993.
In alto i calici con Identità Golose
Grazie a Marilena Lualdi che racconta della nostra uscita a Milano, all'hotel Gallia, con Cuzziol GrandiVini su Identità Golose. Per noi è stata importante, perchè la prima dopo il lungo periodo di chiusuradel Covid. Cuzziol ha anche organizzato l'evento con la massima attenzione per le norme anti-pandemia: le porte sono state aperte solo per gli agenti di tutta Italia ed una piccola selezione di giornalisti. Per i ristoratori ed altri operatori del settore, si dovrà aspettare un altro anno.
Ad ogni modo, così scrive di noi:
“Spostiamoci in Toscana, dentro un’altra storia particolare di famiglia e ricerca, quella diGuado al Melo. Annalisa e Michele Scienza hanno portato la loro passione nella Doc Bolgheri, anche grazie al prezioso supporto di Attilio Scienza. Si inizia dal Vermentino, con L’Airone Igt, in uscita tra pochi mesi il 2021, e poi Criseo Bolgheri Doc Bianco Igt 2019, da una vigna di 22 anni, con il 30% di altre varietà come Fiano, Verdicchio, Petit Manseng e Manzoni bianco che gli conferiscono più complessità e ampie possibilità di evoluzione negli anni.
Annalisa è biologa ed esprime il grande rispetto, anzi l’ammirazione per la natura. Nel mondo dei rossi, ci “parla” ad esempio Jassarte 2017 Toscana Igt Rosso. Terra di confine, significa, e le frontiere in effetti scardina con 30 varietà a bacca rossa, locali e mediterranee.”
Se volete leggere tutto l'articolo, ecco il link:
Attilio Scienza: seminario sui vitigni resistenti
Domani 11 febbraio, Attilio tiene un seminario sui vitigni resistenti.
Da Linneo all’editing del genoma: viticoltura futura, le viti che resistono
Ven 11 feb 2022 17.00 - 19.00 CET |
Relatore: Attilio Scienza (Università di Milano)
Moderatore: Tommaso Maggiore (Vice Presidente FIDAF)
Il seminario è patrocinato da CONFPROFESSIONI
Ai partecipanti iscritti agli Ordini dei Dottori Agronomi e Dottori Forestali verranno riconosciuti 0,25 CFP
Per la partecipazione al seminario è necessario iscriversi al seguente LINK:https://register.gotowebinar.com/register/7469153332597174797
Fra Alto e Basso Medioevo: i vini ultramarini, latini e greci
“Vinum de vite dat nobis gaudia vite. /Si duo sunt vina, mihi de miliore propina. / Non prosunt vina, nisi fiat repetitio trina. / Dum quartum poto, succedunt gaudia voto. / Ad potum quintum mens vadit in laberintum. / Sexta potatio me cogi abite suppinum.” (Salimbene de Adam, XIII sec.)
“Il vino della vite ci dia le gioie della vita. Se ci sono due qualità di vino, dammi del migliore. Non fanno buon pro' i vini, se non si replica (la bevuta) tre volte. Alla quarta, al desiderio seguono i gaudi. Alla quinta bevuta, la mente entra in un labirinto. La sesta bevuta mi fa cadere supino.” Dalle cronache di Salimbene de Adam (XIII secolo)
Fra la fine dell'Alto e l'inizio del Basso Medioevo, la maggiore stabilità politica ed il clima favorevole portarono a notevoli progressi nell'agricoltura. Le vigne in particolare si allargarono e diffusero sempre più. L'aumento notevole della produzione fece tornare il vino ad essere a pieno titolo la bevanda del popolo in Italia, come già in epoca Romana. Diversamente accadde negli altri paesi europei. Dove la produzione era più difficile o il vino era una bevanda di importazione, rimase ancora a lungo solo appannaggio dei ricchi.
Il vino passò dall’essere un segno di prestigio o una necessità liturgica a diventare anche un'attività economica. Dopo l’anno Mille si diffuse anche la proprietà agricola borghese, in particolare dal XII sec. Per i borghesi produrre vino era il simbolo dell’ascesa sociale. L’aumento della produzione porterà sempre più alla sua commercializzazione, segnando il successo nel tempo di quei territori che si trovavano in luoghi che ne facilitavano il trasporto, come le zone costiere e lungo i fiumi navigabili d’Europa. Andiamo però con ordine.
In Italia la viticoltura si diffuse come non mai. Ogni territorio, anche il meno adatto, dedicava una parte importante dei propri terreni agricoli alla vite. La notevole documentazione che abbiamo del periodo, soprattutto fra il '200 ed il '300, ci dimostra un'incredibile fioritura di vigne ovunque, sia nelle zone periferiche che nei centri delle città e dei villaggi. I vini locali all'epoca erano anonimi, definiti solo per il colore e le caratteristiche organolettiche, oltre che per il tenore alcolico. Erano consumati in modo essenzialmente locale.
L'aumento della produzione di vino ridiventò una preoccupazione anche del legislatore. Negli statuti comunali dell'epoca si trovano moltissime disposizioni legate alla coltivazione e gestione delle vigne, alla data della vendemmia, al trasporto, la vendita al minuto e all’ingrosso dell’uva e del vino, a dazi e tariffe. In generale, i regolamenti tendevano a spingere verso una produzione di quantità, in grado di fornire abbastanza vino per il consumo della comunità. Inoltre, gli statuti erano orientati a privilegiare il consumo dei vini locali e rendere difficile l'ingresso a quelli forestieri (vina forensia).
Nel XIII sec. il poeta Cecco Angiolieri scriveva però che era stanco del vino locale (latino) e voleva bere qualcosa di diverso:
“… e non vorria se non greco e vernaccia, / che mi fa maggior noia il vin latino, ...”.
La grande disponibilità di vino locale spinse infatti sempre più gli italiani ricchi e potenti a cercare distinzione nei prodotti di lusso, rappresentati allora dagli esotici vini del Mediterraneo orientale, che arrivavano insieme alle spezie, alle sete, ai gioielli e alle reliquie dei santi. Il loro prestigio stava nel costo elevato.
I vini viaggiarono molto dal Duecento in poi, in tutto il Mediterraneo, da e per l’Italia, transitando per i tre grandi empori commerciali del tempo: Genova, Pisa e Venezia. Viaggiava in piccole botti, via mare o fiume, su navi o chiatte. Alla partenza (o all’arrivo), le botti erano trasferite sui carri trainati dai buoi o sulla soma dei muli. Le Repubbliche marinare dominarono a lungo questi commerci, in tutto il Mediterraneo e verso il nord Europa.
Questi vini erano chiamati nei documenti dell’epoca “ultramarini” (oggi diremmo d'oltremare) o “navigati”. Arrivavano al consumatore finale a costi notevoli, sia per il lungo viaggio che per i numerosi dazi che vi erano caricati. Il vino orientale, spesso definito in modo generico anche “vino di Romania”, proveniva dall’Impero Bizantino. In questo gruppo generico più tardi si distingueranno diverse provenienze più specifiche, come il vino di Creta, di Chio, di Lesbo, di Tiro (attuale Libano), ... All'epoca questi erano fra i pochi vini che sopportavano viaggi molto lunghi, per via dell’alta gradazione alcolica. Erano bianchi, dolciastri e liquorosi, spesso concentrati per cottura del mosto o appassimenti delle uve, arricchiti di spezie, profumi e miele.
Questi vini esotici, la cui possibilità di acquisto era uno status symbol di ricchezza e prestigio, conquistarono i ricchi del tempo per oltre tre secoli, dal Duecento al Quattrocento. Il loro commercio divenne monopolio dei veneziani dopo la presa di Costantinopoli, nel 1204. Nel corso del '200 tale commercio divenne sempre più importante grazie all’allargarsi della platea dei compratori, non più solo nobili ed ecclesiasti, ma anche i nuovi ricchi borghesi.
Genova cercò di contrapporre al monopolio di Venezia vini prodotti nello stile dei vini di Romania. Si trattava delle vernacce liguri e di vini del sud Italia, provenienti da zone rimaste per secoli sotto il dominio bizantino, la Calabria e parte della Campania. Per essi nacque la dizione vino “greco”, che equivaleva all’epoca per “bizantino”, in contrapposizione al vino detto “latino”, prodotto nel resto d’Italia, ma soprattutto con caratteristiche ben diverse. Lo storico Melis ha individuato in Tropea il porto d’imbarco della produzione calabrese, che poi arrivava a Napoli. Qui era preso in carico dai mercanti genovesi e pisani che lo ridistribuivano per tutto il Mediterraneo occidentale, nell’Italia del Nord e oltralpe. Il termine “greco” venne poi usato anche in senso lato, non solo per indicare la reale provenienza geografica, ma per tutti i vini che ne ricordavano lo stile. Questo termine è rimasto in eredità nei nomi di diversi vini e vitigni attuali.
Anche altri vini italiani iniziarono poi a rientrare fra i più costosi. La ribolla, commercializzata anch'essa dai veneziani, era originaria forse del Friuli o dell’Istria. Era un vino bianco dolce e forte, ma meno di quelli orientali. Il trebbiano era un bianco ancora più secco, di probabile origine toscana, diffuso in molte altre regioni. Inoltre, la vernaccia iniziò ad essere prodotta anche in Toscana.
Come nei casi precedenti, infatti, i nomi di questi vini erano nati da legami geografici ma poi divennero indicativi di una tipologia di vino. Potevano quindi essere prodotti in diversi territori, con le varietà di uve locali. Trebbiani e vernacce furono principalmente commercializzati da genovesi e pisani, poi anche dai fiorentini.
La vernaccia, vino per eccellenza nel Decamerone. La vernaccia è stato fra i primi vini a prendere un nome nel Medioevo italiano, grazie ai genovesi che riuscirono a conferirgli lo status di vino di lusso, capace di competere con i vini di Romania. Il successo fece poi uscire la produzione dai confini liguri, soprattutto in Toscana e in Sardegna. Questo vino è lodato e decantato dai poeti, come Folgore da San Gimignano nel '200, e nelle novelle del Boccaccio o del Sercambi del '300. Soprattutto è il Boccaccio che la cita di frequente nel Decamerone. Nella novella "Calandrino e l'elitropia", la vernaccia è il simbolo del puro godimento. Maso racconta del paese del Bengodi, dove le vigne si legano con le salsicce e le montagne sono fatte di formaggio parmigiano grattugiato. Lì si beve solo vernaccia, che scorre pure nei fiumi: “e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua”. Nella novella "Calandrino ed il maiale rubato", la vernaccia assume un valore quasi magico. Bruno e Buffalmacco, che si divertono a prendere in giro l'ingenuo Calandrino, cercano di convincerlo a fingere il furto del suo maiale, per ingannare la moglie e godersi i soldi della vendita. Visto il suo rifiuto, glielo rubano di nascosto e lo accusano di aver attuato il piano da solo. A questo punto lo spingono ad organizzare una sorta di "ordalia", quelle prove del più antico Medioevo in bilico fra religione e magia, per dimostrare chi fosse l'autore del furto. Gli fanno credere che sono in grado di preparare dei biscotti allo zenzero incantati, che vanno serviti con della vernaccia, che risulteranno indigesti per il colpevole del furto. Alla prova sono invitati tutti gli abitanti sospetti del paese, ai quali sono serviti i biscotti ed il vino. I due burloni fanno però in modo di far mangiare al solo Calandrino alcuni biscotti resi amarissimi dall'aggiunta di aloe, convincendo tutti della sua colpevolezza. La beffa finale è che il povero uomo è anche costretto a regalare loro due capponi, perché non raccontino nulla dell'accaduto a sua moglie. In un'altra novella la vernaccia dimostra anche capacità curative. Infatti, il brigante-gentiluomo Ghino di Tacco cura il terribile mal di stomaco dell'abate di Clignì con una dieta a base di pane tostato, fave e vernaccia ("Ghino di Tacco e l'abate di Clignì").
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Bibliografia:
Prof. Alfonso Marini (AA 2020-2021) Dispense del corso di storia medievale.
Pini, Antonio Ivan (2003) Il vino del ricco e il vino del povero. In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 585-598.
Antonio Saltini (1998), Per la storia delle pratiche di cantina (parte 1) enologia antica, enologia moderna: un solo vino, o bevande incomparabili? In Rivista di Storia dell’Agricoltura n.1, giugno 1998.
Anna Maria Grasso, Girolamo Fiorentino (2012) Archeologia e storia della vite e del vino nel medioevo italiano. Il contributo dell’archeobotanica e di nuove metodologie di analisi integrate per la caratterizzazione varietale applicate ai contesti archeologici della Puglia meridionale. 2012, VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale
AAVV (1988) Il vino nell’economia e nella Società italiana medioevale e moderna. Convegno di Studi Greve in Chianti, 21-24 maggio 1987 Firenze, in Quaderni della Rivista di Storia dell’Agricoltura, Accademia dei Georgofili Firenze.
Emilio Sereni (1961), Storia del paesaggio agrario italiano, Editori Laterza.
Pietro Stara (2013), Il discorso del vino - origine, identità, come problemi storico-sociali, ed. Zero in Condotta.
Il vino nell'Alto Medioevo: fra vita mondana e sacralità
L’Italia, l’Enotria degli antichi greci (= “terra del vino”), continuò ad esserne la patria anche nel Medioevo, ma la transizione dall’epoca romana non fu certo facile (come ho già raccontato qui). Già dalla fine dell’Impero Romano e nell’Alto Medioevo si ebbe una crisi politica generalizzata, con guerre ed invasioni, che si rifletté anche nella crisi della viticoltura. La coltivazione della vite richiede alta specializzazione, oltre che cure costanti e costose per quasi tutto l’anno, per cui patisce più di tante altre coltivazioni nei momenti d'instabilità.
Gregorio Magno scriveva nel VI secolo che in Italia “eversae urbes, castra eruta … nullus terram nostram cultor inhabitat”: “sono distrutte le città, diroccati i castelli, … deserte di coltivatori le terre”. La produzione di vino quindi calò in modo importante, anche se in modo diverso nelle diverse aree europee.
In generale, la riduzione della produzione fece tornare il vino ad essere un prodotto quasi solo da ricchi e potenti, come in epoca antichissima. La massa del popolo ripiegò in parte su prodotti alcolici più poveri, ottenuti con la fermentazione dei frutti disponibili, come i vini di mele, di fichi, di corniole, di sorbi, di more, di nespole, ecc. Come accennato nel post precedente, si persero le raffinate tecniche produttive romane, sia viticole che enologiche, come il sapere in tanti altri campi. Nel Medioevo qualcosa poi riemerse, come testimoniato dal trattato agrario del bolognese Pietro de’ Crescenzo (1304). La maggior parte di queste conoscenze saranno recuperate o riconquistate ancora più tardi.
In questa transizione complicata, ebbe un grande ruolo la religione cristiana. Il vino era usato nei riti religiosi fin dall’antichità ma nel Cristianesimo assunse un’importanza come forse mai prima. La Messa prese forma proprio in questo periodo e nel rito eucaristico veniva ripetuto l’atto di Gesù Cristo dell’Ultima Cena (“Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”). Il Medioevo fu un periodo molto ricco di simbolismi: il pane era anche simbolo della vita attiva, il vino simboleggiava quella contemplativa, cioè la capacità di conoscere l’essenza delle cose, virtù che Dio ha concesso solo agli esseri umani fra tutte le sue creature. Ad ogni modo, il vino divenne una materia prima fondamentale per la messa e la sua produzione si rese quindi indispensabile per ogni chiesa e per ogni convento. La produzione del vino da messa venne tentata ovunque, anche dove le condizioni climatiche erano proibitive o comunque difficili.
Il vino miracoloso. Il vino ebbe anche un ruolo molto rilevante nei tanti miracoli attribuiti ai santi medievali. Dal libro "Tractatus de miraculis S. Francisci" (Trattato dei miracoli di San Francesco)" di Tommaso da Celano, 1247-1257, si racconta: "Nel periodo in cui era presso l'eremo di Sant'Urbano, il beato Francesco gravemente ammalato, con labbra aride, domandò un po' di vino, gli risposero che non ce n'era. Chiese allora che gli portassero dell'acqua e quando gliela ebbero portata la benedisse con un segno di croce. Subito l'acqua perse il proprio sapore, e ne acquistò un altro. Diventò ottimo vino quella che prima era acqua pura, e ciò che non poté la povertà, lo provvide la santità. Dopo averlo bevuto, quell'uomo di Dio si ristabilì molto in fretta e come la miracolosa conversione dell'acqua in vino fu la causa della guarigione, così la miracolosa guarigione testimoniava quella conversione."
Nella lapide funebre di un abate milanese del IX secolo c’è scritto: “Templa, domos, vites, oleas, pomeria struxit”, cioè “costruì palazzi e case, piantò viti, olivi ed alberi da frutto”. Gli ordini monastici ed i vescovi si occuparono abbondantemente di viticoltura non solo per scopi liturgici, ma anche per avere tale bevanda come segno di ospitalità verso gli ospiti illustri (o meno). Intorno all’anno mille, le invasioni e le guerre si allentarono ed iniziò a ricomporsi il vivere civile. Le vigne si estesero anche al nascente nuovo ordine politico, fatto da principi e signori, per imitazione, per prestigio e per onorare gli ospiti.
Un’altra religione, l’Islam, che nacque in questo periodo (VII sec. d.C.), portò invece alla sparizione della produzione del vino in tutti quei paesi mediterranei che finirono sotto la sua influenza. Sembra che sopravvisse solo una piccola produzione fatta per scopi farmaceutici ma anche per un consumo clandestino, più o meno tollerato dalle autorità, oppure legata alle comunità cristiane ed ebraiche, che mantennero spesso la possibilità di produrre vino in deroga, dietro il pagamento di una tassa. Un caso particolare sembra invece essere rappresentato dalla Sicilia, la cui invasione araba iniziò nel 827 e durò fino all'inizio della conquista normanna, nel 1061. Una ricerca recentissima ha rivelato che nella Sicilia occupata dagli arabi la produzione del vino non solo continuò ma che addirittura aumentò rispetto al periodo precedente. Non si sa se gli arabi siciliani producessero o bevessero vino, quasi sicuramente lo facevano le numerose comunità cristiane che si opposero tenacemente all'islamizzazione. Ad ogni modo si è accertato che ci fu un rilevante commercio di vino siciliano nel Mediterraneo durante il periodo della dominazione araba.
Comunque, in generale, nell'Alto Medioevo nacque una nuova geografia del vino, definita più o meno dai confini della Cristianità, con un baricentro un po' più spostato dal Mediterraneo verso il cuore dell’Europa.
La culla del sapere agrario allora era il mondo arabo, come per tanti altri campi. Fra i moltissimi trattati sull'agricoltura, quello considerato più importante fu scritto da Ibn al-Awwam nel XII secolo. Nel suo Libro di Agricoltura fu capace di fondere l'eredità delle conoscenze dei Romani, soprattutto di Columella, con quelle della sua epoca. Non parla però di vino, data la proibizione coranica delle bevande alcoliche. Cita solo la coltivazione dell’uva, per il consumo fresco ed essiccata. La coltivazione è descritta nelle due solite forme che abbiamo già imparato a conoscere, diffuse in tutto il Mediterraneo dai Romani: la vite bassa, coltivata ad alberello senza sostegno, a volte in buche, o con pali, e quella alta, spesso “maritata” ad altri alberi da frutto o a pergolati.
Se queste indicazioni valgono in generale, ci sono però anche delle differenze importanti fra il mondo italiano del vino e quello dell’Europa più centrale e nordica. Dove le condizioni climatiche erano più difficili, la produzione di vino era più onerosa e complicata, per cui per secoli la viticoltura rimase appannaggio quasi esclusivo di ecclesiasti o signori. Invece nel nostro clima mediterraneo rimase notevolmente diffusa anche nell'ambito contadino, perché molto più spontanea e semplice da gestire. Ad esempio, Grasso e Fiorentino (2012) hanno esaminato i resti archeo-botanici di semi di vite in 39 siti archeologici medievali di tutta Italia, dal VI al XV sec. d.C., e hanno trovato riscontri in quasi tutti, non solo nei monasteri ma anche nei villaggi, anche nei secoli più antichi.
La viticoltura in Italia fu sicuramente ridotta ma non in modo così drammatico come altrove. Possiamo anche pensare ad una situazione a macchia di leopardo, dove alcune zone patirono di più ed altre invece ebbero più continuità col passato. Ad esempio, nel VI sec. d.C., Cassiodoro, ministro del re goto Teodorico, testimonia in una lettera della qualità dei vini prodotti dai contadini dei colli veronesi, in particolare del vino Acinaticum, un vino passito che così descrive: "Una ricchissima imbandigione della mensa regale viene lodata quale ornamento dello Stato [...] e perciò devono essere procurati i vini che l’Italia feconda produce in modo singolare. ... Questo è vino pretto, regale nel colore, singolare nel sapore. [...] La sua dolcezza si avverte con ineffabile soavità; la sua concentrazione riceve vigore da non so quale forza; al tatto inspessisce la sua densità, così che diresti che è un liquido carnoso o una bevanda da mangiare."
La "sete del morto". Per l'uomo del Medioevo il vino stava fra piacere e religione, fra vita terrena e ultraterrena. Questa concezione è esemplificata magnificamente nella Facezia XXX dei Motti e facezie del Pievano Arlotto (1484). Un giorno, all'alba, il Pievano sta parlando con un oste al colle dell'Uccellatoio quando si avvicina a lui un uomo ansante che gli chiede di offrirgli del vino: "Per l'amor di Dio, pagatemi una mezzetta ché io ispasmo dalla sete". Con sorpresa, il Pievano riconosce nell'uomo il celebre umanista Leonardo Bruni di Arezzo e rimane stupito di tanto affanno e dell'ora così mattiniera. Il Bruni risponde: "Nun vedi tu ch'i' sono morto, cammino via e non posso stare con voi; e sono in tanta calamità che io ispasimo di sete e non ho di che pagare un poco di vino?". Il Pievano gli chiede allora stupito che fine hanno fatto tutte le sue ricchezze, la sua scienza, la sua illustre fama ... Gli fa insomma la morale sul tema della caducità dei beni terreni. La risposta del Bruni è ovviamente che nulla resta dopo la morte, che è saggio godersi la vita con moderazione e fare anche del bene. Il defunto viene mostrato come un uomo pieno di angoscia, disorientato di fronte ad un cammino sconosciuto. Rimugina sulla sua vita, è colmo di paura e di dubbi per il giudizio divino che verrà. Ha fretta, ha freddo ma nello stesso tempo arde dalla sete. L'incontro fra il vivo ed il morto avviene all'alba, su una strada sulla sommità di un colle, in una situazione ordinaria ma nello stesso tempo soprannaturale, ricca dei simbolismi sul tema del transito. Come racconta lo storico Franco Cardini, la "sete del morto" è un tema che ha radici antiche nel Mediterraneo. In diverse civiltà, in particolare quelle delle aree aride, in cui ben si conosce la sofferenza della sete, si credeva che i morti avessero difficoltà a lasciare la vita e soffrissero di questa sorta di sete, cioè l'urgenza di passare oltre, di morire definitivamente e tornare alla terra. Hanno come bisogno che i vivi, dissetandoli, li aiutino a morire. Gli antichi greci versavano acqua nei crepacci delle tombe nelle feste delle Hydrophoria. Nelle celebrazioni dette Antesterie, si credeva che le prime piogge di primavera dissetassero la sete dei morti. Ricordo anche la parabola evangelica del povero Lazzaro e del ricco epulone (dal latino= "banchettatore") che non dà nulla al mendicante degli avanzi della sua ricca tavola. Dopo la morte, Lazzaro va in paradiso ed il ricco brucia nelle fiamme dell'inferno. Il dannato invoca Abramo che mandi Lazzaro ad intingere almeno il dito nell'acqua per dare sollievo alla sua tremenda sete. Nel Cristianesimo l'acqua è però più legata al battesimo. L'ultima bevuta, in continuità col mondo classico greco-romano, è invece il bicchiere del commiato dagli amici, quindi anche l'ultima bevuta della veglia (o del banchetto) funebre, oltre che il conforto dell'Eucarestia. Il Pievano Arlotto offre al morto, stanco e spaventato, il calore della carità e dell'ultimo bicchiere di vino, che gli infonde la forza ed il coraggio per il suo difficile viaggio.
Continua ...
Bibliografia:
Prof. Alfonso Marini (AA 2020-2021) Dispense del corso di storia medievale.
Pini, Antonio Ivan (2003) Il vino del ricco e il vino del povero. In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 585-598.
Antonio Saltini (1998), Per la storia delle pratiche di cantina (parte 1) enologia antica, enologia moderna: un solo vino, o bevande incomparabili? In Rivista di Storia dell’Agricoltura n.1, giugno 1998.
Branca Paolo (2003) Il vino nella cultura arabo-musulmana. Un genere letterario… e qualcosa di più. In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 165-191.
Anna Maria Grasso, Girolamo Fiorentino (2012) Archeologia e storia della vite e del vino nel medioevo italiano. Il contributo dell’archeobotanica e di nuove metodologie di analisi integrate per la caratterizzazione varietale applicate ai contesti archeologici della Puglia meridionale. 2012, VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale
AAVV (1988) Il vino nell’economia e nella Società italiana medioevale e moderna. Convegno di Studi Greve in Chianti, 21-24 maggio 1987 Firenze, in Quaderni della Rivista di Storia dell’Agricoltura, Accademia dei Georgofili Firenze.
Emilio Sereni (1961), Storia del paesaggio agrario italiano, Editori Laterza.
Pietro Stara (2013), Il discorso del vino - origine, identità, come problemi storico-sociali, ed. Zero in Condotta.
https://www.agi.it/cultura/news/2021-02-24/islam-sicilia-vino-archeologia-11540051/
Lo splendido periodo del vino nel Medioevo italiano
“… E perché meno ammiri la parola / Guarda il calor del sol che si fa vino, / giunto a l’omor che da la vite cola.” (Dante, Divina Commedia, Canto XXV del Purgatorio)
Se si deve parlare di vino e Medioevo, non è possibile non citare Dante, che ci regala una bellissima definizione: il vino nasce dalla fusione perfetta fra il calore del sole e gli umori terrestri della vite. Da perfetto uomo medievale, non è però proprio di vino che vuole parlare. La metafora gli serve per fare ragionamenti di stampo religioso. Dante sta spiegando il momento in cui Dio insuffla nel feto l’anima intellettiva, quella che caratterizza l’essere umano da tutti gli altri esseri viventi. Con questo atto, l’anima intellettiva riassorbe in sé le due anime naturali, presenti fin dalla fecondazione: quella vegetativa, in comune con le piante, e quella sensitiva, propria degli animali. Nasce quindi un’intima unione, al punto che non si può più distinguere un’anima dall’altra, proprio come descritto per il vino.
Tutto questo ci introduce perfettamente nella mentalità dell'uomo medievale, per il quale il vino è vino, da bere, da commercializzare, ma diventa anche il sangue del Cristo, simbolo religioso per eccellenza, denso di significati e di sfaccettature. Il vino, come abuso o vizio, è osteggiato dalla Chiesa che, nello stesso tempo, lo rende protagonista del suo rito religioso e contribuisce a diffonderne la produzione come non mai.
Il Medioevo italiano è stato un periodo di grandissimo splendore per la produzione del vino, soprattutto quello indicato come Basso, cioè l’epoca dei Comuni. Fu prodotto e consumato in grandissima quantità, come mai più dopo di allora. L'Italia fu anche il centro dei commerci dei vini di tutto il Mediterraneo e verso l'Europa continentale.
Dall’antichità al Medioevo: non solo dall’anfora al legno
Nei libri di storia del vino spesso si semplifica il passaggio dalla produzione antica a quella medievale focalizzando l’attenzione solo sul cambio dei contenitori. Come noto, in antichità si usavano per la vinificazione prevalentemente anfore in terracotta (accuratamente impermeabilizzate con cera, resine, gesso e pece), mentre nel Medioevo dominava il legno. Secondo lo storico agronomo Saltini, questa dicotomia era forse così netta per il resto d’Europa, ma probabilmente non per l’Italia. Ad ogni modo, la trasformazione decisamente più importante non fu quella ma che furono perse le notevoli tecniche produttive raggiunte in epoca romana, sia in ambito viticolo che enologico. Come ho cercato di raccontarvi nei miei precedenti post, in epoca romana, soprattutto dalla tarda Repubblica, si erano raggiunte tecniche produttive molto avanzate che consentivano di produrre una grandissima varietà di vini. Si andava da quelli più a buon mercato a quelli più raffinati, vini fermi e frizzanti, fino ai veri e propri vini di territorio (come diremmo oggi). I vini non erano più bevuti per forza aromatizzati per coprirne i difetti, come in epoca antichissima, ma erano spesso bevuti puri. Inoltre, erano conservabili. Si andava dalla produzione di vini giovani a quelli capaci di lunghissimi invecchiamenti. Nel Medioevo si tornò ad una produzione molto più semplice di vini primordiali. Anche nel Basso Medioevo si producevano vini in genere incapaci di superare i sei mesi di vita (come scrive Saltini). Ci vorranno ancora diversi secoli prima che certe tecniche tornino ad essere riscoperte e reintrodotte nella produzione vinicola.
Nell’epoca Medievale (e anche dopo) i vini erano consumati assolutamente entro l’anno. In realtà, già dopo alcuni mesi dalla produzione si alteravano nel gusto, costringendo ad attendere con ansia i prodotti della successiva vendemmia. Vedremo come, per secoli, i soli vini che riuscivano a durare un po' più a lungo e quindi ad essere trasportati erano solo alcuni vini mediterranei, grazie al tenore alcolico. I vini prodotti nei climi continentali, soprattutto quelli più nordici, duravano molto poco, dato il basso accumulo di zucchero naturale nell'uva e, quindi, la bassa gradazione alcolica.
In una lettera scritta dal notaio fiorentino Lapo Mazzei (1350-1412) a Marco Datini, si legge che il vino, passata la metà di luglio, aveva il sapore del “guaime”, un’erba usata come foraggio per il bestiame. Per gli statuti di diversi comuni dell’Italia centrale e settentrionale, la data di inizio della vendemmia era indicata per legge, perché non nascessero speculazioni. Si voleva evitare che si anticipasse sempre più la raccolta, per vendere il vino nuovo prima di tutti gli altri. Nel Basso Medioevo forse qualche miglioramento tecnico era avvenuto se lo stesso Mazzei testimonia in altri scritti di alcune Ribolle vecchie di 2-3 anni, ma sappiamo che erano casi rari.
Il vino era molto diverso da quello che degustiamo oggi. I frequenti difetti erano coperti al momento del consumo, come in epoca greca ed etrusca, con l'aggiunta di spezie, erbe ed aromi vari, a volte anche dolcificato. Dovremo attendere ancora a lungo per avere un prodotto senza pecche. Secondo lo storico francese André Tchernia, la fine del “medioevo del vino”, inteso come prodotto dal gusto difficile in quanto più o meno ricco di difetti (soprattutto un frequente spunto acetico, ossidazioni, alterazioni microbiologiche di varia natura, ecc.) avvenne ben dopo l’epoca omonima. Anche i migliori avevano di base gusti per noi difficili. Una vera trasformazione produttiva si avrà solo dopo il XVIII secolo.
Ad ogni modo, non è proprio corretto parlare di un vino medievale, così come ho cercato di far capire che non esisteva un vino romano o dell'antichità. Il periodo medioevale è stato molto lungo e con notevoli trasformazioni. Vedremo meglio come erano questi vini nel prossimo post.
Il vino per tutto: ma quanto bevevano nel Medioevo!?!
“Vinum dulce, gloriosum / pingue facit et carnosum / atque pectus aperit. / Et maturum, gusto plenum / valde nobit est amenum / quia sensus asuit. / Vinum forte, vinum purum / reddit hominin securum / et depellit frigora …”.
Anomino medievale
“Il vino, dolce e glorioso, ingrassa l’uomo e gli dà salute. Quello maturo e dal gusto pieno è molto gradito ed acuisce i sensi. Il vino forte e puro rende l’uomo sicuro ed allontana il freddo …”
Il consumo di vino nel Medioevo italiano (almeno dal ‘200), come già in epoca antica, era quotidiano e molto abbondante. Ben diversa era la situazione nell'Europa continentale, dove il vino rimase la bevanda del clero e dei ricchi per un tempo molto più lungo, sia per il produzione che per il consumo.
Non dovete però pensare che fossero sempre tutti ubriachi :-). I vini più alcolici, tipo i nostri, allora erano riservati solo per gli eventi importanti, come la visita di ospiti, i banchetti, le feste, ... Il consumo quotidiano riguardava principalmente un vino leggero e poco alcolico, spesso allungato con acqua. Spessissimo era bevuto anche il cosiddetto “vinello” o “acquerello” (lo “loria” dell’epoca romana) un prodotto leggermente alcolico ottenuto ripassando le vinacce con l’acqua. La produzione del vinello sparirà in Italia solo con il primo Novecento, vietata per legge per contrastare le frodi in commercio. Tornando al Medioevo, fra le diverse tipologie di vino, secondo gli storici, non c’era solo una distinzione fra vino da ricchi e vino da poveri. Tolti i vini più costosi, che ovviamente i meno abbienti non si potevano permettere, sembra che tutti bevessero vino in certe occasioni e vini leggeri (o annacquati o il vinello) più quotidianamente, per dissetarsi.
Infatti all’epoca bere acqua era molto poco salutare: i fiumi ed i pozzi erano spesso sporchi di fango e rifiuti, l’acqua aveva facilmente contaminazioni microbiologiche che causavano dissenterie o altre malattie (come succede ancora oggi in certi paesi molto poveri). Per questo si considerava più salubre bere un vino molto leggero. Non è così sbagliato: anche una bassa gradazione alcolica può essere sufficiente per eliminare alcuni microorganismi.
Quanto bevano? Si è stimato che la media di consumo di un cittadino di Firenze o Bologna nel Quattrocento potesse essere di quasi due litri al giorno. Considerate che la media oggi in Italia è di circa 22 litri all'anno. Il paragone è impossibile: oggi beviamo vini più alcolici, giustamente con moderazione (e non tutti sono consumatori di vino). Non bevevano solo gli adulti, uomini e donne, ma anche i bambini. Ad esempio, nel trattato quattrocentesco di Bartolomeo Platina, De honesta voluptate et valetudine il vino viene sconsigliato solo per i lattanti sotti i 5 mesi. Per i bambini ed i ragazzi fino ai 14 anni era indicato però solo durante i pasti, molto ben allungato per i più piccoli. Dopo i 14 anni erano considerati adulti.
Il vino era ovviamente anche una forma di svago, di fuga dalle difficoltà della vita quotidiana. La celebrazione del vino entrò così anche nei canti goliardici dei Clerici vaganti, gli studenti che si muovevano da tutta Europa per studiare nelle città italiane dove erano nate le prime università al mondo, Bologna in testa, Padova e tante altre. Ecco un canto gogliardico del XIII sec., In taberna quando sumus, nella celebre rivisitazione di Carl Orff (Carmina Burana).
... Tam pro papa quam pro rege / bibunt omnes sine lege. /Bibit hera, bibit herus, / bibit miles, bibit clerus, /bibit ille, bibit illa, /bibit servus cum ancilla, / bibit velox, bibit piger, / bibit albus, bibit niger, / bibit constans, bibit vagus, / bibit rudis, bibit magus. / Bibit pauper et egrotus, / bibit exul et ignotus, / bibit puer, bibit canus, / bibit presul et decanus, / bibit soror, bibit frater, / bibit anus, bibit mater, / bibit ista, bibit ille, / bibunt centum, bibunt mille...
... Tanto per il papa quanto per il re, / tutti bevono senza misura. / Beve la signora, beve il signore, / beve il militare, beve il clero, / beve quello, beve quella, / beve il servo con l'ancella, / beve il veloce, beve il pigro, / beve il bianco, beve il nero, / beve il costante, beve il frivolo, / beve l'ignorante, beve il dotto. / Beve il povero e il malato, / beve l'esule e lo straniero, / beve il fanciullo, beve l'anziano, / beve il vescovo e il decano, / beve la suora, beve il monaco, / beve la nonna, beve la madre, / beve questa, beve quello, / bevono cento, bevono mille...
Il vino all’epoca non era solo consumato per diletto e per dissetarsi ma era anche considerato positivo per la salute, una sorta di vero farmaco corroborante per i malati, come in antichità. Il vino è uscito definitivamente dai trattati ufficiali di medicina solo col '700. Veniva dato ai degenti ed ai pellegrini negli ospedali. Anche ai poveri venivano elargiti, come alimenti fondamentali, sia pane che vino. Le calorie offerte dal vino erano importantissime per integrare i pasti quotidiani. Erano frequenti le donazioni di vino da parte di cittadini facoltosi alle istituzioni caritatevoli, annotate minuziosamente nella contabilità delle Opere così come in quella domestica dei benefattori.
Il vino era parte anche della paga dei lavoratori, sia nei campi che per manovali e muratori e tanti altri, che potevano anche rifiutare un lavoro se il vino (o il vinello) era negato o non era abbastanza buono. Scrive il francese Ch. M. de la Roncière nel Trecento, in visita a Firenze, che i salariati fiorentini patiscono più la mancanza di vino che di carne e annota stupito: “Le vin coule à flots sur les tables florentines” (Il vino scorre a fiotti sulle tavole dei fiorentini). Anche i religiosi bevevano abitualmente. I frati dell'ospedale di Santa Maria della Scala di Siena che trasgredivano alle regole, nel primo ‘300, erano puniti con una dieta di solo pane, ma il vino non era comunque fatto mancare.
Le osterie e le mescite dovevano avere regolari licenze rilasciate dai Comuni, mentre il vino poteva essere venduto per il consumo casalingo o ai dettaglianti da qualsiasi privato. Non esisteva propriamente il produttore di vino, come oggi. A Firenze, ad esempio, vendeva vino chiunque avesse un pezzo di terra dedicato alla vigna, piccolo o grande che fosse, sempre che producesse un’eccedenza rispetto il proprio consumo famigliare.
I locali per il consumo del vino erano numerosissimi nelle città e nei villaggi. Scrive ancora de la Roncière che a Firenze si trovavano mescite e taverne a tutti gli angoli di strada. Gli orari di esercizio erano rigidamente regolamentati dagli Statuti Comunali, influenzati dal controllo religioso dell’epoca sulla vita sociale. Ad esempio i vinattieri fiorentini dovevano stare chiusi durante la Quaresima ed il Venerdì Santo ed in altri periodi religiosi. Sempre a Firenze, non era possibile aprire un’osteria a meno di trenta braccia da chiese e da croci. A Montopoli si doveva chiudere ogni rivendita di vino mentre si celebrano le funzioni sacre nelle chiese, quindi per quasi tutti i giorni festivi. A spaventare le autorità non era solo il vino ma l’abbinamento col gioco d’azzardo, anch’esso severamente regolamentato. Il vino era venduto anche negli alberghi. A Montaione, nel Quattrocento, si trovano liste distinte fra quelli che ne dispongono, favoriti dal Comune, da quelli sprovvisti di vino.
Nella novella del Boccaccio "Cisti fornaio" (Decamerone, 1350-1353, Giornata sesta, novella II) Pampinea racconta di Cisti, fornaio intelligente e cortese nonostante la sua classe sociale. Nella sua bottega aveva "tra l'altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado". Tutte le mattine vedeva passare davanti alla sua bottega messer Geri Spina, nobile fiorentino, in compagnia di altri signori, soprattutto ambasciatori pontifici. Avrebbe voluto invitarli a bere e far parte di quella bella compagnia ma, data la sua classe sociale, egli non poteva farsi avanti. Così iniziò a mettersi ogni mattina fuori dalla sua bottega a sorseggiare con grande soddisfazione uno dei suoi migliori vini bianchi. Dopo qualche giorno, sia per la curiosità che per la sete, la compagnia di Geri Spina chiese di assaggiare il vino e tutti restarono colpiti dalla sua bontà. Da allora, ogni giorno, il gruppo si fermava dal fornaio a chiacchierare e degustare buoni vini. Alla partenza degli ambasciatori, Geri Spina volle offrire un banchetto ed invitò anche Cisti. Questi però declinò, perché non sentiva di poter partecipare, ma volle comunque mandare un po' del suo ottimo vino bianco. Geri mandò quindi un servo a prendere il vino. Questi, che voleva tenersene una parte per sé, arrivò da Cisti con un fiasco molto grande. Cisti intuì l'intento del servo e lo rimandò indietro, dicendogli che Geri, con quel fiasco, non lo mandava certo da lui, ma piuttosto a prendere l'acqua in Arno. La scena si ripetè due volte. Geri chiese allora al servo di mostrargli il fiasco e vedendone la dimensione, capì l'accaduto. Cisti confidò a Geri che non si rifiutava di riempire il fiasco per avarizia ma perché quello era un vino di tal valore che non poteva essere sprecato per grossi fiaschi. Quando il servo tornò col fiasco giusto, Cisti lo riempì e e lo donò per il banchetto. Così Geri, capendo l'intelligenza e l'arguzia di Cisti al di là della classe sociale, strinse con lui un rapporto di amicizia. "Belle donne, io non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato d’anima nobile vil mestiero, sì come in Cisti nostro cittadino e in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d’altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio."
Segue ...
Bibliografia:
Prof. Alfonso Marini (AA 2020-2021) Dispense del corso di storia medievale.
Pini, Antonio Ivan (2003) Il vino del ricco e il vino del povero. In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 585-598.
Antonio Saltini (1998), Per la storia delle pratiche di cantina (parte 1) enologia antica, enologia moderna: un solo vino, o bevande incomparabili? In Rivista di Storia dell’Agricoltura n.1, giugno 1998.
Branca Paolo (2003) Il vino nella cultura arabo-musulmana. Un genere letterario... e qualcosa di più. In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 165-191.
Anna Maria Grasso, Girolamo Fiorentino (2012) Archeologia e storia della vite e del vino nel medioevo italiano. Il contributo dell’archeobotanica e di nuove metodologie di analisi integrate per la caratterizzazione varietale applicate ai contesti archeologici della Puglia meridionale. 2012, VI Congresso Nazionale di Archeologia Medievale
AAVV (1988) Il vino nell'economia e nella Società italiana medioevale e moderna. Convegno di Studi Greve in Chianti, 21-24 maggio 1987 Firenze, in Quaderni della Rivista di Storia dell’Agricoltura, Accademia dei Georgofili Firenze.
Video sul territorio della Bolgheri DOC
Il Consorzio Bolgheri DOC ha realizzato questo video di presentazione del nostro territorio. Buona visione!
Criseo 2019 super!
Il Criseo, essendo un bianco che nasce in una terra nota per i grandi rossi, tende sempre ad essere un po' poco considerato, ma poi convince sempre tutti per la sua grandissima qualità ed eccezionalità. Così ha convinto anche due grandi guide italiane dei vini, come leggo nelle copie che mi sono appena arrivate, il Gambero Rosso e la Guida Veronelli.
Il Gambero Rosso gli ha conferito i Due Bicchieri Rossi, diciamo ad un soffio dal podio dei TreBicchieri. Gigi Brozzoni della Guida Veronelli gli ha attribuito ben 93 punti.
Grazie di cuore ad entrambe le redazioni.
Chiusura per ferie
Chiudiamo per riposarci un po’: riapriremo lunedì 10 gennaio.
Buone feste e buon anno a tutti voi!
Guado al Melo News 2021
Ecco il nostro Guado al Melo News, con il racconto dell'ultima vendemmia ed i ricordi dell'anno. Qui c'è la versione in PDF.
Una mostra a Faenza sulle ceramiche da vino, dall'antichità al design contemporaneo
"Gioia di ber", un titolo evocativo per questa mostra aperta dal 26 novembre al 30 aprile al MIC di Faenza, dedicata alle ceramiche da vino (e da acqua) in Italia, dall’antichità classica al design contemporaneo.
La mostra si propone di focalizzare le forme ceramiche del bere dal mondo greco, etrusco e romano, fino agli sviluppi del design contemporaneo, analizzando il loro impiego nella convivialità della tavola e legando l’uso delle ceramiche da vino e da acqua ai contesti sociali di ogni epoca, per coglierne gli elementi di originalità e quelli di continuità.
MIC Faenza, viale Baccarini 19, Faenza (RA)
Ingresso: 10 euro, ridotto 7 euro, 5 euro i faentini
Info: 0546697311,
info@micfaenza.org
http://www.micfaenza.org/it/mostre/415-gioia-di-ber.php
Recensioni: Rute 2018, vino di grande eleganza
Grazie alla redazione di WineNews che ha scritto un'ottima recensione per il nostro Rute 2018! Leggetela qui sotto.
Atis e Jassarte Stelle d'Oro
Grazie di cuore alla guida I Vini di Veronelli che ha attribuito le Tre Stelle d'Oro ai vini, assaggiati in anteprima, Atis 2018 e Jassarte 2018, con punteggi veramente notevoli: 96/100 e 94/100.
La nuova annata 2018 di entrambi sarà disponibile, come al solito, dalla prossima primavera. Per ora sono ancora in vendita i 2017. Il 2018 è stata un'annata molto particolare.
Era stata preceduta da un 2017 molto siccitoso, che sicuramente ha un po' inibito la produzione successiva. L'inverno e la primavera sono state molto piovose, mentre l'estate è stata nella norma, con qualche pioggia sul finale. La sorpresa è arrivata nella seconda metà di settembre, con il sole, ma temperature abbassate di circa 10 gradi grazie al vento di grecale. Atis e Jassarte hanno beneficiato in particolare di questa fine d'estate ed inizio autunno così particolari, esprimendo una grazia particolare.
A breve, il 12 novembre, ci sarà la presentazione ufficiale della nuova guida. Qui trovate le informazioni relative.
Fine della stagione turistica
Ricordo che con il 31 ottobre finisce per noi la stagione turistica, per cui non ci sarà più un orario di apertura della cantina per degustazioni e la visita del museo del vino. Gli orari che vedrete su Google saranno quelli d'ufficio.
Rimangono possibili invece ancora le visite guidate con degustazione (Visita Plena), sempre e solo su prenotazione. Per gruppi di almeno 10 persone, si possono prenotare tutti i giorni. Per coppie o piccoli gruppi famigliari, si svolgono preferibilmente nella giornata di sabato, con inizio alle ore 10.30 e alle ore 15.00, raggruppando più richieste.
Scriveteci o chiamateci (in orario di ufficio) per ogni informazione o chiarimento. tel. 0565 763238 info@guadoalmelo.it
2021 un'annata che sarà ricordata: due parole sulla vendemmia
Venerdì 1° ottobre abbiamo concluso la raccolta dell’annata 2021. È sempre con parsimonia che spendiamo certe parole ma, quest’anno, possiamo sbilanciarci senza paura di smentirci se parliamo di grande annata. Il 2021 è una di quelle annate in cui si può dire che sia andato tutto bene nelle nostre vigne. Ovviamente parlo per la nostra realtà, so bene che altrove ci sono stati problemi. Ricordiamo che l’Italia del vino ha una variabilità incredibile di climi e micro-climi. Qualunque considerazione generalista è sempre fuori luogo.
L’andamento stagionale del 2021 è stato molto regolare nel nostro territorio della Bolgheri DOC. L’estate è stata secca e ben ventilata ma con temperature non eccessive, salvo che per qualche breve periodo. La siccità si è prolungata quasi ininterrotta da metà maggio fino alla raccolta, come frequente sulla nostra costa. Non sono neppure arrivate le solite piogge che spesso rinfrescano e danno un po’ d’acqua nella parte finale dell’estate. Le precipitazioni però erano state molto intense nel periodo invernale e hanno perfettamente sostenuto le vigne per tutta la fase produttiva, nonostante l’estate molto secca.
La vite, si sa, non ha bisogno di molta acqua, ma deve avere quella che gli serve per produrre una grande uva. Non è in sofferenza: questa è la sua terra di origine ed si è evoluta perfettamente proprio per sopravvivere nel clima mediterraneo. In un territorio come il nostro, con condizioni pedoclimatiche perfette per la viticoltura, la disponibilità di acqua è il vantaggio (o il limite) più importante, in grado di determinare la differenza fra un grande vino e un buon vino. Questa differenza nasce dalle scelte fatte alle origini della vigna, prima di tutto nella scelta dei suoli più adatti, cioè quelli che sono in grado di garantire la quantità necessaria di acqua alle nostre estati mediterranee.
Quando si parla di suoli si pone sempre l’accento sulla tessitura (argilloso, sabbioso, ecc.), spesso in modo generalista. Tuttavia, l’elemento forse più importante nell’ambito mediterraneo è la profondità. Solo un suolo profondo consente alla vite di esprimere al massimo la sua incredibile capacità di allungare le proprie radici, per riuscire a raggiungere la falda freatica che si è colmata nelle stagioni fresche e si è abbassata in quelle calde. Questa capacità è anche favorita da suoli più leggeri (sabbiosi), che sono la prevalenza a Bolgheri. Quelli troppo argillosi, qui, con la siccità estiva, diventano impenetrabili alle radici, duri come la pietra. La differenza fra vigna e vigna è infatti visibile per chi sa guardare. Girando per il nostro territorio (o altri mediterranei) quest’estate si vedevano chiaramente vigne in buono stato ed altre in chiara sofferenza idrica, con numerose foglie secche e pochissimi grappoli stentati. I nostri suoli di origine alluvionale sono molto profondi e tendenzialmente sabbiosi. Hanno dimostrato ancora una volta di essere perfetti, alla prova delle estati più siccitose.
L’andamento climatico ha anche sfavorito tutte quelle avversità della vigna legate a condizioni di umidità. I problemi più importanti restano per noi l’oidio e la tignoletta, che abbiamo gestito con grande cura con l’approccio minimale ed integrato della viticoltura sostenibile. L’uva alla raccolta era infatti sanissima, per cui le operazioni di selezione dell’acino sono state quasi superflue quest’anno, se non per togliere qualche raro acino appassito (proprio per essere perfetti).
Sempre rispettando le nostre basse rese produttive, anche la quantità non è stata un problema, come invece accadde nell’annata molto siccitosa e calda del 2017. Il problema, ripeto, non è da noi la siccità estiva. La grande differenza fra il 2017 e il 2021 è stata soprattutto che nel 2017 piovve pochissimo nel periodo invernale. Quest'anno molte zone d'Italia hanno avuto cali produttivi anche per la gelata primaverile. Da noi non ha creato particolari problemi. C'è stato un giorno di vento gelido che ha colpito alcune zone, ma con danni molto limitati per quanto ci riguarda. Il problema a Bolgheri non sono le gelate ma i venti freddi. Le vigne che non corrono troppi rischi sono quelle protette da barriere naturali, come colline o boschi o filari di alberi, nelle direzioni nord (tramontana) e nord-est (grecale).
Questo andamento climatico ottimale si è riflettuto in una maturazione dell’uva molto lenta e regolare. L’invaiatura stessa è stata un po’ ritardata e siamo andati a raccogliere un po’ più tardi del nostro solito. Di norma siamo comunque sempre fra gli ultimi ad iniziare la vendemmia a Bolgheri, un po’ perché siamo in una condizione micro-climatica fra le più fresche e con la massima escursione termica del territorio, un po’ perché non abbiamo alcune delle varietà molto precoci che hanno alcuni nostri colleghi. Abbiamo iniziato col Vermentino dell’Airone, nelle vigne alla Badia, il 17 settembre (nelle annate medie iniziamo intorno al 10 settembre). Il Campo Bianco del Criseo, che è vicino alla cantina nella piccola valle fra le colline e quindi con micro-clima più fresco, è stato raccolto il 21 settembre. La raccolta dei rossi invece è stata abbastanza compressa rispetto al passato, con un avvicinamento del momento di maturazione delle numerose varietà che abbiamo nelle nostre vigne. I primi rossi, Syrah e quel poco di Merlot, sono stati raccolti il 22 settembre e, nel giro di poco più di una decina di giorni, sono venute pronte a scalare tutte le altre, senza quasi più pause, con un lavoro molto intenso e continuo. Abbiamo proceduto col Sangiovese, le diverse partite del Campo Giardino (da cui nasce il Jassarte), il Petit Verdot, il Rebo, … e tutte le altre. Abbiamo concluso col solito Cabernet sauvignon venerdì 1° ottobre. I ragazzi della vendemmia si sono spesi veramente al massimo quest’anno, con grande abnegazione e determinazione, lavorando senza sosta in vigna ed in cantina, sotto la guida esperta di Michele.
Per Michele e me è stata l'ennesima fantastica esperienza di assaggiare i campioni delle uve, poi i mosti in fermentazione, sentire le trasformazioni e prendere le difficili decisioni di volta in volta. In cantina abbiamo costatato la grande qualità di queste splendide uve, con equilibri straordinari, colori impressionanti e grandi profumi. Ad esempio, ci ha entusiasmato la vasca del Campo Bianco, il futuro Criseo, con un naturale colore dorato intenso e un profumo penetrante di albicocca. Quelle del Vermentino per l’Airone è invece più giallo paglierino, con aromi agrumati. Le diverse partite del Jassarte sono un effluvio di incenso, pepe e frutta rossa. Il Cabernet sauvignon sta presentando, in queste fasi iniziali della fermentazione, un intenso e piacevolissimo aroma di tè verde, considerato dagli esperti sintomo di grande qualità per questo vitigno … Nel corso della vinificazione e dell’affinamento gli aromi primari saranno poi arricchiti ed evoluti da altri profumi.
Nel produrre vino artigianale, l'equilibrio viene definito in vigna, con un grande lavoro di cura di ogni pianta, con modalità diverse a seconda delle condizioni micro-climatiche, di suolo, di varietà, di destinazione (se per un vino più giovane o da invecchiamento ...) e di annata. Così ogni pianta è in equilibrio col suo territorio e produce uva equilibrata, selezionata perchè sia sana, oltre che raccolta nel momento ideale di maturazione. Solo con queste premesse è possibile fare un vino di territorio, con procedimenti artigianali che accompagnano la trasformazione con cura e rispetto, senza fare errori, ma senza necessità di correzioni o altre manipolazioni.
Adesso siamo nella fase di vinificazione, mentre alcune vasche hanno già finito la fermentazione e sono state svinate. Ogni nostra piccola vasca di fermentazione comprende una micro-particella omogenea di vigna, in alcuni casi per singola varietà (per i nostri vini rossi di Bolgheri), a volte con più varietà, per ottenere le sinergie che nascono nei processi di co-fermentazione (come per il Criseo e il Jassarte). La fermentazione e la macerazione sono seguite passo a passo, così che proseguano in modo regolare, decidendo di volta in volta come e quando fare rimontaggi semplici o arieggianti, per dare un po' di ossigeno ai lieviti.
L'assaggio è sempre fondamentale per decidere il momento della svinatura, così come per tutte le fasi precedenti. I nostri sensi (gusto ed olfatto) sono insostituibili nel percepire le sfumature e soprattutto gli equilibrio complessi su cui si basa un grande vino. Le analisi ci danno invece informazioni preziose per ogni singolo parametro. Tornando alla svinatura, l'assaggio è fondamentale per capire che l'estrazione tannica sia ottimale per quella vasca, considerando le differenze di origine e di varietà, oltre che la destinazione finale di quel vino (per un vino più giovane o di maggiore invecchiamento). Nella produzione artigianale e di territorio non ci sono mai protocolli pre-costituiti: si decide ogni anno e per ogni partita le scelte più opportune. Un grnade ammattimento, ma decisamente una qualità superiore.
(Come sempre nelle foto non ci sono, perchè sono l'unica in azienda che pensa ogni tanto a fare qualche scatto. Sob!).
Premio Masi ad Attilio, per "Visione e Coraggio" sulla sostenibilità in viticoltura
«Servono visione e coraggio per affrontare questi tempi difficili»
La Fondazione Masi ha svelato i vincitori della quarantesima edizione del Premio Masi, diviso per categorie. Siamo felici di sapere che il premio Masi internazionale Civiltà del vino è stato attribuito ad Attilio (il prof. Attilio Scienza), per la sua attività di professore universitario e divulgatore per una viticoltura sempre più sostenibile.
Gli altri premiati sono il fisico Roberto Battiston, la ricercatrice ambientalista Jane da Mosto e il musicista imprenditore Palio Fazioli per il premio Civiltà Veneta, la biologa e senatrice a vita Elena Cattaneo per il Grosso d'oro veneziano.
La cerimonia di premiazione sarà trasmessa in streaming sabato 23 ottobre, alle 17.30, dalla pieve di San Giorgio di Valpolicella.
Il Premio Masi è uno dei più longevi e prestigiosi riconoscimenti culturali del mondo del vino, assegnato dalla Fondazione Masi, guidata dalla scrittrice e produttrice Isabella Bossi Fedrigotti e da Sandro Boscaini.
“Capacità di guardare oltre il presente, immaginando soluzioni nuove ai problemi contemporanei, e audacia nell’intraprendere un cammino non ancora percorso sono le caratteristiche che accomunano i vincitori di questa edizione”, spiega una nota, che sottolinea come i premiati siano stati scelti seguendo il binomio “Visione e Coraggio”.
“Una scelta che rilancia la finalità del Premio fin dalla prima edizione, nel 1981: quella di riconoscere i talenti legati all’area storica delle Venezie, nei vari campi dell’attività umana, per indicarli come preziosi punti di riferimento nella crescita civile, culturale ed economica del nostro territorio e del nostro Paese. Significativa in questo senso anche la scelta di ritornare, per la cerimonia di premiazione alla sede che lo ha visto nascere, la suggestiva Pieve longobardo-romanica di San Giorgio in Valpolicella”
“I quarant’anni del Premio Masi che si dividono a metà tra la fine del Novecento e l’inizio del terzo Millennio - sottolinea Sandro Boscaini - ci consegnano un albo d’oro che per questa coincidenza diventa un naturale riferimento per capire il passato e un utile indirizzo per pensare il futuro. Con coerenza la Fondazione Masi ha sempre ancorato la scelta delle personalità cui attribuire il riconoscimento, ai valori civili e morali che nel tempo sono venuti costituendo il patrimonio più originale della cultura e della tradizione venete. A farsene interpreti sono stati in quattro decenni talenti e persone esemplari che, indipendentemente dalla notorietà, rappresentano al meglio, ciascuno a modo suo, quella visione e quel coraggio di cui abbiamo bisogno nell’affrontare questi tempi impegnativi che vogliono essere di rinascita e di ricostruzione”.
Serata degustazione "Donne della Vite sotto le stelle" 27 settembre 2021
Vi segnalo questo evento a cui parteciperò lunedì 27 settembre. Potrete assaggiare i vini di 4 vignaiole (me compresa) e sentirci raccontare del nostro lavoro e, soprattutto, nel nostro impegno per la sostenibilità. Valeria Fasoli presenterà in generale le Donne della Vite e il progetto solidale DiVento.
Porterò due vini iconici della nostra azienda: Criseo Bolgheri DOC Bianco 2019 e Atis Bolgheri DO Superiore 2017.
Ci ospita l'azienda Ruffino, a Pontassieve.
DONNE DELLA VITE... SOTTO LE STELLE
Lunedì 27 Settembre, dalle 19:30
Presso Ruffino - Tenuta di Poggio Casciano per la rassegna di eventi "Sotte le Stelle"
Le Donne della Vite raccontano i loro vini:
Valeria Fasoli - Presidente Donne della Vite, racconta il progetto DiVento
Marinella Camerani - Azienda Agricola Camerani
Melissa Maggioni - Tenuta Scrafana
Annalisa Motta - Guado al Melo
Giovanna Tantini - Azienda Agricola Giovanna Tantini
Costo della serata: € 25 a persona
Info e prenotazioni:
+39 378 30 50 219
DONNE DELLA VITE: UNA VISIONE AMPIA E CONDIVISA DELLA SOSTENIBILITA'
"UTILIZZARE LA CONOSCENZA INTERDISCIPLINARE PER RISPETTARE L’AMBIENTE, CONSERVARE LE ENERGIE E RISPETTARE I LUOGHI SENZA TRALASCIARE LA COMUNICAZIONE DELLO SFORZO FATTO CHE DEVE ESSERE EFFICACE, TRASPARENTE E CONVINCENTE"
Agronome, operatrici agricole, enologhe, ricercatrici, produttrici, giornaliste, comunicatrici, ma anche creative. Donne che hanno quale denominatore comune la vite e le diverse professioni a essa più o meno intimamente legate: ecco chi sono le Donne della Vite.
Da questo punto di partenza e dalla integrazione di diverse competenze nasce il concetto ampio e innovativo della Sostenibilità che inizia da un atteggiamento serio e giudizioso in campagna e termina nel bicchiere senza tralasciare nessun passaggio. Produrre in maniera rispettosa dell’ambiente e di tutti gli esseri viventi che vi gravitano intorno per le Donne della Vite significa applicare conoscenza per ridurre l’impatto ambientale, conservare le energie e rispettare i luoghi, anche dal punto di vista estetico e paesaggistico. Questo sforzo non può e non deve fermarsi al “liquido” tanto atteso ma deve comprendere anche “ciò che lo contiene”. Attenzione dunque a packaging e materiali che influenzano non poco la sostenibilità finale di un prodotto. Infine, nel buon rispetto della “forma” questo sforzo deve essere comunicato in maniera chiara, trasparente e innovativa per conquistare un consumatore sempre più attento e sensibile alle tematiche ambientali e sociali. Un mix perfetto per Le Donne della Vite che ben vengono rappresentate da questo concetto ampio e interdisciplinare.
Il museo si arricchisce: un serpente in vigna per raccontare il Genius Loci
Per gli antichi romani il Genius Loci era lo Spirito del Luogo, una divinità minore che vegliava sul luogo ed i suoi abitanti. Lo raffiguravano spesso come un serpente, così come porre un serpente su un edificio significava consacrarlo al Genius Loci.
Per me è stato molto simbolico ed evocativo porre questo serpente sulla nostra cantina: l'ho idealmente consacrata allo Spirito del Luogo, che è alla base di tutto il nostro lavoro.
Vi riporto il testo che ho messo a descrizione dell'istallazione, realizzata con corten tagliato a lasar su un mio disegno ispirato ad un affresco di epoca romana:
"Nell’antica epoca romana, raffigurare un serpente su un edificio significava porlo sotto la protezione del Genius loci, lo Spirito del luogo.
C’erano numerosi Genii presso i Latini. Erano degli spiriti tutelari che vegliavano sulle persone, sulle collettività, sui luoghi … Il Genius loci vegliava sul luogo, oltre che sulle persone che lo abitavano. Era anche una sorta di sua personificazione. Era raffigurato come un serpente, animale che vive nella terra, considerato simbolo di fortuna.
Per avere la sua benevolenza, si doveva invocarlo, fargli offerte di profumi, fiori, frutti, focacce e vino. Soprattutto, bisognava rispettare il luogo. Il Genio allora sarebbe stato benevolo, si sarebbe palesato riempiendo il luogo della sua sacralità, proteggendolo dal male e dalla sfortuna.
Se invece le persone fossero state ostili al luogo, lo avessero devastato, avessero esaurito le sue risorse, allora il Genio si sarebbe negato. Avrebbe svuotato il luogo della sua presenza, causando sventura.
Nell’epoca antica più tarda, il Genius loci era rappresentato come una figura umana, circondata dalle piante e dagli animali tipici del posto. I Geni, in generale, erano spesso anche rappresentati come persone alate. Sono rimasti nel Cristianesimo, nelle figure degli Angeli Custodi e dei Santi Patroni.
IN ARCHITETTURA
Negli anni ‘60-’70 del XX sec., il concetto di Genius Loci fu introdotto nel dibattito sul significato di “luogo” dagli architetti Aldo Rossi e Christian Norberg-Schulz. Genius loci iniziò così ad essere usato per definire la complessa molteplicità degli elementi che costituiscono l’identità profonda di un luogo. Comprende le sue caratteristiche intrinseche, fatte da elementi geografici e strutturali, sia naturali che artificiali, ma anche elementi immateriali e mutevoli, come le stratificazioni storiche e culturali, il “carattere” del luogo, i colori, le variazioni della luce, …
NEL VINO
Fra gli anni ‘70 e ’80, il prof. Attilio Scienza, prendendo spunto dal dibattito architettonico, introdusse l’uso della locuzione Genius Loci per definire il concetto complesso di territorio viticolo. In Francia era stato parimenti introdotto il termine terroir.
Il legame profondo fra vino e territorio è il cuore della cultura vitivinicola italiana, un retaggio di migliaia di anni, nato proprio in epoca romana. Serviva però un termine nuovo perché il territorio viticolo va ben oltre la definizione di territorio in senso stretto, con le sue caratteristiche geografiche, di suolo e clima. Comprende anche elementi immateriali e mutevoli, come la storia e le stratificazioni culturali, tutti quegli elementi che hanno nel tempo modellato il paesaggio viticolo, creato e trasformato le tradizioni di vigna e di cantina, oltre che le variazioni delle annate (sia come clima che come scelte di lavoro), ecc. Tutto questo si riassume in Genius Loci."
Una cena da favola a BolgheriDiVino
1 Km di tavoli ad occupare l'iconico Viale dei Cipressi di Bolgheri, 1000 invitati per degustare i grandi vini della DOC Bolgheri.
Michele ed io non siamo per nulla mondani ma devo ammettere che questo evento è stato molto suggestivo. Stranamente, nella foto sotto mi vedete in abito da sera. Michele non si è neppure sforzato, sembra pronto ad andare sul trattore :-)
Grazie al Consorzio di Bolgheri e a tutti gli organizzatori. Il prossimo appuntamento sarà fra due anni, nel 2023.
Orari d'autunno
Manca pochissimo alla vendemmia, le giornate si accorciano ed iniziamo da oggi l'orario autunnale.
Fino a fine ottobre, saremo aperti al pubblico dal lunedì al sabato con orario 10.00-13.00 15.00-18.00.
Vi aspettiamo!
Il nostro Rute, primo fra le migliori etichette di Bolgheri per il Gambero Rosso
Scopro con piacere che il numero di agosto del Gambero Rosso dedica un lungo articolo alla cucina ed i vini della nostra costa livornese. E chi svetta? Il nostro Rute Bolgheri DOC Rosso, naturalmente. Grazie mille alla redazione.
Piccoli incontri estivi di storia del vino
Vi aspetto per parlare di vino e storia, in particolare del nostro territorio. L'incontro è molto informale, adatto a tutti.
Radici, la vita sotterranea della vite (2)
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"Lascia ad altri i fiori ancora troppo lontani. Il tuo pensiero resti con i semi e con la salda stretta delle radici ..." (Margherita Guidacci, "A me stessa")
Continuiamo a parlare di radici. Vediamo ora le loro funzioni e le influenze che hanno le tecniche colturali sul loro sviluppo.
Acqua e stress idrico
Le radici influenzano la produzione della vite soprattutto in base alla loro capacità di assicurare l'acqua. Si sono evolute per sopravvivere in un ambiente al limite per essa, per cui se ben gestite possono esserci di grande aiuto per superare le difficoltà legate al cambio climatico.
La vite non ha bisogno di tanta acqua, anzi ormai è assodato che produce uva di maggior qualità quando è un poco stressata, non col massimo del suo vigore. Lo stress però non deve essere più del necessario, altrimenti scade al qualità dell'uva e, quindi, del vino. Soprattutto in certi momenti del suo ciclo, la pianta deve avere l’acqua che le serve in modo regolare. Viceversa, la vite non ama l'eccesso di acqua ed evita, se può, le zone di ristagno. Con le radici si avvicina alla falda acquifera e assorbe l'acqua che per capillarità risale sopra ad essa. La falda freatica si ritira nel corso della primavera e con l'inizio estate. Le radici, che sono in fase di attiva crescita, se non trovano ostacoli, la seguono.
L'assorbimento dell'acqua avviene soprattutto grazie alle radici più sottili, per questo è importante il loro ottimale sviluppo. Anche quelle legnose (con la corteccia) hanno però un ruolo, mentre una volta si pensava che fossero completamente escluse da questa funzione. Ormai invece si è appurato che intervengono anch'esse, soprattutto al risveglio della vite, quando quelle sottili sono molto poche (come abbiamo già visto). Le radici lignificate possono assorbire acqua dalle frequenti rotture o fessurazioni che si formano nella corteccia per lasciare emergere radici laterali. Hanno però una capacità molto inferiore di assorbimento rispetto quelle non lignificate (meno 40-70%).
L’assorbimento ed il trasporto di acqua avvengono nella pianta soprattutto per una sorta di forza di “risucchio” che si crea per la perdita che avviene per traspirazione da parte delle foglie. Le molecole d’acqua sono fortemente coese fra loro e schiacciate nei tubi sottili dello xilema (per questo si parla di capillarità): formano così come una specie di trenino, fatto di tanti vagoni legati fra loro, che sono trascinati verso l’alto.
Al risveglio primaverile però le foglie non ci sono ancora. In questa fase la spinta nasce dalle radici. Quando il suolo inizia a scaldarsi, le radici riprendono l'attività metabolica e si crea un potenziale osmotico che fa assorbire acqua. L'assorbimento genera una pressione nelle radici che spinge l’acqua verso l’alto. Le radici sono capaci di una pressione molto forte: si è calcolato che potrebbero trasportare l’acqua fino ad un'altezza di 35 metri. Poi la vite germoglia e le foglie diventeranno sempre più numerose. Quando ci sono abbastanza foglie traspiranti, esse diventano predominanti nel condurre il processo.
Come fa la pianta a regolare il flusso dell'acqua? La vite, in seguito ad uno stress idrico, mette in gioco tutta una serie di cambiamenti che sono guidati dagli ormoni, prodotti per lo più dalle radici, che vedremo dopo. Fra le diverse risposte c'è la limitazione della traspirazione con la chiusura degli stomi, lo stimolo della crescita radicale, l'inibizione della crescita dei germogli, la produzione di proteine che evitano l'essicamento delle membrane cellulari, ecc.
In generale, la vite ha, più di tante altre piante, una grande capacità di resistere alla siccità. Questo dipende dalla sua capacità di formare, se necessario, radici anche molto lunghe che riescono ad esplorare il suolo e a raggiungere le zone più umide. Questa capacità è indispensabile nei climi mediterranei dove l'estate è arida ma, se la natura del suolo lo consente, le radici riescono a raggiungere le zone umide più profonde o lontane.
In un clima siccitoso ci sono però altri problemi per le piante. Se una parte delle radici non riesce a trovare l'acqua, potrebbe seccare e morire. Inoltre, immaginate una cannuccia dove si aspira troppo forte: le pareti si potrebbero schiacciare, bloccando ogni altro trasporto. La grande capacità della vite di resistere agli stress idrici dipende anche dalla sua particolare resistenza alla contrazione dei vasi xilematici. Questo succede anche perché la vite, comunque, non è una semplice cannuccia d’aspirazione. L’acqua non entra solo per forze fisiche, ma, come detto, l’organismo controlla e regola il flusso. Inoltre, rispetto ad altre piante, la vite ha un sistema xilematico relativamente poco sottile. Per questo, si dice che la vite ha una bassa resistenza idraulica: il “risucchio” non è comunque mai troppo forte (se non in condizioni veramente estreme). Per lo stesso motivo le radici che restano a secco non muoiono: si riesce a ridistribuire velocemente l’acqua disponibile anche ad esse. Questo fenomeno è detto conduttività idraulica radicale.
Tuttavia, in condizioni molto estreme, anche la vite può soffrire, perché la spinta può diventare troppo intensa. Si possono formare delle bolle d’aria nei vasi (embolismo) che interrompono la colonna d’acqua e ostacolano il trasporto.
Sali minerali
Oltre all'acqua, le radici assorbono anche i sali minerali, fondamentali per la nutrizione della vite, per supportorare tutte le sue funzioni vitali. Alcuni, come il fosforo e l'azoto, sono indispensabili per stimolare la stessa crescita e ramificazione delle radici.
La vite ha la reputazione di poter vivere in suoli molto poveri per la sua capacità di utilizzare le minime presenze di minerali e di "andarli a cercare". Infatti le radici hanno un potente chemiotropismo: si sviluppano in direzione di dove trovano gli elementi nutritivi. Per questo è importante che non ci siano concimazioni troppo intense soprattutto nei primi anni della vigna, altrimenti le radici sarebbero indotte a concentrarsi solo nelle zone concimate e non sarebbero stimolate a svilupparsi a pieno.
Le radici della vite hanno anche la capacità di riuscire ad evitare, fino ad un certo punto, l'intossicazione per eccessi, come ad esempio di sodio o metalli, come l'alluminio ed il rame. Il loro trasporto si blocca nelle radici, dove vengono immagazzinati.
L'assorbimento degli elementi minerali avviene principalmente nelle radici più sottili. Alcuni, come il potassio, possono migrare per centimetri, l’azoto anche oltre 10 cm. Alcuni elementi invece (come il boro, il fosforo e il calcio) per poter essere assorbiti devono essere nelle immediate vicinanze della radice, a pochi millimetri. In questi casi può tornare utile l'aiuto delle sottili ife delle micorrize.
L’assorbimento degli elementi minerali del suolo, così come per l’acqua, può avvenire sia passivamente che attivamente. I sali minerali sono assorbiti in forma di cationi ed anioni. Come per l’acqua, il passaggio nell’endoderma è solo attivo, previa neutralizzazione delle cariche. Gli ioni sono legati a delle molecole trasportatrici, che li accompagnano nel passaggio attraverso le membrane cellulari e poi nel flusso xilematico.
L'assorbimento dei sali minerali non è continuo. Capirne i cicli è fondamentale per capire quali sono i momenti di maggior fabbisogno della vite. Ad esempio, uno degli elementi più importanti è l’azoto, il cui assorbimento ha picchi e periodi di stasi nel corso dell'anno. Dal risveglio fino al termine della fase di crescita veloce dei tralci, la pianta sembra dipendere soprattutto dall’azoto accumulato l’anno precedente. La vite ricomincia ad accumulare azoto dopo la fioritura, fino all’invaiatura. Dall’invaiatura alla vendemmia, l’assorbimento ha un arresto ed i grappoli sono riforniti soprattutto da quello accumulato fino a quel momento. Dopo la vendemmia ricomincia l’assorbimento radicale: è un momento importante per ripristinare le scorte, in vista del futuro germogliamento. Le radici continuano ad accumulare azoto fino alla caduta delle foglie.
Per il ferro, uno dei momenti più difficili per la pianta, in cui può mostrare sintomi di carenza, è quello della fase di pre-fioritura. Questo succede perchè il ferro è assorbito soprattutto dalle punte delle radici più sottili che, in questa fase, possono ancora non essere sufficienti nei climi più freschi. Comunque, c’è un’enorme differenza fra i diversi portinnesti nella capacità di assorbire i diversi elementi minerali dalla soluzione del suolo, rendendoli più o meno sensibili a certe problematiche di carenze.
Immagazzinamento di riserve nutritive
La vite non accumula solo azoto ma anche altre scorte per supportare certe fasi particolarmente difficili della sua vita. Le scorte sono fatte di sali minerali, zuccheri ed altre sostanze (aminoacidi, acido citrico, ecc.). Gli zuccheri sono prodotti con la fotosintesi e sono immagazzinati in una forma conservabile, l'amido. Quando questo serve, si attivano degli enzimi che demoliscono l'amido in zuccheri (soprattutto saccarosio, oltre che glucosio e fruttosio). Tutte le parti legnose della pianta possono fungere da siti di accumulo delle riserve, ma l’80% dell’amido ed il 70% di azoto di scorta si trovano nelle radici, il resto nel tronco. Il potassio, ad esempio, è invece maggiore nel tronco.
Il risveglio primaverile della vite dipende totalmente dalle riserve. Non può essere altrimenti: in questa fase le foglie non ci sono ancora (per produrre gli zuccheri con la fotosintesi) e le radici più sottili, quelle più assorbenti, non si sono ancora ben sviluppate. Le riserve rimangono importanti per tutta la fase di crescita dei germogli. Poi vengono in parte ripristinate, per essere di nuovo consumate per supportare la crescita dei grappoli. Infine, sono ripristinate in modo molto importante dopo la vendemmia, per garantire la possibilità alla pianta di ricominciare un nuovo ciclo la primavera successiva.
Dopo la vendemmia, a differenza di quanto si potrebbe pensare, che la vite andrà in riposo e non ha quindi bisogno di molto, in realtà in questa fase sta lavorando alacramente per accumulare scorte. Quindi, è fondamentale che abbia la corretta disponibilità di nutrienti, soprattutto azoto e potassio, e che possa continuare a fare fotosintesi finché può. Diversi studi hanno dimostrato che le viti che hanno accumulato scarse riserve in autunno, al momento del germogliamento producono un numero limitato di germogli e avranno una scarsa crescita dei tralci. L’accumulo autunnale può essere alterato da stress ambientali come l’eccessiva siccità, l’eccesso di acqua, l’impoverimento del suolo, … Per questo si dice che un’annata non influisce solo sulla propria produzione ma anche (in parte) su quella successiva. Possono avere un effetto negativo anche cattive pratiche colturali, come potature troppo anticipate (fatte prima della caduta naturale delle foglie), cattive gestioni del suolo, carenze di concimazione, ecc.
La produzione degli ormoni
Un’altra importantissima funzione delle radici è la produzione di buona parte degli ormoni, quei messaggeri chimici che modulano la reazione della vite al suo ambiente. Ricordiamoci quindi che qualsiasi condizione negativa che impedisce la crescita e la funzione delle radici, interferisce sulla sintesi degli ormoni, modificando così le prestazioni generali della pianta.
I principali ormoni delle piante sono un gruppo di molecole che si suddividono in 5 famiglie: le auxine, gli acidi gibberellici o gibberelline (GA), le citochinine, gli acidi abscissici (ABA) e l’etilene. I primi tre sono legati principalmente a stimoli di crescita della pianta, gli ultimi due soprattutto all’invecchiamento e alla maturazione dei frutti. L'ABA è fra i più importanti per la risposta allo stress idrico, con la regolazione della chiusura degli stomi. Questi ormoni non agiscono mai da soli, ma sempre in relazione l’uno con l’altro. Tutti i processi di crescita, sviluppo e maturazione della vite sono il risultato dei rapporti variabili di questi ormoni. Si crea così la possibilità di una regolazione molto fine e differenziata.
La produzione degli ormoni dipende dagli stimoli dell’ambiente esterno, sia naturali che quelli provocati dagli interventi dei vignaioli (potature o cimature, per esempio). L’aspetto meno atteso è che gli stimoli più importanti non vengono tanto dall’ambiente aereo ma spesso da quello del sottosuolo, cioè quelli che agiscono sulle radici: il ristagno idrico, l’aridità, la salinità, le carenze nutritive, i danni alle radici dovuti a fenomeni di tossicità per varie sostanze, i parassiti, il taglio delle radici, ecc.
Non è un ormone, ma le radici delle viti sono anche la principale zona di produzione e di accumulo dell'acido citrico. Da qui viene trasportato alle parti aeree, dove viene ossidato ad acido malico.
L'influenza delle tecniche colturali
Ne ho già parlato nel corso della descrizione delle radici, ma qui aggiungo altre pratiche agricole che hanno una forte influenza sullo sviluppo delle radici.
Un momento centrale, ma spesso trascurato, è quello della nascita della vigna. Numerosi studi hanno dimostrato che errori fatti in questa fase, in relazione all'apparato radicale, compromettono tutta la vita futura della vigna, sia nella qualità della produzione che nella sua longevità. L'impianto della vigna è fondamentale: si ha una sola possibilità di farlo bene, dopo è impossibile intervenire. Prima di tutto viene, ovviamente, la scelta di dove fare la vigna, in relazione a quanto spiegato finora sull'importanza del suolo. Quindi, è fondamentale conoscere bene il proprio suolo con analisi geologiche ben fatte per poterne capirne la potenzialità viticola, guidare le scelte di impianto e poi di gestione futura. Un'altra fase essenziale è la preparazione del terreno. Questo lavoro preparatorio condiziona la profondità effettiva del suolo. Si è visto che uno scasso assente o poco profondo limita in ogni caso la crescita radicale agli strati più superficiali e non ci potrà mai essere una colonizzazione radicale sufficiente.
Numerosi studi hanno anche dimostrato come anche il modo in cui si piantano le viti influisce sulla crescita delle radici e sulla loro distribuzione per tutta la vita del vigneto. Sistemi di scavo che compattano troppo la terra sui lati e sul fondo, come la classica pala, creano come delle piccole gabbie da cui le radici non riusciranno più ad uscire. La riduzione radicale si riflette anche in una crescita debole fuori terra. Sono anche rilevanti la profondità dello scavo (se poco profondo, la vite muore spesso per essicamento; se troppo profondo, viene inibita la crescita delle radici verso il basso), buchi troppo piccoli, tagli eccessivi delle radici delle barbatelle, la distribuzione delle radici nella buca di scavo, ecc.
Di media, si è visto che, con l’aumento della fittezza di impianto della vigna, si ha una diminuzione della massa radicale per ogni vite (come atteso). Si è visto anche che aumentando la fittezza si ha in genere un aumento della densità delle radici, soprattutto nei profili più profondi del suolo, con un uso migliore del volume disponibile. Aumentando però troppo la fittezza, questo effetto positivo decade, con una riduzione del vigore che può diventare eccessivamente penalizzante sulla qualità dell'uva. Inoltre, con densità di impianto troppo elevate, le risorse del suolo si possono consumare troppo velocemente, prima del termine della stagione di crescita, soprattutto nei terreni più aridi e poveri. La scelta dell'ampiezza di impianto dovrebbe, quindi, essere determinata dalla potenzialità del terreno di indurre la crescita vegetativa. Ricordiamoci che è un leggero stress a dare uva migliore. Uno stress troppo elevato produce uve (e vino) povero.
Una volta fatto l'impianto, è importante poi mantenere il suolo al meglio per far star bene le radici. Uno dei problemi principali è che nel corso del tempo il suolo tende a compattarsi ed impoverirsi. Ad esempio, si è visto che il passaggio dei mezzi nella vigna può creare una suola di compattazione che arriva anche a 60 cm di profondità.
La scelta della lavorazione (con quale frequenza, profondità e dove farla) è legata ad ogni situazione specifica. La lavorazione ha comunque un'azione distruttiva inevitabile sulle radici dello strato lavorato. La potatura radicale è molto discussa nella sua utilità. Se fatta male, troppo profonda o troppo frequente, ha un'inevitabile ripercussione limitante sulla crescita della pianta. Se fatta in modo leggero, può causare un leggero stress della vite che aumenta la qualità dell'uva. Inoltre sembra che spinga le radici a colonizzare parti di suolo fino a quel momento inesplorate. In generale, rispetto al passato, oggi si evitano le lavorazioni profonde, che rovinano comunque troppo l'apparato radicale e quelle continue. Oltre all'effetto distruttivo sulle radici, compattano troppo il suolo per i numerosi ingressi con i mezzi.
Le radici che più subiscono le influenze del lavoro del vignaiolo sono quelle superficiali, dette anche di intercettazione e che di norma stanno fra i 7,5 e i 25 cm di suolo. Numerosi studi hanno mostrato come le diverse gestioni del suolo agiscono su di esse. Le radici più superficiali si mantengono in un suolo gestito con i diserbanti o con la pacciamatura, mentre sono assenti quando il terreno è lavorato o coperto di erba in crescita, per un effetto di competizione. Possono diminuire in ogni caso col suolo nudo, perchè è più sottoposto alle fluttuazioni di temperatura e all'eccessiva secchezza. Comunque, nei diversi modi di gestire il suolo ci sono conseguenze sulle radici che possono diventare vantaggi o svantaggi a seconda della propria situazione pedo-climatica. Se non conosciamo come è fatto il suolo sotto di noi, non possiamo scegliare la gestione migliore per le nostre vigne, se non andando a caso. Ad esempio, la copertura con erba limita le radici della vite negli strati più superficiali del suolo, ma può stimolare positivamente l'esplorazione di quelli più profondi. Si tratta però di un vantaggio solo se il suolo è realmente profondo e se questi strati sono utilizzabili dalle radici.
Anche la concimazione ha un effetto importante sull'apparato radicale. Ad esempio, si è visto che l'apporto di materiale organico che ha il migliore effetto sulla crescita delle radici è quello fatto con gli scarti vegetali, come i tralci sminuzzati delle potature. Questi creano anche uno strato di pacciamatura che rende più stabile la temperatura del suolo ed evita un'eccessiva secchezza superficiale, oltre che un effetto naturale di limitazione delle infestanti. Invece si è visto che l'uso costante e in quantità di letame deprime la crescita radicale. Sembra che abbia un effetto di eccessiva salinizzazione del suolo e, a lungo termine, causi anche un avvelenamento da nitrati. Ha però un effetto maggiore sulla crescita dei tralci, aumentando molto il vigore. Tuttavia, bisogna ricordare che la vite non si nutre di materiale organico ma di sali inorganici. Non è così scontata una mineralizzazione sufficiente alle esigenze delle vite. La concimazione inorganica non deve comunque essere trascurata al bisogno.
Le ricerche sull'irrigazione sono molto più frequenti nei paesi del nuovo mondo rispetto al vecchio. Siccome le radici sono guidate fortemente dell'acqua nella loro crescita, si è visto che la realizzazione e la gestione del sistema di irrigazione ha una fortissima azione sul loro sviluppo. Ad esempio, gli impianti troppo mirati e superficiali, come quelli a goccia, tendono a limitare enormemente lo sviluppo delle radici, soprattutto se usati nei primi anni. Le radici si concentrano così nella piccola parte di suolo dove trovano acqua e diventano dipendenti dell'irrigazione per sempre, anche quando non sarebbe necessaria. Gli impianti, se servono, andrebbero realizzati in modo da favorire uno sviluppo radicale ottimale.
Anche tutte le altre fasi di lavori in vigna hanno un effetto sulle radici, anche se gli studi non sono numerosi. Ad esempio, più il sistema di allevamento è espanso, più le radici tendono ad una colonizzazione intensa del suolo, per soddisfare le maggiori esigenze della chioma. Studi sulla relazione fra potatura ed apparato radicale hanno dato risultati abbastanza contrastanti. Sembra che l'apparato radicale sia più stimolato a crescere con potature medie. L'effetto sembra negativo sulle radici con i due estremi: potature troppo severe o viceversa con carichi di gemme troppo elevate. Il diradamento delle foglie sembra comportare dei benefici sulla crescita radicale e lo sviluppo in particolare delle radici sottili. Deve però essere ben calibrato per la situazione climatica. Se fatto troppo presto o troppo intensamente, diminuisce invece la densità delle radici, anche di quelle più spesse.
Spero di avervi fatto comprendere l'importanza centrale delle radici e quindi di come la loro cura debba essere privilegiata, a partire dalla realizzazione della vigna. La vite è in grado di sopportare gli stress ambientali, oltre che produrre vini di grande qualità, solo se riesce a sviluppare un apparato radicale ottimale. Capiamo quindi come sia importante conoscere tutti gli aspetti che influiscono sullo sviluppo e sulla crescita delle radici: conoscere il proprio suolo, il proprio ambiente climatico, capire come ogni pratica agricola ha la sua influenza, ...
Chi ama le proprie viti non si ferma alla superficie.
Radici, la vita sotterranea della vite (1)
Normalmente siamo abituati a considerare una pianta soprattutto da quello che vediamo: rami, fiori e frutti. Eppure le piante non vivono come noi solo sulla superficie terrestre. Sono organismi che occupano contemporaneamente due ambienti diversissimi: l'ambiente aereo e quello del suolo.
Non so quanto vi stupirà sapere che, per l'equilibrio ed il dialogo con il proprio ambiente, per le piante il sotto è quasi più importante del sopra. Attilio (il prof. Attilio Scienza) usa dire che le radici sono “il cervello” delle viti. Naturalmente si tratta di qualcosa di completamente diverso, ma è una metafora utile per comprendere la loro importantissima funzione.
... Wanna live underground ... come cantava un grande mito, David Bowie, in un film della mia adolescenza (Labirinth).
Non è comunque semplice conoscere le radici nel loro mondo sotterraneo. Non è semplice raggiungerle e sottoporle a test, riuscendo a conservarle integre in tutte le loro ramificazioni più sottili o senza sconvolgere le situazioni locali. Per questo motivo, non ci sono tantissimi studi su di esse o almeno non quanti se ne fanno sulle parti aeree. Rimangono quindi ancora tante domande aperte che richiederanno altre ricerche, ma qualcosa lo abbiamo imparato e qui vi faccio un breve prospetto.
Le radici della vite servono, come tutti sappiamo, per l’assorbimento dell’acqua e delle sostanze nutritive (i sali minerali del suolo). Sono però anche fondamentali per l’equilibrio ed il benessere generale dell’organismo vegetale perché sono responsabili per buona parte della sua capacità di resistere agli stress.
Gli animali possono reagire ad un qualsiasi stress ambientale semplicemente spostandosi, così come per cercare cibo. Le piante (di norma) non si spostano e hanno quindi sviluppato enormi capacità di adattamento e di resistenza agli stress che possono subire nel corso della loro vita sedentaria. La loro reazione si basa essenzialmente sul cambiamento del modo, della velocità e della direzione in cui crescono. I segnali non sono trasmessi dagli impulsi elettrici di una rete neurale come per gli animali, ma sono di natura chimica. Stiamo parlando di ormoni, cioè sostanze che si spostano nella pianta, portando con sé un messaggio da trasmettere. Sono proprio le radici a produrre buona parte di questi ormoni, che regolano la crescita e le risposte fisiologiche dell'intera pianta all’ambiente esterno.
L’ambiente naturale della vite è quello mediterraneo, che può essere anche molto limitante. Visto che si tratta di un clima arido o semi-arido, ha limiti importanti legati alla disponibilità di acqua. Inoltre, di norma, ha bassi contenuti di sostanza organica nel suolo. Ci possono poi essere accumuli di calcare, di sale, ecc. Le radici della vite si sono evolute per sopravvivere in questo ambiente abbastanza difficile. Sono in grado di rispondere bene agli stress idrici, a carenze nutritive, come di sopravvivere a situazioni complesse. Questo avviene grazie alla loro capacità di espandersi e di rinnovarsi di continuo, di stoccare sostanze di riserva, di entrare in simbiosi con altri abitanti della terra.
Secondo gli studiosi, la conoscenza e la cura ottimale dell’apparato radicale è quindi uno dei temi più importanti per la qualità del vino. Inoltre, siccome nelle radici sta la risposta della vite agli stress, questa conoscenza può offrirci grandi opportunità per l'ottimizzazione della viticoltura in relazione al cambio climatico. Vediamo quindi il perchè di questa importanza e di come si riflette sulle scelte di lavoro in vigna.
Per chi volesse approfondire, la mia principale fonte è “Vine roots” dei professori sudafricani E. Archer e D. Saayman (2018, The Institute for Grape and Wine Sciences, Stellenbosch University), da cui ho preso anche diverse illustrazioni. Si tratta di un ottimo riepilogo sullo stato dell’arte. L'Università di Stellenbosch è considerata il centro mondiale più qualificato sugli studi sul suolo vitivinicolo.
Come sono fatte
Senza scendere troppo nel dettaglio, vi do alcune informazioni generali che saranno utili per capire certi aspetti funzionali che poi spiego.
Una radice di vite è avvolta esternamente da uno strato protettivo, un'epidermide più o meno spessa che, nelle radici più grosse e strutturali, è lignificata (corteccia). La parte centrale, avvolta da un secondo tessuto protettivo (l'endoderma) comprende i tessuti più delicati, compresi quelli con capacità di crescita (il periciclo) e che sono responsabili del trasporto nella pianta. Questi ultimi sono due, diversi per funzione e struttura: lo xilema ed il floema. Lo xilema si occupa di portare a tutta la pianta quello che proviene dalle radici: l’acqua, le sostanze nutritive assorbite, le sostanze che producono (ormoni e altre). È fatto da tubicini cavi ed il trasporto avviene per flusso capillare, guidato principalmente dalla traspirazione fogliare. Il floema ha prevalentemente un percorso inverso: dalle foglie porta i prodotti della fotosintesi a tutto il resto della pianta. È fatto da cellule vive, che attivamente traslocano questi prodotti attraverso di esse. Queste parti essenziali possono essere strutturate in modo diverso a seconda dei diversi tipi di radice, in dipendenza del loro ruolo, della genetica di ogni portinnesto, ...
Le radici infatti non sono tutte uguali. Quelle dette primarie, o anche strutturali o fittonanti, sono le più spesse (6-10 mm). Sono lignificate e hanno il ruolo di ancorare la pianta al suolo. Inoltre, sono un crocevia importante per il trasporto delle sostanze nutritive e dell’acqua. Infine, sono centri di stoccaggio delle riserve della pianta. Le radici secondarie sono invece quelle più sottili (2-6mm). Si allungano sia lateralmente che in profondità. Quelle più superficiali sono importantissime soprattutto per l’assorbimento dei nutrienti minerali, che si trovano principalmente negli strati superiori del suolo. Sono utili anche per l’assorbimento di acqua, intercettandola prima che scorra via o scenda più in basso. Quelle di profondità sono invece indispensabili per resistere agli stress idrici. Da queste radici partono ulteriori ramificazioni, le radici fibrose o assorbenti. Queste vivono giusto una stagione e si rinnovano di continuo. Sono la propaggine più estrema della pianta, le principali responsabili dell’assorbimento di nutrienti ed acqua. La superficie di contatto col suolo viene ancora più estesa dai peli radicali, così come dalle ife dei funghi in simbiosi con le radici.
Quando si parla delle radici della vite si sottolinea sempre la loro lunghezza. Tuttavia, la capacità di scambio col suolo dipende soprattutto dalla loro ramificazione e, quindi, dallo spazio di suolo che riescono ad occupare in densità. Più la vite si trova in condizioni favorevoli di suolo, più tende a ramificare e più ottimizza la sua capacità di scambio. Si possono arrivare ad avere 200 metri di radice per ogni metro cubo di suolo (circa 1.0-1.5 Kg di radici per metro cubo). Viceversa, nelle condizioni più sfavorevoli, le radici sono inibite sia nell’allungamento che nella ramificazione. Si ha allora una maglia più ampia e la pianta ha meno vigore. Se la densità radicale e la distribuzione sono molto limitate, si crea un disequilibrio tra la crescita vegetativa e la produzione che porta ad uve povere e vini di minor qualità, soprattutto nelle annate più siccitose.
Le radici più spesse non muoiono facilmente. Invece le radici più fini muoiono continuamente e sono sostituite entro poche settimane. Questo continuo ripristino, insieme con l’abrasione che subisce il tessuto più esterno delle radici vive, arricchisce in modo consistente il suolo di materia organica. Champagnol (1984) ha quantificato questo contributo fino a 8 tonnellate per ettato all'anno, per tutta la durata di vita della vigna.
Il rapporto con le micorrize ed altri abitanti della rizosfera
Le radici non sono isolate ma "dialogano" col loro ambiente e gli altri abitanti del suolo. Producono verso l’esterno un muco, una sostanza gelatinosa che ha tante funzioni, non tutte chiarite, fra le quali quella di limitare i danni di abrasione da parte delle particelle del suolo. Questo gel contiene carboidrati, amminoacidi, acidi organici, enzimi e altri composti. Alcune di queste sostanze sono utilizzate come nutrimento da una vasta gamma di organismi che vivono nel terreno. Si è visto che alcune hanno anche un'azione di stimolo o viceversa di blocco sulla crescita di funghi, batteri o nematodi. Inoltre, come già detto, le radici producono annualmente anche una grande massa di materiale organico, che è un humus ideale per vari organismi della rizosfera.
Uno dei rapporti più noti che la vite riesce ad instaurare con altri organismi del suolo è quello con le micorrize. Il nome significa “fungo della radice”. Sono infatti funghi che vivono in simbiosi con le radici di diverse piante, alcuni all'esterno e altri anche all'interno dei tessuti radicali. Sono in simbiosi, cioé c'è uno scambio vicendevole e non dannoso fra i due organismi. I funghi prendono soprattutto i carboidrati prodotti dalla pianta, mentre aiutano la vite nell’assorbimento di acqua e nutrienti del terreno. Per i loro bisogni le micorrize possono consumare fino al 4-20% della produzione fotosintetica della pianta. All'inizio hanno un effetto negativo, finché non si stabilisce un equilibrio ottimale.
Il fungo ottimizza l'assorbimento della pianta perchè le sue ife sono lunghe (20 mm anche) e molto più sottili delle radici, che sono fino a 500 o 1000 volte più spesse. Riescono quindi a penetrare nei pori tra le particelle del terreno dove le radici non riescono ad arrivare. La loro presenza aumenta la capacità di assorbimento per la pianta di acqua, di alcuni elementi minerali (come i fosfati o il ferro). Si è visto anche che incrementano la sua resistenza alla salinità, ai metalli pesanti come il rame, così come la resistenza ad alcune malattie e altre avversità. Si ipotizza una loro azione anche nella regolazione ormonale della vite, ma sono aspetti ancora in via di studio. La colonizzazione delle radici da parte di questi funghi non avviene però sempre: è condizionata da numerosi fattori, soprattutto dalle caratteristiche del suolo. La loro presenza, per esempio, cambia col pH: diminuiscono nei suoli più acidi. Sono assenti nei terreni molto secchi, salini o con ristagni d’acqua, con fertilità troppo alta o, viceversa, troppo bassa.
Sulla base di questi studi, c'è chi propone l'inoculo artificiale delle micorizze nei suoli delle vigne. Secondo gli esperti questa pratica è poco utile. Si è visto infatti che se le condizioni del suolo sono adeguate, le micorrize colonizzano molto facilmente le viti in modo naturale. Se le condizioni di suolo sono invece sfavorevoli, le micorizze inoculate morirebbero comunque. La presenza di questi funghi è quindi un vantaggio intrinseco dei suoli migliori per la viticoltura. Noi possiamo cercare di ottimizzarla con una cura adeguata del suolo e con le pratiche di agroecologia (vedi qui), ma solo comunque se le condizioni sono favorevoli alla loro presenza.
Nel terreno vivono anche organismi che possono attaccare le radici con effetti drammatici. Alcuni sono più conosciuti, altri meno, sempre per la difficoltà intrinseca dello studio del mondo sotterraneo. Al di là della nota fillossera (sconfitta in passato grazie all'uso di portinnesti resistenti, vedi qui), ci sono anche altri insetti (coleotteri, nematodi, larve di emitteri) che, direttamente o come vettori di virus, possono causare deperimenti delle viti, a volte fino alla morte della pianta. Ci sono poi numerosi funghi che causano marciumi radicali, come alcune specie dei generi Phytophthora, Pythium, Armillaria, ecc. Sembra che anche il famigerato mal dell'esca, che causa la morte di tante viti nelle vigne, sia legato a funghi del suolo. Purtroppo, come l'esperienza ci già ha insegnato con la fillossera, mentre è relativamente semplice studiare e contrastare un patogeno che attacca la parte aerea della vite, diventa molto più complicato se succede nel suolo. Le nostre risposte migliori, per ora, vengono dalla prevenzione della diffusione dei contagi con controlli nei vivai, nella ricerca di resistenze genetiche e nella cura del suolo della vigna.
Dove le radici si sviluppano
Si tende spesso a raccontare, poeticamente, che le radici scendono nella profondità della terra anche per decine di metri. In parte è vero: la vite è una delle piante legnose le cui radici scendono più in profondità, ma è anche vero che molto difficilmente ci sono suoli così profondi (sotto c’è la roccia madre, impenetrabile dalle radici).
Ad ogni modo, si è visto che le radici tendono a svilupparsi e ad occupare principalmente gli spazi di suolo dove trovano le condizioni migliori in relazione all’acqua, alla temperatura e all'aria. Di media, senza altre limitazioni, preferiscono le zone umide ma non stagnanti (dove morirebbero per asfissia), calde ed arieggiate.
La direzione di crescita delle radici è guidata da due forze principali: la ricerca dell'acqua (idrotropismo) e dei nutrienti minerali (chemiotropismo). Più la falda acquifera è superficiale, più le radici staranno in superficie. La radice della vite avverte la profondità a cui si trova e cambia la sua direzione preferenziale di crescita. Si è visto che le radici più in superficie tendono a crescere verso il basso. Quelle più in profondità, se possono, preferiscono espandersi lateralmente, perché non amano gli strati più profondi asfissianti. Le radici ancora più profonde, se possono, tenedono a crescere verso l'alto. Nel tempo e si sono le condizioni opportune, tutte le radici tendono a stabilizzarsi allo stesso livello ottimale, che può essere variabile ma comunque relativamente vicino alla superficie: non è troppo superficiale (per il rischio di essicazione), non è troppo profondo (per il rischio di asfissia).
L'elemento che più condiziona la naturale propensione di crescita della radice della vite è la struttura fisica del suolo. Le differenze dei suoli condizionano notevolmente la capacità di formare un apparato radicale ottimale, con effetti importanti e dimostrati sulla crescita delle piante e sulle caratteristiche dell'uva e del vino. Soprattutto, influiscono molto sulla necessità della pianta di avere a disposizione abbastanza acqua nei momenti di crescita.
La profondità del suolo è uno degli elementi più importanti in viticoltura, perché garantisce il pieno sviluppo dell'apparato radicale. Suoli poco profondi sono limitanti: la radice può espandersi poco, può non riuscire a raggiungere falde acquifere o zone ricche di minerali. L'altro elemento fondamentale è la sua morbidezza. Più il suolo è compatto, più rallenta la crescita e si riduce la ramificazione della radice, fino a poter diventare una vera e propria barriera impenetrabile. Le radici avanzano solo se le dimensioni dei pori sono adeguate o se ci sono crepe o altre vie. Ad esempio, crescono bene negli spazi lasciati da precedenti radici morte, nei passaggi scavati dai lombrichi, ecc. Invece si bloccano quando incontrano strati duri, come zone argillose compatte o concrezioni di ferro. Quando incontrano una zona sfavorevole, tendono a ramificarvi sopra ed intorno. La tessitura del suolo fa cambiare la capacità di penetrazione e la densità radicale. Suoli grossolani, con più sabbia, determinano di media una maggiore allungamento ma minor densità radicale. Una tessitura media (limosa), fa diminuire la penetrazione ma determina una maggior densità. Terreni fini (argillosi), invece, riducono ancor di più la penetrazione, mentre la densità non varia più di tanto. Ognuna di queste caratteristiche può essere un vantaggio o meno a seconda del proprio ambiente, della disposibilità di acqua o delle varietà utilizzate. In un terreno eterogeneo, le radici si andranno a distribuire in modo diverso a seconda della natura degli strati, più o meno favorevoli all’espansione radicale.
La chimica del suolo sembra invece un po' meno importante, se non per una diversa sensibilità al pH che mostrano i diversi portinnesti. Sotto a 5 è limitante po' per tutti. Il numero di radici fini è influenzato positivamente dalla fertilità del suolo, anche se la vite ha un chemiotropismo accentuato, per cui riesce a crescere bene anche in terreni poveri.
Il suolo è l'elemento più determinante. La genetica del portinnesto sembra influenzare soprattutto la densità radicale. I portinnesti più resistenti alla siccità sono quelli che hanno maggior densità e distribuzione delle radici. Quelli con radici più piccole e sottili sono invece i più esposti al rischio di siccità.
Quindi, in un clima mediterraneo, con suolo profondo, la massa principale delle radici si concentra mediamente nella fascia fra i 25 ed i 55 cm di profondità. Questa zona può variare in relazione a diversi fattori. Il clima, ad esempio, è importante: dove è più fresco tendono a stare un po’ più in superficie, dove è più caldo più in profondità.
La parte più superficiale del suolo, sopra i 25 cm, ha in genere meno radici per diverse ragioni. Si tratta di una zona che può essere troppo secca. In più, in questa fascia insistono le lavorazioni dei vignaioli, che hanno un effetto distruttivo. Inoltre, subiscono anche la competizione con le eventuali specie vegetali di copertura.
Anche gli strati più profondi sono i meno interessati dalla massa radicale. È vero che le radici possono scendere a grandi profondità, se il suolo è abbastanza profondo o lascia spazi di passaggio. Proprio in questa capacità sta la grande resistenza agli stress idrici della vite. Tuttavia si parla di una parte minoritaria, perché sono situazioni comunque al limite in quanto le radici sono sensibili alla carenza di aria (sotto il 10%, muoiono in poco tempo). C’è, tuttavia, una diversa capacità dei portinnesti a resistere all’asfissia radicale.
Per cercare acqua, se possono, le radici si espandono preferibilmente lateralmente, anche per diversi metri. Si sovrappongono anche liberamente con quelle delle viti vicine, anche se l’80% si concentra nello spazio della singola pianta. La sovrapposizione ha comunque l’effetto di diminuire il vigore, come si può facilmente vedere dal fatto che le viti di testa del filare sono sempre le più vigorose.
Come crescono nelle diverse fasi di vita della pianta e nel corso dell’anno
Le radici crescono di più o di meno in relazione alle condizioni ambientali, all’età delle piante e all’attività della chioma (la parte delle foglie).
Quando la vite è giovane, le radici si sviluppano molto e si ramificano proporzionalmente allo sviluppo della chioma (se questa non è potata). Questa fase, che dura circa 7-8 anni, è importantissima perchè è quella di massima elasticità. In questo periodo le radici delle viti si adattano alle condizioni locali di clima e suolo. Dopo questa fase non riusciranno a cambiare più di tanto il loro adattamento. Nell’età adulta l’allungamento medio è sempre più scarso: la dimensione della radice tende a stabilizzarsi, così come il vigore della chioma fuori terra. Nella fase di invecchiamento la vite raggiunge la massima complessità, ma le piante possono anche accusare i danni portati negli anni da parassiti ed altre avversità. Gli studi mostrati nello schema più in alto, che hanno confrontato viti adulte (12 anni) e molto vecchie (50 anni), hanno dimostrato che la vite vecchia ha una massa radicale più grande, ma si localizza più o meno nella stessa zona di quella adulta. Si riducono però le radici più profonde. Ad ogni modo, sembra che la forza di una vite vecchia possa essere compromessa più dai danni al tronco e alla parte aerea che non alle radici stesse, che in genere sono molto resistenti.
Ogni anno, più o meno rapidamente a seconda dell'età, le radici crescono e, soprattutto, rinnovano le parti più sottili ed assorbenti. Questa crescita non avviene in continuazione, ma in momenti particolari. Si è visto che la crescita radicale si ha quando la pianta ha un’ottima disponibilità dei prodotti della fotosintesi. Questa crescita non parte subito col germogliamento, ma dopo alcune settimane. Per i climi più freddi può iniziare anche 10 settimane dopo. Dopo di che, ci sono picchi e rallentamenti che variano con il clima. A grandi linee, si sono individuati due comportamenti principali:
- nelle regioni più calde, in quelle mediterranee e soprattutto nell’emisfero meridionale, si trovano due picchi, uno durante la fioritura, quando la crescita dei germogli rallenta, e un secondo minore dopo la raccolta.
- nelle regioni con clima più moderato, la crescita è più lenta e continua e raggiunge un picco a fine estate o alla vendemmia. Se le foglie restano attive dopo la vendemmia, la crescita continua comunque ancora per diverse settimane.
In autunno e soprattutto in inverno molte radici muoiono, in particolare quelle più sottili, per il gelo, i marciumi, danni causati da parassiti vari, ecc. Inoltre, con l'innalzamento della falda freatica, parte dell'apparato radicale può andare sott'acqua e muore per asfissia. L'immersione può essere sopportata solo dalle radici più grandi e permanenti, quando sono nella fase di dormienza e tutti i processi sono limitati. Tante nuove radici sottili ed assorbenti verranno riformate nel corso della primavera successiva, come già spiegato.
Continua ...
Presentiamo le nostre vigne 1: Campo Bianco
In occasione dell'uscita della nuova annata 2019 del Criseo Bolgheri DOC Bianco, eccovi un breve video dove Michele ed io presentiamo la vigna dove nasce, Campo Bianco.
Per quanto siamo bravi a fare i vignaioli :-), non siamo per niente dei grandi attori: passateci sopra e spero che vi piaccia il contenuto.
Mito e modernità: dall’ebbrezza dell’antichità classica al consumo consapevole
di Attilio Scienza
Dioniso è forse il più importante tra le divinità terrestri e ctonie del mondo antico. Il dio che riassume in sé tutta la vita vegetale della natura racchiusa in quel potente binomio vite/vita. Alla figura del dio del vino si ricollega il più ricco complesso mitico, espresso attraverso un’iconografia varia e multiforme, a testimonianza delle sue molteplici sfaccettature.
Un’immagine bipolare in tutti sensi, a volte vigorosa e virile, altre volte curvilinea ed effeminata, come per il Dioniso riccioluto, splendente di gioventù e potentemente seduttivo ma ugualmente fonte d’ispirazione e di pregnante vitalismo spirituale. Dioniso solenne e barbuto è una figura generosa e benefica, che elargisce la felicità e l’oblio dagli affanni e (lathikedes) dalle pene dell’animo. Allo stesso tempo è un tiranno, terribile istigatore di estrema violenza, come per lo smembramento di Penteo, definito con le parole di Euripide: “molto terribile nella pienezza del potere “
Effettivamente, possiamo asserire che l’uomo ha ricevuto con il vino un dono di grande gioia, ma anche di grande tormento. E questo dono divino possiamo descriverlo essenzialmente come un dono di ambiguità e di ambivalenza. Karl Kerenyì descrive l’infusione di energia vitale che può diventare fonte di morte con queste parole “Con la sua crescita silenziosa e raccolta diffonde la massima quiete e con il succo risveglia la massima irrequietezza che rende la vita così incandescente ed esaltata da procurare l’assoluto opposto della vita: la morte.”
Il vino, metafora ed essenza di una millenaria cultura, ha giocato un ruolo centrale nella storia e nell’evoluzione del piacere, nella doppia veste di Persona e Demone. La Persona unisce territorio e tempio, per vanificare paure arcaiche e volontà di dominio, infondendo coraggio e esaltando virtù. Gli aspetti misterici e estatici del culto dionisiaco evocano però anche le forze prepotenti dell’inconscio, trascinando con la danza orgiastica al rituale omofagico e, in preda al entusiasmòs, alla feroce degustazione di carne e sangue palpitante, il Demone.
Sono molteplici e complesse le ragioni della centralità del vino nel mondo antico dalle sue remote apparizioni alla sua poliedrica funzione simbolica. Va però ricordato che un ruolo decisivo è stato svolto dalla natura psicoattiva del vino. Infatti, all’epoca il vino era l’unica sostanza psicotropica ingeribile conosciuta. Era noto per la sua proprietà di indurre nell’uomo modificazioni dello stato di coscienza ordinaria a favore di esperienze straordinarie. Era un medium con cui conseguire uno stato di trance, oltre che per avere un contatto diretto con la divinità. Non a caso in Mesopotamia il vino aveva l’appellativo di “bevanda sacra“. Si era consapevoli che portasse ad una condizione psichica peculiare, classificata dai greci con l’icastico termine entheos: il dio dentro. È nella Grecia antica che giunge a compimento un processo di spiritualizzazione del nettare divino, nella forma estrema espressa nelle feste come le dionisie, baccanali, le anthesterie, dove erano ammesse ubriachezza sfrenata, danze deliranti, ritmi vorticosi che aprivano la via per la conoscenza e l’unione con il trascendente, naturalmente anche con le estreme conseguenze.
La bevanda di Dioniso era anche strumento di conoscenza di sé e di sé con gli altri nelle scuole di speculazione filosofiche socratiche e platoniche. Era elevato a strumento isagogico, capace di introdurre alla comprensione della Verità. L’ebbrezza era ritenuta l’anticamera obbligatoria a quello stato di eccezionalità psichica nota come alterazione, ovvero alter \ ratio.
Per delineare il rapporto col vino nella società greca, bisogna però distinguere tra l’ubriachezza da vino puro e quello bevuto, come di consuetudine, diluito. Sul bere puro, Erodoto ci racconta che Cleomene I di Sparta impazzì a causa del bere eccessivo. Secondo l’autore, frequentando gli Sciti, aveva imparato a bere vino puro e dopo non poté più farne a meno. Per questo gli Spartani, quando volevano indicare l’eccesso nel bere, lo chiamavano bere alla maniera scitica. Il bere scitico divenne poi sinonimo del bere assoluto. Nelle Questioni Conviviali Plutarco sottolinea il fatto che il vino puro produce un vero e proprio sconvolgimento psichico e la perdita totale della ragione. Bere vino puro non era comunque solo questo: Alessandro Magno usava bere vino puro. Ulpiano scrive, facendosi versare il vino puro: “mesci ragazzo diecimila tazze in onore di dei e dee.” Infatti il vino puro era riservato a Dionysos. Il nobile simposio apriva sempre con aktratos, il vino puro prerogativa del dio, poi proseguiva con kratos, il vino mescolato all’acqua, riservato agli uomini.
Solitamente, il vino era infatti degustato nella forma diluita con acqua. Sulle proporzioni della diluizione troviamo diverse indicazioni, come quella riferita da Anacreonte, ovvero 1/3 vino e 2/3 acqua. Spesso scartata come pericolosa era la soluzione 1\2 e 1\2. Il famoso medico dell’antichità Mnesiteo diceva che Dioniso è il vero grande medico. Il vino da buonumore a chi lo beve di giorno con moderazione e, continua, va bevuto diluito con acqua. Se è allungato metà e metà, può far diventare pazzi. Se bevuto puro paralizza il corpo. “Per voi tutti Io sono Dioniso cinque e due”, viene annunciato in “Donne e Lemno”, dove vengono menzionate anche altre proporzioni.
Platone ricorda che il dono del vino non è senza rischio. Nel primo libro delle leggi dice: “ma riguardo all’ubriachezza, come vi si abbandonino Lidi, Persiani, Iberi, Traci allo stesso modo che voi Spartani ve ne astenete del tutto. Sciti e traci bevono vino assolutamente puro e le donne al pari di tutti gli uomini lo spargono su tutte le vesti e hanno la convinzione che questa sia una consuetudine da ricchi”. Nel sesto libro osserva che “bere fino a ubriacarsi non conviene in nessuna altra circostanza che nelle feste in onore del dio”.
Nel mondo greco c’è però anche un’altra visione, che lega il vino all’amicizia, alla conversazione, alla filosofia e alla musica e vede nell’ebbrezza misurata un comportamento armonioso e controllato. Questo mirabile insieme fa del symposiòn greco, nella sua forma più elevata, una manifestazione etica, religiosa e intellettuale. L’etica del vino era il cuore del contesto del simposio, il centro della vita comunitaria per eccellenza, con una precisa valenza politico sociale. Il sublime equilibrio del modello del symposiòn è la cornice per considerare due frammenti dell’opera di Alceo.
“Vino, ragazzo mio, è verità”
“Il vino è mezzo per sbirciare l’uomo”.
Il primo dei due frammenti, nella sua immediatezza, attesta quasi sicuramente la prima comparsa in letteratura del famoso detto “in vino veritas”. Il vino dunque può svelare l’uomo; è capace di portare alla luce ciò che è più nascoso e permette di entrare nel suo intimo. Una definizione simile si ritrova in Eschilo: “vino specchio dell’anima”.
Il secondo frammento invece è ricco di sfumature, legate al termine dioptron, ovvero quello strumento che serve per guardare attraverso una sorta di finestra aperta sul pensiero e sul sentimento.
Siamo in preda delle nostre emozioni ma, senza emozioni, non potremmo partecipare alle vicende della nostra vita in relazione con quella degli altri. Senza di esse non possiamo apprezzare le informazioni che ci vengono dall’arte, dalla società e dalla scienza. Le emozioni sono legate agli organi di senso (vista, udito, tatto, gusto) a tal punto da chiederci se è possibile apprezzare un’opera d’arte o un brano musicale o degustare un buon vino in assenza di emozioni. Ci si chiede se esse siano l’espressione di puri e semplici meccanismi di adattamento comportamentale o invece il risultato di “costruzioni”, ovvero una sintesi che integra ed amalgama sensazioni sensoriali, tracce mnestiche, micro comportamenti, routine gestuale, aspettative. L’emozione non è allora solo fondata su percezioni fisico-psichiche ma esige delle connessioni con l’immaginazione, intesa come risultato della compatibilità tra la mente ed il mondo esterno, il cosiddetto “senso comune”. L’emozione del gusto è prodotta dall’esercizio dell’immaginazione. Nel codice manageriale, nell’economia delle esperienze, la produzione del plusvalore è strettamente legata alle cosiddette “esperienze emozionali” ed alla sfera dell’immaginario attraverso la produzione di artefatti ad alta componente simbolica L’empatia, l’immedesimazione, è la capacità di riconoscere e di identificarsi con quello che un’altra persona sta pensando o provando e di reagire con uno stato emotivo simile, provare un’emozione assieme.
Nei comportamenti collettivi di una degustazione moderna si scorge l’antico rituale simbolico contenuto nel simposio greco e nella messa cristiana, che può essere definito come “principio di incorporazione”. Il consumatore d’oggi si pone inconsapevolmente due problemi importanti e sostanzialmente nuovi: quello relativo alla distruzione dell’alimento o del vino nella sua forma materiale e quello della trasmutazione nei tessuti del proprio corpo. Questi due aspetti, inerenti all’atto del nutrirsi, erano risolti nel mondo classico attraverso i riti dionisiaci, col dio che muore due volte, prima col dilaniamento dell’uva nella pigiatura, seguita dalla rinascita dovuta alla fermentazione, e poi nell’atto del bere. Nel cristianesimo si risolvono con la morte e la resurrezione del Cristo. Dopo il tentativo della separazione cartesiana dello spirito dal corpo, torna questo concetto di ricongiungimento fra l’esterno (l’alimento) con l’interno, la forza vitale. Lo spirito si ricongiunge alla terra.
Jung, nella fenomenologia della messa, riconosce nel “mangiare il dio” il significato di “syn-ballein” (da cui il termine “simbolo”), lo stare assieme, l’alchimia per trasformare la materia grezza del vino in una nuova realtà psichica, la sottomissione della realtà biologica all’esigenza spirituale che rafforza il legame sociale. Nel lontano passato il vino era al centro delle varie manifestazioni delle società occidentali come i festeggiamenti per le nascite, i matrimoni, nei riti di passaggio, fino all’inumazione dei morti. Ora è in atto un fenomeno di de-simbolizzazione che testimonia il progressivo allontanamento dell’uomo moderno dalle suggestioni del mito.
Quali le conseguenze sulla sociologia dei consumi del vino?
Nel simposio greco come nel consumo del vino in compagnia dei giorni nostri, dove un vino è accompagnato da un buon argomento condiviso dalla tavolata, è difficile che l’aura evocativa porti all’ubriachezza. Essa nasce dal bere dei giovani che si vogliono ubriacare rapidamente. Non è tanto il bere a stomaco vuoto ma il bere a cervello vuoto.
Se Dioniso è il dio della morte e della vita, si può utilizzare la dualità ctonio/epi-ctonio nella rappresentazione delle diverse tipologie di vino. Khtohon significa “terra” in greco, termine che si ritrova nella parola autoctono, che vuol dire “originario di quella terra”. Nella mitologia greca si distinguono divinità ctonie (Gaia, Ade, Demeter, etc) dalle divinità epi-ctonie (creatrici della terra) come Urano, Zeus, Atena, ecc. Qual è il loro rapporto con il vino? Non ci sono dubbi che il vino è ctonio, un prodotto della terra, con le radici profonde ed è conservato nella terra, nelle profondità delle cantine e nelle anfore, fatte di terracotta. I greci antichi versavano a terra le prime gocce di vino nel rituale della libagione del simposio, per placare le divinità ctonie.
Vi anche un’altra dualità, quella dionisiaco/apollinea, riportata ai nostri tempi da Nietzsche. Dionisio è il dio del vino, dell’eccesso, colui che beve vino puro. Per questo è detto acratophoro, in quanto non versa il vino nel cratere per la diluizione con l’acqua, come era la prassi simposiaca. Identifica il vino carnoso, forte, alcolico, strutturato. All’opposto abbiamo il vino della temperanza, dell’elevazione spirituale del banchetto greco, che non era una riunione di ubriachi, ma un momento di discussione, di narrazione di canto. Quale è allora il personaggio che deve essere invocato? Senza alcun dubbio Apollo, Phebus, il dispensatore di luce, che rappresenta il piacere del bere come un momento per lo spirito non solamente della carne e non legato all’ebbrezza.
Rute e Airone, piacevolissimi per i Sommelier Toscani
La rivista dei Sommelier Toscana così descrive il Rute 2018:
"Denso nel calice fino all'impenetrabile. Un'iniziale impatto olfattivo di agrume vira poi sul timo, grafite, mora, felce e caffé. Al palatico scalpita ancora e sprizza fresco brio su tannini ancora da domare che lasciano anche al finale un'idnetità gustativa fatta di erbe, arancia e cacao".
Nel gruppo dei Blgheri Rosso 2018 in assaggio è stato il migliore.
Anche l'Airone 2020 ha colpito:
"Colore paglierino. E' decisamente intenso al naso con sentori fruttati di mela e melone e floreali di ginestra. Entusiasma alla bocca perché si fa sontuoso, ricco e persistente".
Grazie mille ai bravi sommelier.
Assaggiateli e diteci cosa ne pensate.
Il museo del vino è sempre più ricco
Grazie di cuore al grande prof. Roberto Miravalle, che ha donato al nostro museo del vino questa bella imbottigliatrice dei primi del Novecento.
Visita Guado al Melo ed il suo museo del vino, dal lunedì al sabato. L'orario estivo, da lunedì 14 giugno è: 10.00-13.00 16.00-20.00, il sabato pomeriggio 15.00-18.00.