Degustazione al ristorante Da'Vì
Giovedì 31 agosto ci sarà una cena-degustazione dei nostri vini al ristorante Da'Vì di Marina di Cecina, con la nostra presenza.
Si tratta di un piccolo ma rinomato locale sul lungomare, gestito da Fabio e la moglie, vietnamita. La collaborazione ha portato a sviluppare una cucina particolare, a base di piatti italiani, soprattutto di pesce, e alcuni che propongono delle contaminazioni vietnamite. Il menù della serata, che vedete sotto, ne è un interessante esempio.
La prenotazione si fa direttamente al ristorante, a questo link https://ristorantedavi.superbexperience.com/
Nuova annata Criseo 2021
Siamo usciti da poco con la nuova annata del Criseo Bolgheri DOC Bianco, 2021.
Questa annata è di una complessità straordinaria, da grande bianco invecchiato: presenta note di frutto della passione, pompelmo, idrocarburi, lievito, tartufo, vaniglia, cera d'api, ... In bocca ha uno splendido equilibrio, corposo ma sempre con una buona freschezza.
E' un vino da abbinare a piatti di una certa intensità, sia vegetariani che di pesce, ma saporiti.
A voi l'assaggio!
Rinascimento e prima Età Moderna: vini che "si bevono con gli occhi"
Come erano i vini allora?
Erano molto diversi da quelli di adesso. La maggior parte nasceva da una produzione ancora molto primitiva e poco curata, in condizioni igieniche carenti. Erano frutto di macerazioni lunghissime e di lunghe permanenze sulle fecce. I vini erano talmente carichi e pesanti che spesso richiedevano di essere allungati con l’acqua per divenire bevibili. All'epoca il vino era apprezzato soprattutto per il colore, che doveva essere molto intenso e cupo, quasi impenetrabile, anche se il gusto lasciava a desiderare. Chi all'epoca criticava questi vini diceva che "si bevono con gli occhi”.
Come già accennato nei post precedenti, però qualcosa stava cambiando. A partire dal Rinascimento in poi, col recupero dei classici agrari di epoca romana, si diffuse in certi ambienti colti una certa sensibilità per un miglioramento della qualità nella produzione del vino, che fu espressa nei numerosi trattati agrari del tempo. Non tutti questi testi sono altrettanto validi da un punto di vista tecnico: qualsiasi erudito del tempo poteva dilettarsi di scrivere un trattato di agricoltura. Diversi sono quasi solo opere letterarie, che riportano gli scritti di Columella (1) o poco più. Ebbero comunque il merito di diffonderne il sapere. Alcuni sono interessanti perchè descrivono la produzione del tempo del loro territorio. Pochissimi sono realmente innovativi, almeno per alcuni aspetti che poi vedremo.
Ad ogni modo, grazie a tutto questo fermento, iniziò ad emergere un piccolissimo numero di vini che erano prodotti in modo più curato per l'epoca. Questa trasformazione avvenne soprattutto nei territori più dinamici per i commerci del tempo. Il miglioramento produttivo spinse verso la nascita di vini più leggeri rispetto alla media del tempo, più piacevoli alla beva, anche capaci di maggior conservazione. Erano la conseguenza di una produzione fatta con più cura, con macerazioni meno prolungate e con travasi.
Questi vini erano prodotti soprattutto in alcuni territori del nord Italia e della Francia. I vini francesi, in particolare, ebbero una spinta molto importante perchè si ritrovarono al centro delle rotte commerciali più ricche ed importanti dell'epoca. L'epicentro del commercio del vino si era infatti ormai spostato dal Mediterraneo al nord Europa. Sto parlando dei vini di Borgogna, Bordeaux e della Champagne, che vedremo meglio nei prossimi post.
Inoltre, nel Seicento, i progressi nella produzione delle bottiglie e della distillazione portarono alla nascita di nuove tipologie di vino, come gli Champagne ed i vini fortificati. Intanto approfondiamo la produzione dell'epoca.
La produzione del tempo
La maggioranza della produzione dell'epoca era ancora molto primitiva, dalla vigna alla cantina. Le vigne erano trascurate. Erano giusto potate, spesso anche male, o poco più. Fu la riscoperta di Columella a spingere per una gestione migliore. I trattati del tempo citano l'autore romano quasi parola per parola, mescolandoci spesso le superstizioni della loro epoca, come il legame alle fasi lunari o altre credenze. Columella aveva dato una descrizione molto accurata ed avanzata di tutta la trafila dei lavori in vigna, dalla scelta dei terreni alla propagazione delle viti, oltre che i diversi interventi, fino alla vendemmia (leggete per approfondimenti qui, qui, qui ). In particolare, esortava i vignaioli a raccogliere l’uva al momento migliore. L'uso comune dell'epoca era di vendemmiare quando si poteva. Spesso si raccoglieva molto presto, poco dopo che l’uva aveva cambiato colore, per paura dei furti. Columella nel primo secolo d.C., suggeriva di decidere il momento giusto invece con l’assaggio e con l’osservazione del colore dei vinaccioli, un sistema al quale è stata riconosciuta validità scientifica. Nei trattati del Rinascimento e Seicento si aggiungono anche altri sistemi meno funzionanti (qui trovate un approfondimento sull'argomento). Sempre Columella sottolineava l'importanza di selezionare almeno grossolanamente l’uva, scartando quella troppo acerba o ammuffita o marcia, oltre che di togliere le foglie o altri resti vegetali. Soderini (2) consiglia, sempre citando l'agronomo romano, che per avere un vino di alta qualità bisogna togliere anche i raspi: “l’uva spicciola granello a granello”.
L’uva era raccolta dentro a gerle o ceste, a seconda dei territori. La pigiatura poteva avvenire in cantina ma più spesso in passato l’uva era pigiata in vigna. Il pigiato era portato in cantina dentro a botti o altri contenitori e travasato nei tini. L’uva era schiacciata in genere con bastoni o con i piedi, o spremuta con i torchi in legno, come nel Medioevo. Non ci sarà innovazione in questo senso fino all’Ottocento.
Oggi ci sembra banale ma solo travasare il mosto/vino da un contenitore all'altro è stato un grosso problema per tutte le epoche passate, fino all’introduzione Ottocentesca delle prime pompe meccaniche. Era un lavoro molto impegnativo, fatto a mano, con secchi o barili o bigonci (detti "brente" al Nord). Il Soderini descrive alcune rare innovazioni, già testimoniate in epoca romana, di pigiare l’uva al primo piano e far cadere il pigiato per gravità nei tini attraverso uno scivolo in legno che lui chiama “cannone di legno” o attraverso un tubo di cuoio (“calza di cuoio”).
Di media la vinificazione era comunque molto rozza. La qualità del vino veniva spesso ancora legata, come nel Medioevo, alla quantità di spremitura a cui erano sottoposte le uve. I vini che derivavano direttamente dall’uva, con spesso la scelta dei grappoli, erano quelli destinati alle classi dominanti o al commercio. Per i livelli intermedi, si usava un vino derivato dalla seconda spremitura delle vinacce, a cui erano stata aggiunte le uve scartate dai vini più pregiati. Alle classi meno agiate era destinato un vino ottenuto dalla terza spremitura delle vinacce, con l’aggiunta di poca acqua. L’ultimo prodotto era l’acquarello, ottenuto dalle vinacce mescolare ad acqua. Era l'antico “loria” dei Latini, chiamato ancora lorya negli statuti di Asti del XIV sec. Come in epoca antica, si continuavano a produrre i mosti cotti, con diverse concentrazioni: la sapa (concentrata per ebollizione con mele cotogne), il defritto (bollito fino ad una grande densità), il caroeno (ridotto fino a 2/3).
Nel descrivere la vinificazione, nei trattati di allora si usa il termine “bollitura”, Con questa parola si indica sia la fermentazione che la macerazione, senza distinzione. I tempi di “bollitura” indicati sono in genere molto lunghi e, soprattutto, sono uguali per ogni tipo di uva o vino, di media di 20 o 30 giorni. Non c'erano controlli per decidere quando terminare il processo. Non dimentichiamo le condizioni delle cantine: la scarsa pulizia e igiene, le temperature fuori controllo, oltre che la totale mancanza di conoscenza sui lieviti e altri microrganismi, ... Possiamo facilmente immaginare che le fermentazioni avvenissero in modo molto difficile in queste condizioni. Duravano a lungo ed avanzavano in modo stentato, con numerosi arresti e ripartenze. Questa situazione porta allo sviluppo di numerosi difetti ed alternazioni nei vini. Il Davanzati (3) ci descrive (con orrore per noi produttori moderni) il vignaiolo che usa una specie di vanga squadrata con cui rimescola e tritura le vinacce ed i raspi nel tino. Poi lascia questa poltiglia in macerazione nel mosto/vino per giorni. Dopo di che, separava il vino (svinatura) e lo mette nelle botti.
Questo modo comune di vinificare iniziò però ad essere criticato dagli autori più innovativi dell'epoca. Fra essi spicca in Italia il bresciano Agostino Gallo (4), il cui trattato (1565-1566) ebbe un’enorme fortuna per secoli nell'Italia del Nord ed in Francia. Secondo lui la durata della "bollitura" non dovrebbe essere sempre uguale, ma cambiare col tipo di uva e di territorio. Scrive infatti: “il bollir dei vini è la maggior questione che sia tra gli agricoltori, perciocché vedendo le tante diversità delle uve, dei paesi, dei terreni impedisce di dare un sol ordine che sia universale”. Secondo lui, l’uso tradizionale di fare "bolliture" standard di venti o trenta giorni porta alla produzione di vini molto pesanti e cattivi, anche se assumono quel colore cupo ed intenso che era associato all'epoca ad un vino importante. Parla di vini fatti con macerazioni brevi, “vini chiaretti” che descrive come molto più piacevoli al gusto. Scrive che a Milano, “che si diletta di ben bere più d’ogni altra nazione”, li fanno “bollire” solo per 3 o 4 giorni, così come ha introdotto "anche re Lodovico in Francia". Testimonia che questo uso si è diffuso anche nel ducato di Savoia, in Piemonte. Con questo sistema i vini restano “con più bel colore, con miglior sapore e con maggior bontà e che anco si conservano maggiormente”.
Nei territori più votati al commercio questa preferenza per vini con macerazioni brevi andrà in crescendo nel tempo. Culminerà in alcune regioni nella produzione di vini sempre meno colorati per le classi più ricche. L'esempio più noto è la Champagne, col successo fra la fine del Seicento ed il Settecento dei vini cosiddetti "grigi" (vin gris), cioè uve nere vinificate in bianco, per la mancanza di macerazione ("Manière de cultiver la vigne et de faire le vin en Champagne", 1718, anonimo). Questa pratica è rimasta fino ai giorni nostri, anche se i vini non sono più "grigi" ma assolutamente limpidi, grazie alle tecniche attuali.
Al termine della “bollitura” il vino veniva travasato nelle botti, dove rimaneva fino al momento della vendita o del consumo. In questa fase i vini rimanevano spesso fermi a lungo sulle fecce, una pratica molto diffusa nel passato ma poco qualitativa. In queste condizioni si sviluppano numerose alterazioni. C’è però chi testimonia una produzione con travasi: “i vini romaneschi vogliono esser mutati d’una botte in un’altra tre o quattro volte, altrimenti non si conserverebbero, e per questo mutare scema il vino una botte per ogni 12, come dicono li pratici di questo mestiere”. Ad ogni passaggio naturalmente si perde un po’ di volume.
La ripresa di Columella portò ad introdurre nei trattati anche il concetto dell'importanza del controllo della temperatura durante la vinificazione, che non deve salire troppo. Il Soderini porta l'esempio particolare di una sorta di macerazione a freddo, che era attuata con una botte (contenente il mosto e le vinacce) calata con corde dentro a un pozzo.
Uno dei trattati più importanti dell’epoca per la produzione francese è “Le Théȃtre d’agriculture et mesnage des champs” di Olivier de Serres (5) del 1600. Anch’egli si riferisce ampiamente a Columella. Egli sottolinea l’importanza della vinificazione in contenitori chiusi, di tenere separate le uve per la qualità. Scrive che è meglio cambiare i tempi di macerazione per le diverse tipologie e territori, decidendo con l'esperienza, come scriveva il Gallo. Introduce il concetto di controllo: per capire a che punto è la vinificazione, bisogna spillare spesso il mosto/vino ed assaggiarlo. Il parametro che ritiene più importante per decidere la svinatura è il colore.
Botti, bottiglie e cantine
All’epoca i contenitori del vino erano quasi tutti in legno, dalle botti ai tini, sia per la produzione, conservazione ed il trasporto. Il vino era spillato dalle botti in caraffe o altri contenitori, per essere servito.
I contenitori in legno avevano un'influenza importante sulla qualità del vino, legata alle scarse condizioni igieniche di allora. Era comune che in questi contenitori proliferassero muffe e altre contaminazioni microbiologiche. Inoltre il legno marciva e sviluppava cattivi odori che trasmetteva al vino. Quasi tutti gli autori agrari dell'epoca scrivono, riprendendo ancora Columella, dell'importanza della pulizia per i recipienti del vino e delle cantine. All'epoca però era più facile a dirsi che a farsi. Comunque, per eliminare muffe o altri odori cattivi, ognuno descrive la sua ricetta. Soprattutto consigliano la pulizia con acqua bollente a cui sono aggiunti aromi come la salvia, il rosmarino, fiori di garofano, aceto, ...
Per tutti questi motivi la botte vecchia (mal gestita) si è portata dietro a lungo la nomea di cattiva qualità, fin quasi ai nostri giorni. Una nota curiosa: Giovanni Antonio Fineo propose a fine Cinquecento, senza successo, di sostituire i contenitori in legno con anfore invetriate dentro e fuori, per rimediare ai problemi delle frequentissime alterazioni dei vini (ne “Il rimedio infallibile che conserva le quarantine d’anni il vino in ogni paese, senza potersi mai guastare”, Roma 1593). https://it.wikisource.org/wiki/Il_rimedio_infallibile
Le botti erano spalmate di pece per il trasporto ed anch'essa contribuiva in modo importante al gusto del prodotto. Le botti erano anche fragili, perché i cerchi di allora non erano in metallo come oggi ma fatti con i rami flessibili del gelso o del salice, che sono deperibili e non troppo resistenti. Erano quindi frequenti le rotture, con la dispersione del contenuto.
Gli autori del tempo testimoniano che erano usati i legni più disparati, col consiglio che fossero almeno ben stagionati. Non c’era allora una scelta qualitativa del tipo di legno, ma si usavano le essenze disponibili sul territorio come il castagno, il frassino, l'ontano, il carpine, il noce, la quercia e altri. Il castagno era fra i più diffusi in Italia, per la sua grande abbondanza. Solo più tardi (dalla seconda metà del Settecento) si iniziarono a fare valutazioni qualitative sulle tipologie del legno, riscontrando la grande delicatezza della quercia rispetto a tutti gli altri. Infatti la quercia (il rovere) è divenuto il legno per eccellenza per il vino.
Il legno era assolutamente prevalente ma non mancano altri materiali. Andrea Bacci testimonia nel Rinascimento che alcuni vini destinati a “mense eleganti” erano trasportati dalla Toscana in recipienti di vetro o di terracotta, detti “truffe” (o iuste), o nei fiaschi, con piccole imboccature chiuse con tappi di sughero incerato. Egli cita i vini di Porto Ercole, il rosso di Montepulciano, del Piceno e di Cerveteri. Il fiasco toscano è testimoniato fin dal Trecento, rivestito con foglie di stiancia (o scarcia, una pianta di palude) perché non si rompesse durante il trasposto. Oggi il fiasco è praticamente scomparso, ormai svilito nell'immagine nel corso del Novecento. All’epoca era invece un contenitore di lusso. Diventerà diffusissimo solo con l’Ottocento, con la produzione industriale su larga scala delle bottiglie.
Ci sono testimonianze della permanenza di contenitori in terracotta anche in fase di vinificazione soprattutto in Spagna. Erano però viste come eccezioni da citare con curiosità, così come l'uso spagnolo degli otri in pelle. Il Panciroli (6) scrive che i contenitori sono “ordinariamente di legno, se bene in Spagna son di terra, come ancora al tempo dei Romani, e di non minor grandezza e capacità che fossero quelli, dove ancora i barili son differenti dai nostri, e vengono fatti di pelle impeciata, che otri dimandiamo” (Panciroli, “Raccolta breve d’alcune cose più segnalate ch’ebbero gli antichi, e d’alcune altre trovate da moderni …”, 1612). Anche Andrea Bacci descrive le tinajas spagnole, dove i vini erano conservati in contenitori in botti di creta anche per decenni, con sistemi ancora simili a quelli romani. Questa testimonianza si ritrova anche negli appunti di un mercante milanese (“Un mercante di Milano in Europa. Diario di viaggio del primo Cinquecento”, a cura di L. Monga, Milano, 1985). La produzione spagnola dell’epoca venne descritta in patria da Gabriel Alonso d’Herrera (7), nel suo trattato “Obra de agricultura” (1513).
La descrizione di come dovessero essere fatte le cantine si ritrova in diversi autori agrari ma anche di architettura del tempo. D'Herrera scrive che ce ne sono di due tipi, quella sotto e quella sopra terra. Quelle sotterranee o scavate nella pietra sono secondo lui le migliori, perché consentono di avere la temperatura adatta per il vino, fresca tutto l’anno, e non troppo fredda d’inverno. Cita come esempio le cantine di Sutri, vicino a Roma, e quelle in Piemonte di Le Ferrere, vicino a Susa. Quelle sottoterra non devono però essere troppo umide, perché fanno ammuffire i contenitori. Leon Battista Alberti (8) nel “De re aedificatoria” (1443-1452) parla di cantine e scrive che per il vino è necessario che la costruzione sia sotterranea. Analizza gli elementi che possono condizionare il prodotto vinicolo: la temperatura, l’illuminazione, l'influenza dei venti, … Il luogo deve essere stabile, non disturbato da rumori o scuotimenti per il passaggio frequente di carri, inoltre deve essere libero dai miasmi, eccessiva umidità, ... Lo stesso scrive il Palladio (9), visto che le alte temperature, dice, i vini “diventeranno deboli e si guasteranno”. Stanno tutti di nuovo citando Columella.
Nel Seicento ci furono dei cambiamenti legati al miglioramento della produzione delle bottiglie di vetro, che iniziarono ad essere un po' più usate per il vino. Fino ad allora il vetro era impiegato per la produzione di oggetti unici di alto livello, come i pregiati capolavori degli artigiani italiani. Nel Seicento, in Inghilterra, si sviluppò la tecnica industriale di lavorazione del vetro e, verso la fine del secolo, si introdussero miglioramenti che resero le bottiglie sempre più resistenti. Questa produzione si diffuse poi nei paesi più ricchi del nord Europa.
La bottiglia seicentesca per il vino iniziò a diffondersi ma non era comunque ancora un contenitore a buon mercato. Lo diventerà solo con l'espansione dell'industria su larga scala dell'Ottocento. Considerate che la bottiglia spesso costava più del contenuto. Dati il costo ed i rischi nel trasporto, i pochi vini che allora finivano in bottiglia in realtà viaggiavano per lo più ancora nelle botti, spediti poco dopo la fine della vinificazione. I produttori non erano in genere in grado di investire nell’invecchiamento e nell’imbottigliamento. I vini venivano imbottigliati a destinazione dai commercianti di vini di lusso o dai pochi facoltosi consumatori che potevano permetterselo. I primi ad imbottigliare furono i commercianti di vino inglesi, al centro di uno dei mercati più importanti dell'epoca. Il perfezionamento delle bottiglie di vetro permise anche la messa a punto della produzione di vini spumantizzati e l'esplosione commerciale della Champagne (ne parleremo più avanti).
… continua …
Autori citati:
- Columella: Lucio Giunio Moderato Columella, I sec. d.C., ci ha lasciato un'opera, il "De Re Rustica", considerato il primo vero e proprio trattato agricolo della storia, per completezza e precisione. Ha rappresentato un modello e un riferimento per tutti gli scrittori del settore dall'antichità fino al Settecento.
- Giovanni Vittorio Soderini (Firenze 1526, Volterra 1596), intellettuale e politico toscano, ha lasciato anche una testimonianza della produzione toscana di vino del tempo nel "Trattato della coltivazione delle viti, e del frutto che se ne puô cavare" (1600).
- Bernardo Davanzati Bostichi (Firenze 1529 - 1606) erudito in molti campi, ha descritto l'agricoltura toscana del tempo in la "Coltivazione delle viti e di alcuni arbori" (1579).
- Agostino Gallo (Cardignano 1499-Brescia 1570) è stato uno dei più importanti agronomi italiani del Cinquecento, con la sua opera "Le dieci giornate della vera agricoltura e dei piaceri della villa", del 1564, in seguito ampliata e pubblicata in tutta Europa. Agostino Gallo descrive la nuova economia agricola della Padania, con la coltura irrigua dai foraggi e lo sviluppo della produzione casearia, l'introduzione del mais e del gelso. Descrive a fondo anche la produzione del vino, facendosi portavoce delle nuove tecniche.
- Olivier de Serres (1539-1619), scrisse quello che è considerato il primo vero trattato di agronomia francese, "Le théâtre d'agriculture et mesnage des champs" pubblicato nel 1600. Cita molto spesso l'opera di Agostino Gallo, senza dichiararlo direttamente. Un aspetto curioso è che descrive come alla sua epoca era ancora molto diffusa in Francia la coltivazione della vite maritata agli alberi.
- Guido Panciroli (Reggio Emilia 1523-Padova 1599) fu un umanista e noto giurista. Si divertì a scrivere questo testo, " Raccolta breve d’alcune cose più segnalate ch’ebbero gli antichi, e d’alcune altre trovate dai moderni", in cui racconta alcuni usi e costumi dell'antica Roma e del periodo suo contemporaneo, pubblicato dopo la sua morte.
- Gabriel Alonso de Herrera (1470-1539), ecclesiastico ma figlio di possidenti terrieri, è considerato il massimo esponente di agronomia in Spagna dell'epoca. Il suo testo "Agricoltura Generale" (1513) è rimasto come riferimento in Spagna fino ad inizio Novecento.
- Leon Battista Alberti (Genova 1404-1472) è stato un umanista, artista poliedrico ed un genio del Rinascimento italiano, che viene ricordato soprattutto per il suo contributo all'architettura.
- Andrea Palladio, pseudonimo di Andrea di Pietro della Gondola (Padova 1508-Maser 1580), è stato un grandissimo architetto che ha operato soprattutto nella Repubblica Veneta. Con le sue famose ville, ha creato uno stile architettonico. La sua opera più nota è "I quattro libri dell'architettura" (1570).
Il vino e gli Etruschi in mostra a Castagneto Carducci
A Castagneto Carducci, nel palazzo Espinassi Moratti, è aperta fino a novembre una piccola ma interessante mostra sul vino e gli Etruschi. Ospita diversi reperti di vasellame legato al consumo del vino nei banchetti, proveniente dai vicini musei.
VinoVip al Forte (dei Marmi) 25-26 giugno 2023
Il prossimo appuntamento con i vini è al mare, sulla celebre spiaggia di Forte dei Marmi. Il 25 e 26 giugno, ci saranno due giorni molto interessanti di convegni e degustazioni.
Noi ci saremo con i nostri grandi vini di territorio.
Trovate tutto il programma sul sito https://www.vinovipalforte.it/il-programma/
Il vino dal Rinascimento alla prima Età Moderna: la riscoperta della produzione classica e il grande ritorno della vite maritata.
Col Rinascimento e nella prima Età Moderna ci fu un importante cambiamento per il mondo del vino legato a tre fattori di grande rilevanza: la riscoperta del mondo classico, l’introduzione della stampa e il nuovo interesse per le scienze.
Dal Rinascimento in poi ci fu un fiorire molto intenso di trattati di ogni tipo, vino compreso. L'introduzione della stampa permise la loro notevole diffusione. Erano scritti sempre più precisi e particolareggiati. Le illustrazioni non erano più solo ornamentali ma servivano a spiegare i concetti descritti nel testo. Nei trattari agrari e botanici, ad esempio, le piante erano rappresentate nel modo più realistico possibile per aiutare a riconoscerle, oltre che per spiegare come fare interventi di potatura o altri lavori. Gli attrezzi agricoli erano disegnati con grande dovizia di particolari, con le varianti delle diverse zone geografiche.
La riscoperta del mondo classico fu molto importante per il vino perchè permise di recuperare un sapere che fino ad allora era andato perduto. Dovete pensare che nel corso del Medioevo si era dovuta reinventare da zero (o quasi) l'agricoltura. Le conoscenze antiche erano state mantenute (o recuperate) solo parzialmente. L'interesse rinascimentale per l'agricoltura antica dipese per buona parte dal grande successo del trattato agricolo trecentesco di Pietro de’ Crescenzi (del quale abbiamo già parlato). Era stato un unicum per la sua epoca ed ormai era considerato un grande classico. L'introduzione della stampa permise di diffonderlo sempre più, non solo nel latino originario. Iniziò ad essere stampato anche in italiano, oltre che in molte lingue europee.
Il trattato di Pietro de' Crescenzi citava come fonti principali i grandi autori agrari romani. La diffusione di questo trattato e la nuova sensibilità dell’Umanesimo per il mondo classico contribuirono a creare un grande interesse per le opere di agricoltura romana fino ad allora poco o per nulla conosciute. L'interesse per la cultura antica spinse gli Umanisti rinascimentali allo studio dei testi ma, in molti casi, ci fu una vera e propria ricerca fisica di questo patrimonio culturale. Infatti, molte opere dell'antichità, che erano state salvate nei secoli bui e conservate nei monasteri, vi giacevano ancora, dimenticate da secoli. Francesco Poggio Bracciolini ritrovò in particolare il "De re rustica" di Columella nella biblioteca del Duomo di Colonia, opera che rimarrà come riferimento per il vino fino al Settecento. Fino ad allora era considerata perduta. Era conosciuta solo tramite le citazioni di autori secondari. Questo testo è considerato per la completezza e la precisione il primo vero e proprio trattato agrario della storia.
Dal nostro punto di vista i trattati sulla viticultura e sul vino di questi secoli sono in genere poco interessanti e innovativi (salvo per le descrizioni della produzione di allora) proprio perché riprendono in modo quasi pedissequo i testi agrari romani, in particolare del grande Columella. Per l’epoca però furono importantissimi, perché permisero di recuperare e diffondere un sapere perduto. Le conoscenze antiche erano più avanzate e migliorative rispetto alle pratiche dell’epoca, in generale molto più scadenti. Grazie a questo fermento culturale iniziò un certo cambiamento nel modo di produrre vino, almeno per quelli di maggior pregio. L’evoluzione tecnica del Seicento permetterà poi di introdurre alcune nuove pratiche tecnologiche nel vino, come poi vedremo.
Ricordiamo comunque che in questi secoli le trasformazioni più importanti riguardavano solo una piccola categoria di vini e di territori. I testi agrari contenevano l’apice delle conoscenze di allora ma non bisogna pensare che rappresentassero il modello principale della gestione agraria dell’epoca. I libri erano diffusi solo ad una piccola élite di persone ricche ed istruite, abbastanza evolute da capire l'importanza di certi cambiamenti. Per il vino le innovazioni riguardarono soprattutto i produttori localizzati nei territori più dinamici e vocati al commercio (da sempre la molla più importante per il miglioramento qualitativo).
La grande maggioranza dei contadini e dei proprietari terrieri non possedeva libri, non li leggeva o non aveva la sensibilità di cogliere queste evoluzioni. Continuava ad utilizzare i sistemi tramandati della tradizione orale. All'epoca in genere i campi e le vigne erano trascurati, non curati come facciamo oggi. La tendenza comune era di raccogliere l’uva molto presto, perché si temevano i furti. La maggioranza dei vini erano prodotti senza cure, l’igiene era scarsissima. I vini duravano molto poco. Erano soprattutto consumati localmente, spesso ancora allungati con acqua e aromatizzati con erbe e spezie. Solo pochi vini erano di pregio e riuscivano a viaggiare.
Ad ogni modo, fra i tanti testi sulla viticoltura e la produzione del vino di allora, ricordiamo “Le Dieci giornate dell’agricoltura e de’ piaceri della villa” del bresciano Agostino Gallo (1565-1566), che ebbe un incredibile successo e un numero altissimo di ristampe, fino al Settecento compreso, nell’Italia del Nord ed in Francia. Un altro esempio è il “De Agricoltura” del padovano Africo Clemente (1572). Un testo di riferimento per la Toscana è il trattato del 1600 del toscano Giovan Vittorio Soderini. Poi ricordiamo il bolognese Vincenzo Tanara, “L’economia del cittadino in villa” (1644), che dà un’ampia descrizione delle vigne padane dell’epoca. Questi ed altri autori li conosceremo meglio di seguito.
Il grande ritorno della vite "maritata".
"L’oppio* non fa frutto, ma stimo sia creato da Dio per solo sustentamento della vite, sopra il quale si accomoda molto bene e matura l’uva in eccellenza".
Giacomo Agostinetti, "Cento e dieci ricordi che formano il buon fattor di villa", (1679)
*Oppio: l'acero campestre.
Abbiamo già visto come nell’Alto Medioevo aveva preso il sopravvento la vigna bassa di tipo intensivo, che occupava gli stretti spazi a ridosso del villaggio o dentro le mura cittadine. Nel Basso Medioevo, con l'apertura agli ampi spazi delle campagne, ci fu il ritorno importante della vite alberata che già conosciamo dall’epoca antica. Col Rinascimento questo modello si consolidò e si espanse ancora di più. Non cambierà più di tanto per tutti i secoli seguenti, fino all'Ottocento, a volte fino a merà Novecento. Nell’ambito del centro-nord dominò per secoli nei poderi la coltivazione della vite maritata all’albero, salvo alcune zone. Al sud predominò invece la vigna bassa, di antica derivazione greca, con pali di canne o castagno.
Non dimentichiamo però che a fianco di questa viticoltura, un po' ovunque in Italia si continuò fino a quasi il Novecento anche a coltivare le viti selvatiche nei boschi, come in Maremma, con le lambruscaie o forme di viticoltura semi-primitiva. In Sardegna, nei codici dell'epoca si distingue fra le vigne vicine agli insediamenti, le domestiae, e quelle delle zone boschive, le binias de monte o herema, ma non è chiaro se sono vigne vere e proprie o gruppi di viti selvatiche.
Ad ogni modo, la vite maritata, sulla quale ho già scritto a lungo (soprattutto qui), tornava a dominare le campagne del centro e del nord dopo la quasi scomparsa nell’Alto Medioevo. Leandro Alberti scriveva in la “Descrittione di tutta Italia, nella quale si contiene il sito di essa, l'origine et le Signorie delle Città et delle Castella” (1550) che "ovunque si vedono artificiosi ordini di alberi sopra i quali sono le viti, che da ogni lato pendono”. C’erano moltissime varianti per ogni territorio, con tanti nomi diversi. Gli archetipi essenziali erano però due, che altro non erano che i sistemi antichi con nomi nuovi, la piantata e l'alberata. Questi due termini sono spesso confusi e invertiti, ma in origine erano ben distinti.
La piantata (che Tanara chiama anche “arboretto”) altro non era che l’arbustum gallicum romano. Questa presentava le viti maritate a filari di olmi (o altre piante) principalmente posti lungo i confini poderali o lungo i fossi. Si formavano dei filari, con i tralci delle viti che passavano da albero ad albero, a volte intermezzati da sostegni fatti con pali. La più nota e diffusa era la piantata padana. In Emilia Romagna si è calcolato che fra il XV ed il XVII secolo circa i 2/3 delle terre arabili erano sistemate in questo modo. Erano detti terreni abbragliati. La pianura padana in generale, che in questi secoli completò la sua bonifica e sistemazione idraulica, prese il tipico aspetto ordinato fatto da campi di forma regolare delimitati da fossi e viottoli, dove quasi ogni argine era segnato da filari di viti maritate. La vite alberata in Padania rimase fino a quasi metà Novecento. Il bolognese Vincenzo Tanara, scriveva: ”Fili d’arbore, o piante, che sostentano le viti: con questi non s’occupa o impedisce parte alcuna di terreno che non si possi lavorare e cavarne frutto; anzi dallo stesso lavorare che per altrui si fa, la vite ne viene coltivata senza spesa, e quasi perpetui (gli alberi) mantengono e sostentano la vite e col mezzo di questi le allunghi e dilati tanto, che rendo più un filo di questi arbori, o due (alla bolognese) nella piantata bene aiutata che non ha una vigna, porgono ancora dilatazione alla vista e servono di comodità di separare un campo dall’altro”.
Non molto diversa era la piantata veneta, rimasta fino a agli anni 1960-1970, col termine di piante o piantade. Montesquieu scriveva nel 1728 in “Voyage en Italie”: “… La campagna da Verona a Mantova è bellissima. Nei campi, ogni cinquanta passi, c’è un filare di alberi, una specie di olmo, ai quali la vite si marita e che ricopre interamente… e così uno stesso campo dà grano, vino, legno, senza contare gli alberi da frutto come i noci...”
Nel centro, soprattutto in Toscana, Umbria e Marche dominava invece l’alberata, che altro non era che l’antico arbustum italicum, la forma primigenia di origine etrusca e poi romana. Qui non c’erano filari, ma le strisce di campi dedicati ai cereali erano alternati da piccoli campi o strisce piantumati. Su ogni singolo albero si facevano arrampicare una o due piante di vite, con i tralci che si distribuivano a ventaglio sulla chioma. Si usava principalmente l’acero campestre, ma anche il salice o il pioppo, a seconda dei territori. L’alberata toscana, rimasta fino al Novecento, è descritta all’epoca ad esempio da Bernardo Davanzati (“Coltivazione toscana delle viti e di altri arbori”, 1579).
La scelta dell’albero era legata alla tradizione locale e c’era una grande continuità con l’epoca etrusco-romana. Dove i terreni erano più umidi, tipicamente nella Pianura Padana, prevaleva l’olmo, utile con le sue foglie anche per il foraggio degli animali. Virgilio testimoniava già nelle Georgiche che nella pianura padana l’olmo era l’albero per eccellenza “sposato” alla vite. Egli descriveva “sotto quale stella occorre rivoltare il suolo e legale gli olmi alla vite”. Nei terreni più secchi dell’Italia centrale e in molte zone del nord, l'albero era il tradizionale acero campestre, amato fin dagli Etruschi, detto opi in Emilia Romagna, oppio o obolo in Veneto, lopi o loppi o pioppi in Toscana. Secondo Aldo Sereni, c'era una tale identificazione fra l'acero (opulus) e la vite maritata, che questi termini a volte erano usati per indicare in modo generico l'albero tutore, qualunque esso fosse. Dove si aveva necessità soprattutto di produrre pali, fascine e vimini, con terreni umidi, si usavano il salice e il pioppo, come in Campania. Soprattutto nel nord-est si usava anche il gelso, per unire la produzione di vino al reddito dato dal baco da seta. Si usavano anche alberi da frutto, spesso il noce, utile per il frutto, usato anche per produrre olio e il legname per gli arredi.
Nel nord la principale eccezione era il Piemonte, dove la vite alberata, qui detta alteno, era meno diffusa della vigna bassa. L’alteno si trova citato nei documenti fin dal XIII sec. La vite era coltivata su alberi di olmo o acero campestre, alternata a cereali, leguminose o canapa. Era più legata alla piccola o piccolissima proprietà che al podere. Rimase diffuso fino a fine Settecento, indicato con diversi nomi, come campo altenato, alteno campivo, vigna campiva, campo con viti, prato e vigna, ecc., poi scomparve.
La vite maritata in Campagna è invece perdurata dall’antichità fin quasi ai nostri giorni. Le più celebri viti maritate sono ancora oggi quelle aversane, prevalentemente dedicate al vitigno Asprinio. Erano sostenute da pioppi di 10-15 metri, ogni tanto sostituiti da pali di castagno. I tralci della vite erano quasi verticali, messi a ventaglio aperto, per poi unirsi agli alberi vicini.
Goethe scriveva nel suo “Viaggio in Italia”: “Nella pianura di Capua, … i pioppi sono piantati in fila nei campi e sui rami bene sviluppati si arrampicano le viti. Le viti sono d’un vigore e d’una altezza straordinaria, i pampini ondeggiano come una rete fra pioppo e pioppo”. L’architetto Soufflot, nel suo viaggio in Italia del 1750, scrisse: “Governata a tralcio lungo è tradizionalmente maritata al pioppo, in festoni tesi tra una pianta e l’altra. I festoni, in cui i tralci sono sistemati a rete, a “tezz” e “pecore”, possono raggiungere gli otto-dieci metri di altezza; nel rigoglio estivo costituiscono un vero e proprio sistema di quinte verdi dal comportamento tessile, al di sopra delle quali sono rade le cacciate dei pioppi, potati senza scrupolo nei mesi invernali per rifornire di combustibile le grandi città”.
La loro descrizione non è molto diversa da quella antica di Plinio il Vecchio (Naturali Historia): “Nell’agro campano le viti si maritano al pioppo; avvinghiate alle piante coniugi e salendo su di esse di ramo in ramo ne raggiungono la sommità ad un’altezza tale, che il contratto di chi viene ingaggiato per la vendemmia prevede (in caso di caduta mortale) il risarcimento delle spese per il funerale e la sepoltura”.
Nel Cilento, l’area a sud era di influenza greca, ma quella a nord aveva subito quella etrusca e si trovavano spesso viti maritate ai margini dei campi, lungo i confini o sui fossati e canali di scolo. Si usavano come tutori olmi, pero e meli selvatici ed altri alberi da frutto. Nelle zone montane del Cilento c’era una variante detta “piantata a pergolato”. Siccome si usavano come appoggio quasi sempre alberi da frutto, la vite veniva fatta crescere solo fino alle prime branche, per preservare anche la produzione del tutore. Poi i tralci della vite erano guidati su un pergolato fatto da pali e fili.
Una ricca testimonianza del periodo sulla viticoltura sarda si trova nei condaghes, codici che riportano annotazioni di lasciti e donazioni in favore di chiese e comunità religiose, fin dall’Alto Medioevo. Poi divennero dei veri e propri registri patrimoniali. I vigneti erano coltivati ad alberello ed anche con sostegno vivo. Infatti, nei lasciti sono nominati i virgariis o radicarii, vivai di giovani alberi da usare come sostegno per le viti e per pergolati, secondo tecniche di derivazione romana. I cannabarii erano invece i vivai dove si allevavano le canne. Il pampinariu era il terreno per la produzione delle talee. Il bagantinu o il pastinu era il terreno non ancora coltivato, destinato all’impianto della vigna. Le vigne a pergola erano dette catriclas. Si mantenne spesso l’uso romano di far salire le viti su alberi da frutto, soprattutto il fico. Il frutteto con le viti era chiamato binias et pumo. Invece il pioppeto maritato alla vite era detto publiana cum bide. L’allevamento con gli alberi sparirà in Sardegna nell’Ottocento.
... continua ...
Il vino nel Rinascimento e prima Età Moderna: fra banchetti di lusso e letterati maccheronici
“Beviamo compagni, mangiamo, godiamocela!
Vi garantisco che di tutte le cose al mondo niente meglio di questa va incontro alle esigenze umane. Tutto il resto infatti ci sfugge, ma sappia ognuno che questo è proprio nostro, che davvero ci appartiene”.
La Catinia, Sicco Rizzi, 1419.
Con questo invito godereccio, apriamo questo affaccio, necessariamente incompleto, sul vino nella vita e nell'arte del Rinascimento e prima Età Moderna.
Sicuramente era ancora consumato quotidianamente, come sempre nel passato. Un vino leggero o allungato con acqua faceva parte dell'alimentazione quotidiana per tutti, bevanda più sicura dell'acqua contaminata di allora. Quello un po' più concentrato era per il piacere, passando da quelli appena bevibili delle classi più basse fino a quelli raffinati di nobili e signori.
In questa epoca iniziò a costruirsi però una sorta di cerimoniale intorno al vino: si iniziava a studiarlo, a cercare i migliori abbinamenti col cibo, come servirlo, ... Tutto questo, che per noi è normale, nacque nelle splendide corti rinascimentali italiane. Verrà imitato dalle altre classi sociali, oltre che esportato in tutta Europa.
Il vino e la vita di corte
Il vino di un certo pregio, da sempre appannaggio delle classi sociali più alte, fece un importante salto di qualità nei fastosi banchetti dei signori italiani del tempo: i Gonzaga a Mantova, gli Sforza a Milano, i Medici a Firenze, gli Estensi a Ferrara, la corte pontificia e il ducato di Urbino, ... Abbiamo numerose testimonianze letterarie ed artistiche dei loro fastosi banchetti. La magnificenza di quelli dei Medici era leggendaria.
Il banchetto rappresentava un momento importante della vite di corte e della diplomazia. Ogni elemento era parte di una rappresentazione scenografica accuratamente studiata, tesa a mostrare agli illustri ospiti la potenza e la magnificenza del Signore, espressa con raffinatezza e gusto. Qui si svolgevano conversazioni colte, si doveva saper sfoggiare le buone maniere con grazia e disinvoltura. Tutti conoscono a questo proposito il famoso trattato “Il Galateo”, scritto da Giovanni della Casa (1552), che ebbe un successo strepitoso in tutta Europa. A proposito del vino, l'autore consiglia un consumo moderato, perché al cortigiano poco si addice l’ubriachezza, deve mantenere tutto il suo controllo. Depreca invece la moda del brindisi, che arrivava allora dall’estero, che l’autore ritiene poco elegante:
“Lo invitare a bere (...) cioè far brindisi, è verso di sé biasimevole, e nelle nostre contrade non è ancora venuto in uso, siché egli non si dee fare. E se altri inviterà te, potrai agevolmente non accettar lo ’nvito, e dire che tu ti arrendi per vinto, ringraziandolo, o pure assaggiando il vino per cortesia, senza altramente bere”.
I banchetti resero la ricerca ed il servizio del vino di pregio una sorta di cerimonia, con servitori e dignitari dedicati esclusivamente ad essa. Nel ‘500, ad esempio, alla corte dei Savoia si introdusse il sommelier de corps, in altre corti detto bottigliere, che si occupava solo della selezione dei vini da acquistare, del loro approvvigionamento, della scelta per le diverse occasioni e negli abbinamenti ai cibi. Il coppiere era invece responsabile del servizio del vino, allungava con acqua, vigilava che nessuno aggiungesse veleni alla coppa. Ci sono trattati che ne descrivono le capacità, l’aspetto, il vestiario, la gestualità, il lato da cui doveva avvenire il servizio, ecc. Nacque una figura che si è trasformata nel tempo, fino ai moderni sommelier.
I fastosi banchetti non esaltavano solo il vino ma anche il cibo, l'abbinamento fra di essi, oltre che la scelta dei bicchieri più adatti ad ogni tipologia. In questa epoca furono posti i capisaldi della grande cucina classica. Su questi argomenti, ricordiamo l’opera di Domenico Romoli, la “Singolar dottrina” (1560) e tante altre.
Non c'era solo il piacere. La vita di chi lavorava dietro a tali banchetti non era di certo facile, compresa quella dei cortigiani che formavano il seguito dei Signori. Enea Silvio Piccolomini, che poi diventerà papa Pio II, ma che allora era un semplice cortigiano, racconta in una famosa lettera (De curialium miseriis, 1571) la vita precaria e difficile di chi svolgeva questo ruolo, compresa la noia dei lunghi cerimoniali e della rigida etichetta del tempo. Descrive in particolare la sofferenza di dover assistere per ore ai lunghi banchetti dei signori, patendo la fame, sentendo i profumi dei cibi sopraffini e dei grandi vini che questi consumavano in stoviglie raffinate. Lamenta il confronto impietoso con i pasti dei cortigiani, che potevano consumare solo alla fine di queste lunghissime giornate, in locali luridi, con cibi di scarsa qualità, accompagnati da vini annacquati e cattivi, serviti in vecchi calici di legno, troppo caldi o troppo gelati ...
I grandi libri di enogastronomia
L’attenzione per vino e cibo fece crescere sempre più il numero dei testi di enogastronomia. La prima testimonianza di questo genere in Europa risaliva al 1230-1250, col napoletano “Liber de Coquina”. Fra il Trecento e il Quattrocento furono scritti molti Theatra o Tacuina, cioè trattati che nascevano dagli erbari monacali e dalle norme igienico-sanitarie, ma che poi si dedicavano anche a parlare di cibo e vino, quest’ultimo proposto anche per un consumo terapeutico e corroborante.
Nel Rinascimento continuò in parte il gusto medievale per i cibi molto speziati e piatti agrodolci, con portate che alternavano arrosti e cacciagione con cialde e marzapane, pasticci di carne e verdure alternati con zuppe, torte e panna ... I gusti però iniziavano a cambiare. Il testo che segnò il passaggio ad una gastronomia più vicina alla nostra fu il “Libro de arte coquinaria” (1456) del Maestro Martino de Rossi da Como, cuoco del signore di Aquileia, Lodovico Trevisani. Ebbe un enorme successo in tutta Europa e fu fra i più copiati. Iniziava a separare un po’ i sapori nei piatti, oltre che proporre l’importanza di usare materie prime genuine. Rinnovò le ricette classiche del tempo, iniziò ad usare termini che sono arrivati fino a noi, come biancomangiare e salsa verde. Un aspetto per noi curioso è che indicava il tempo di cottura dei cibi col tempo necessario a recitare un certo numero di preghiere. Un altro celebre autore dell’epoca è Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, col suo testo di enogastronomia De honesta voluptade et valetudine (1474). Soprattutto è molto moderno nello scrivere che una buona alimentazione è utile anche per mantenersi in buona salute, insieme alla necessità di fare esercizio fisico e un buon sonno. Il vino, oltre che nelle ricette, compare in un capitolo dedicato, nel quale l'autore di fatto riprende gli scritti di autori romani.
Dedicato solo al vino è il testo di Sante Lancerio, bottigliere del papa Paolo III Farnese, che ci ha lasciato delle vere e proprie recensioni dei vini dell’epoca. Nella sua opera racconta e giudica 53 vini, descrivendone le caratteristiche sensoriali dei prodotti assaggiati, la provenienza geografica, le quantità prodotte, le modalità migliori di consumo, gli abbinamenti col cibo, ... Descrive quella che diventerà la progressione classica del servizio dei vini, con quelli bianchi leggeri ad inizio pasto, i rossi più robusti per gli arrosti, fino a quelli dolci ed intensi per il dessert. Chiudeva il pranzo una sorta di amaro, un vino aromatizzato con erbe e spezie, detto Ippocrasso. Oggi ci sembrano aspetti scontati, ma allora erano novità.
Ecco alcuni esempi delle sue descrizioni:
Trebbiano: Il trebbiano viene a Roma dallo Stato fiorentino di Valdarno di sopra e da molti altri luoghi, ma li migliori sono quelli di S. Giovanni et Figghine. La maggior parte si porta in fiaschi con le ceste, et ne vengono anche alcuni caratelli. Questa tale sorta di vino è un delicato bere, ma non a tutto pasto per essere vino sottile. Non di colore acceso, ma dorato, di odore non troppo acuto, amabile, non dolce, non agrestino, anzi habbi del cotognino. Erano molto grati a S.S. (Sua Signoria, cioè il papa) ma non a tutto pasto; volentieri li bevea nello autunno, fra nuova et vecchia stagione.
Greco di S. Gemigniano: È una perfetta bevanda da Signori; et è un gran peccato che questo luogo non ne faccia assai. S. Gemigniano è una terra grandissima nello stato fiorentino. Di questo vino ogni anno, nell’autunno, ne facevano portare in Roma, a some con grandissime fiasche, i Reverenti Santiquattro di casa Pucci e li donavano a S.S. Il vino ha in sé perfettione; in esso colore, odore, sapore, ma, volendo conoscere il buono non vuole essere agrestino, anzi avere del cotogno, come il Trebbiano, et sia maturo, pastoso et odorifero. In questo luogo ci sono anche di buonissime vernacciuole e di questa bevanda gustava molto S.S. et faceva honore al luogo.
Un altro autore che ci ha lasciato una ricca descrizione di vini dell’epoca è Andrea Bacci, medico del papa Sisto V e naturalista, che scrisse nel 1596 il De naturali vinorum historia. Questo è un trattato molto più ricco del precedente, con descrizioni dei vini nell’antichità, le modalità di produzione e la descrizione dei vini della sua epoca. Il suo percorso enologico in Italia è molto critico: tolti alcuni vini di qualità, ci dice che la larga maggioranza era mediocre. La maggioranza dei vini facevano fatica ad arrivare alla fine dell’estate. Spesso faticavano a sostenere il trasporto fino a Roma.
Tuttavia, l’elemento considerato più dirompente dell’opera di Bacci, anche se oggi non è per nulla ricordato, è che fu il primo autore dopo l'epoca Romana ad esprimere in modo compiuto il concetto di vino di territorio, cioè che esso trova la sua identità nel suo ambiente di provenienza, non solo in senso geografico ma anche antropico, in rapporto alla cultura, alla storia e alla tradizione del territorio. Questo concetto, che è da sempre il caposaldo della produzione del vino in Italia (e in tutta Europa), nato con i Romani, sarà approfondito ed esplicitato solo nella seconda metà del Novecento, quando verrà posto alla base delle Denominazioni moderne, identificato col termine terroir (o genius loci).
Il vino nella letteratura, dallo stoicismo degli Umanisti ai grandi maccheronici.
Il Medioevo è ricordato soprattutto per i canti e le opere goderecce, mentre gli Umanisti rinascimentali non dedicarono molto spazio al vino. L'Umanesimo puntò a toni molto elevati, con la ricerca di valori morali e civili, esaltando le virtù cristiane e la poca dipendenza dai piaceri terreni. Riscoprirono la grande cultura classica ed i loro riferimenti romani preferiti erano quelli colti di Cicerone o dei grandi filosofi stoici come Seneca. Un esempio è rappresentato da Francesco Petrarca che, in una celebre lettera indirizzata al medico ed amico Giovanni da Padova, condanna in modo molto fermo il consumo del vino ed i suoi eccessi (Res Seniles, XII, 1), decantando invece la superiorità di bere acqua. Cito questa lettera perchè, come vedrete di seguito, sarà anche presa in giro da autori più gogliardici e meno raffinati.
Come detto, il Rinascimento fu il momento in cui fu riscoperta ed esaltata la cultura classica. Bacco ispirò moltissimi artisti, come Michelangelo Buonarroti con la sua famosa statua marmorea di cui vedete qui sotto un particolare (1496-1497). Non sono però opere goderecce. Il vino spesso rimane solo sullo sfondo o nella coppa che il dio solleva, attributo necessario per riconoscerlo.
Nel celebre canto carnevalesco di Lorenzo il Magnifico, "Bacco e Arianna" (1490), al centro c'è il tema del "carpe diem" classico, con la celebrazione della bellezza e della giovinezza che fuggono. L'ebrezza è solo quella buffa di Sileno:
Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Quest’è Bacco e Arïanna,
belli, e l’un dell’altro ardenti:
perché ’l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe ed altre genti
sono allegre tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza. ...Donne e giovinetti amanti,
viva Bacco e viva Amore!
Ciascun suoni, balli e canti!
Arda di dolcezza il core!
Non fatica, non dolore!
Ciò c’ha a esser, convien sia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Eppure, in buon latino, alcuni illustri umanisti scrissero anche storielle umoristiche, come il toscano Francesco Poggio Bracciolini. Pur essendo segretario apostolico, si divertì a scrivere le Facezie (1438-1452), motti arguti e sboccati in linea col suo conterraneo Boccaccio. Ne il De potatore (“Di un Bevitore”), ad esempio, racconta di un famoso bevitore di vino che, colto dalla febbre e preso dall’arsura, chiede ai medici di curargli il male ma non la sete, alla quale ci avrebbe pensato da sé. Tradotto dal latino:
“Un famoso bevitore di vino fu preso dalla febbre, per la quale gli si aumentò la sete; vennero i medici e discutevan sul modo di toglier la febbre e la straordinaria sete: “Solo della febbre, disse il malato, voglio che voi vi occupiate, chè quanto a curar la sete, quello è affar mio.”
Battista Spagnoli, detto il Mantovano, (1447-1516), nell’Egloga IX della sua maggiore opera (Bucolica seu adolescentia in decem aeglogas divisa) scritta in latino intorno al 1480, descrive il vino come un modo per curare i mali dell’anima, che rinforza il corpo così come le amicizie. Riprende un tema caro ai carmina medievali, dove si elenca ogni bevuta, col settimo bicchiere che trionfa sul bevitore. Oggi è poco conosciuto ma all’epoca ebbe grande fama. Fu proclamato da Erasmo di Rotterdam il Virgilio cristiano.
Non mancano comunque le opere ancora più "basse" e goderecce, come la citazione che ho messo all'inizio, dalla commedia “La Catinia” (1419) di Sicco Rizzi, detto Polenton. Cambiano decisamente i toni, ma ha in comune con Lorenzo il Magnifico il tema malinconico della fragilità umana, con l'imperativo di godersi il presente. Nell'opera si narra di un venditore di contenitori che finisce in un’osteria piena di allegri bevitori, dove si apre una disputa su cosa abbia senso nella vita. Domina il tema del vino e della vita gaudente. L’acqua è nemica dell’uomo, fa male allo stomaco e rende stupidi, mentre il vino dona eloquio e rende l’uomo combattivo ed audace. Qui il latino è volutamente mescolato col volgare, in un linguaggio spiritoso usato nelle opere satiriche e parodistiche fin dal Medioevo, che prese poi il nome di maccheronico.
“Bibamus, comedamus, gaudeamus ...”
“Beviamo compagni, mangiamo, godiamocela! Vi garantisco che di tutte le cose al mondo niente meglio di questa va incontro alle esigenze umane. Tutto il resto infatti ci sfugge, ma sappia ognuno che questo è proprio nostro, che davvero ci appartiene”.
Il capolavoro della letteratura detta "carnevalesca" e del linguaggio maccheronico è il Baldus (1552) del padovano Merlin Cocai, pseudonimo di Teofilo Folengo, che influenzerà moltissimo la letteratura europea, come il più famoso autore François Rebelais ("Gargantua").
Pur raccontando una sorta di poema epico-cavalleresco, ne rappresenta la parodia. Sembra sempre iniziare ogni discorso con insegnamenti morali e costruttivi, che poi vengono deformati e presi in giro in modo spiritoso. Ad esempio, sembra che esalti la sobrietà degli uomini dell’Età dell’Oro e dei monaci del deserto, per poi descrive orge di cibo e vino. Descrive il banchetto del re di Francia, preparato dal cuoco Gambone, maestro dell’arte “pappatoria”, con un elenco infinito di selvaggina, salse, salsicce, lasagne, ostriche, torte, pasticcini e fiumi di vino, che servono a “spegnere la fiamma con la fiamma”. Qui usa le stesse parole del Petrarca nella famosa lettera in cui fa le lodi dell’acqua. Si permette però di prenderlo un po' in giro, girandole al contrario, per esaltare il piacere del vino.
Nel proemio (l'introduzione) non chiede aiuto alle classiche Muse per l'ispirazione, come era d'uso, ma alle “dee grasse”, Muse inventate da lui, che lo devono aiutare ingozzandolo di cibo e vino. Ecco entrare in ballo i maccheroni, dai quali è nato il termine di linguaggio "maccheronico".
Phantasia mihi plus quam phantastica venit
historiam Baldi grassis cantare Camoenis.
Altisonam cuius phamam, nomenque gaiardum
terra tremat, baratrumque metu sibi cagat adossum…....
Mi è venuta l'ispirazione più che bizzarra di cantare la storia di Baldo, con l'aiuto delle grasse Camene. La sua fama e il suo nome gagliardo fan tremare la terra, e al sentirlo l'inferno se la fa addosso dalla paura.
Ma prima mi occorre invocare il vostro aiuto, o Muse che effondete l'arte maccheronica. Potrebbe forse la mia barchetta superare gli scogli del mare, se non sarà raccomandata dal vostro aiuto?
Mi dettino i versi non Melpomene, non quella minchiona di Talia, non Febo che strimpella la chitarrina; infatti, quando penso alle budella della mia pancia, le chiacchiere del Parnaso non sono adatte alla nostra zampogna. Solo le Muse pancifiche, le dotte sorelle (Gosa, Comina, Striace, Mafelina, Togna, Pedrala) vengano ad imboccare di maccheroni il poeta, e gli diano cinque o otto catini di polenta. Queste sono quelle dee grasse, quelle ninfe sgocciolanti, la cui dimora, la cui regione e territorio son racchiusi in un angolo remoto del mondo, che le caravelle spagnole non hanno ancora scoperto.
…
Ci sarebbe un numero infinito di citazioni ma non possiamo metterle tutte. Il grande poema seicentesco italiano del vino è senza dubbio quello dell’aretino Francesco Redi “Bacco in Toscana” (1685). Qui il linguaggio è il toscano, cioè quello che diventerà l'italiano, per cui lo possiamo leggere direttamente, anche se usa termini e prosa per noi arcaici. Questo poema giocoso, al di là del valore letterario, è interessante perché elenca i vini prodotti in Toscana all’epoca, oltre che citare altri vini italiani, come alcuni campani (il Falerno, la Tolfa, la Verdea, la Lacrima di Vesuvio, ecc.). Nel poema descrive 57 tipologie di vini, arrivando a definire come re di tutti il Montepulciano (il Redi era di Arezzo).
Ricordo che in Toscana questa forte connotazione territoriale per i vini era già presente dal Medioevo. Questa sensibilità porterà infatti, ad inizio Settecento, alla nascita in Toscana delle prime indicazioni territoriali al mondo: Chianti, Pomino, Carmignano e Val d’Arno.
È divertente leggere come depreca le nuove bevande che arrivavano dal nord o dell’Oriente, come la birra (cervogia), il sidro, la cioccolata (cioccolatte), il tè ed il caffè:
Chi la squallida Cervogia
alle labbra sue congiunge
presto muore, o rado giunge
all'età vecchia e barbogia:
beva il Sidro d'Inghilterra
chi vuol gir presto sotterra;
chi vuol gir presto alla morte
le bevande usi del Norte
…
non fia già, che il cioccolatte
v'adoprassi, ovvero il tè,
medicine così fatte
non saran giammai per me:
beverei prima il veleno,
che un bicchier che fosse pieno
dell'amaro e reo caffè
Per il vino spende ben altre parole, ricordandoci che ci rinfranca nella vita e ci fa dimenticare i problemi. Riprende anche un celebre verso di Dante, nel quale il vino è indicato come figlio del sole:
Se dell'uve il sangue amabile
non rinfranca ogn’or le vene,
questa vita è troppo labile,
troppo breve, e sempre in pene.
Sì bel sangue è un raggio acceso
di quel Sol, che in ciel vedete;
e rimase avvinto e preso
di più grappoli alla rete.
…
La vigna che ci dona tali piaceri è benedetta. L'autore invoca che non sia colpita dalle intemperie, che la natura la culli dolcemente, così che il suo proprietario in vecchiaia potrà godere in abbondanza del vino prodotto:
Manna dal ciel sulle tue trecce piova,
vigna gentil, che questa ambrosia infondi;
ogni tua vite in ogni tempo muova
nuovi fior, nuovi frutti e nuove frondi;
un rio di latte in dolce foggia, e nuova
i sassi tuoi placidamente innondi:
né pigro giel, né tempestosa piova
ti perturbi giammai, né mai ti sfrondi:
e 'l tuo Signor nell'età sua più vecchia
possa del vino tuo ber colla secchia.
Bibliografia:
Piero Stara, Il vino
SIMONA GAVINELLI Gli umanisti e il vino
Luca Tosin, dalla vite al vino attraverso l’iconografia dei libri a stampa del cinque-seicento
Vinitaly 2023
Vi aspettiamo a Vinitaly anche quest'anno, nel Padiglione 7 stand B4, nell'area di Cuzziol GrandiVini.
A presto
Sperimentiamo un nuovo sistema sostenibile per la tignoletta
Abbiamo posizionato nel Campo Grande questo apparecchio che è un nuovo sistema sperimentale per controllare con grande precisione e tempestività la presenza della tignoletta nelle vigne (per capire cos'è la tignoletta, potete leggere qui).
Dotato di batteria solare, registra e controlla in tempo reale la presenza di questo pericoloso parassita, inviandoci i dati. Gli insetti sono attirati all'interno della trappola tramite un feromone altamente specifico (un segnale chimico che imita quello rilasciato naturalmente durante l'accoppiamento). Una telecamera inquadra gli insetti catturati e li conta. L'intelligenza artificiale riconosce quelli giusti, escludendo quei pochi intrusi che possono essere entrati per sbaglio.
In più, l'apparecchio è dotato anche di una centralina metereologica, che rileva temperatura ed umidità.
Finora il controllo viene effettuato con una trappola più semplice, un foglio di plastica ricoperto di colla, che cattura gli insetti in modo non specifico. Periodicamente bisogna controllare visivamente gli insetti attaccati, riconoscere la tignoletta dagli altri e fare la conta. Indubbiamente si ha il vantaggio di una maggiore precisione, velocità d'informazione, oltre che salvaguardare gli insetti non interessati.
Si tratta di un sistema ancora solo sperimentale, ma è un'innovazione di grande interesse.
Vinissima di Tamborini in Svizzera 12-13 marzo
Ricordo agli interessati che a breve ci sarà la manifestazione Vinissima a Lugano, organizzata ogni anno dal nostro importatore Tamborini Vini. Noi ci saremo per degustare insieme le nuove annate.
Per maggiori informazioni:
https://tamborinivini.ch/vinissima
Il vino italiano fra Rinascimento e l’inizio dell’Età Moderna: uno sguardo generale
Uno sguardo generale sull'agricoltura
Abbiamo visto come il Medioevo (qui, qui, e qui) fu un periodo molto ricco ed interessante per il vino italiano, nel corso del quale avvennero notevoli trasformazioni. Questo andamento favorevole continuò col Rinascimento, come già accennato qui. Prima però di parlare di vino, diamo uno sguardo generale sull'agricoltura e le trasformazioni del paesaggio dal Rinascimento all'inizio dell'Età Moderna.
L'indiscusso primato dell'Italia sull'economia europea, già iniziato col Medioevo, continuò e si consolidò col Rinascimento. Soprattutto i territori del Centro e del Nord avevano il più alto livello di urbanizzazione del continente, oltre che un notevole sviluppo artigianale e commerciale. Le campagne beneficiarono della prosperità economica delle città, grazie soprattutto alla nuova borghesia. Infatti i borghesi, che fossero artigiani, mercanti o altro, spesso e volentieri investivano le loro ricchezze nelle tenute di campagna. Al di là dell'investimento, per loro rappresentavano uno status symbol di altissimo prestigio sociale. Da sempre la proprietà terriera era il segno tangibile della ricchezza e del potere. La borghesia non riversò però nelle campagne solo capitali ma anche la propria intraprendenza. Nacquero tenute dinamiche ed innovative, ben diverse dalle più stagnanti (in media) proprietà nobiliari. Il Rinascimento vide quindi accrescere e completarsi quella trasformazione agricola e paesaggistica che si era già ben avviata nel Medioevo, raggiungendo l’apice di questo processo.
Col Cinquecento iniziò però un progressivo declino politico ed economico dell’Italia, diventata sempre più il campo di battaglia delle potenze straniere che si contendevano il dominio europeo. Tale declino arriverà a pieno compimento con l’inizio dell’Età Moderna, nel Seicento. Questo causerà il blocco del progresso agrario italiano, che purtroppo si trascinerà poi molto a lungo (seppure con intensità e modalità diverse per le varie parti d’Italia).
A peggiorare la situazione, fra la fine del Rinascimento e l’inizio dell’Età Moderna ci fu una crisi agricola generalizzata in tutta Europa, per colpa del progressivo peggioramento del clima, già iniziato nella parte finale del Medioevo. La cosiddetta Piccola Era Glaciale raggiungerà il suo momento peggiore fra la fine del Cinquecento e l'inizio del Settecento.
Il Bel Paesaggio italiano, fra ville e terre bonificate
Il Bel Paesaggio, che era nato in Toscana nel Basso Medioevo, si consolidò nel Rinascimento ed uscì anche dai confini di questa regione. Non smetterà più di stupire i viaggiatori stranieri per il suo ordine e la sua armonia, la varietà e la densità delle colture, soddisfacendo a pieno l’ideale del bello unito all’utile, eredità della cultura romana.
L’elemento unitario alla base di questo paesaggio era la villa di campagna, che nel tempo diventò sempre più ricca e fastosa. Era un grande segno di potere per signori e nobili, agognato emblema di affermazione sociale per la ricca borghesia cittadina. La villa era contornata dall’elegantissimo giardino detto “all’italiana”, caratterizzato da aiuole ben definite e squadrate, di chiara derivazione agricola, che nel tempo si impreziosì sempre più con viali alberati, fontane e statue. Gli esempi più famosi saranno copiati in tutta Europa. In Toscana si diffusero sempre più le strade in cresta, costeggiate da filari di cipressi. Intorno si sviluppavano vigneti, oliveti e frutteti e campi coltivati.
Questo modello raggiunse il suo apice in Toscana entro la fine del Cinquecento, poi s’espanse in altri territori italiani. Ad esempio nel veneziano, il nord-est d’Italia, toccherà il suo massimo splendore nei due secoli seguenti. Nell’ambito romano, dove non c’era una borghesia sviluppata, la villa si ritrovava soprattutto nelle proprietà di papi e cardinali, che erano l’espressione delle famiglie italiane più potenti dell’epoca.
Con l'avanzare del Rinascimento, il fasto delle ville aumentò a tal punto da soverchiare completamente la funzione agricola, come scrive in un poemetto il poeta napoletano Luigi Tansillo (Il Podere, 1560):
“Io non vo’, che le ville sien palazzi, / che ingombrin molto; e chi vien, che vedan / terren, dove men s’ari, che si spazzi”
Non vi ricorda qualcosa? Sembra di rileggere i versi di Orazio che, come altri autori romani, era preoccupato per le regiae moles (le dimensioni da reggia) delle ville agricole romane, che sembravano non lasciare più spazio alle coltivazioni.
In questo poemetto (Il Podere), Luigi Tansillo parla direttamente ad un amico, il maggiordomo dei principi di Avalos, che è intenzionato ad acquistare un podere. Gli fornisce, in poesia, indicazioni sia economiche che di natura agraria. È chiaramente ispirato a Columella e Virgilio.
Nel 1534, a 24 anni, Luigi Tansillo aveva anche scritto “Il Vendemmiatore”, che in realtà ha ben poco a che fare con la viticoltura, ma è un poema erotico, che esorta a godere della giovinezza, nel tema del “carpe diem”. Tansillo, fingendo di scrivere un poema bucolico, si mette nei panni del vendemmiatore che, con metafore agricole che nascondono allusioni sessuali, invita le donne a non negarsi ai piaceri. Egli stesso racconta che lo scrisse dopo aver assistito alla vendemmia nella sua cittadina di origine, Nola. Allora c'era ancora un'usanza che era rimasta dall'epoca antica: era concesso ai vendemmiatori insultare i passanti e fare allusioni sconce, anche alle persone di classe sociale superiore. Il poema gli diede grande fama fra i letterati dell’epoca ma gli procurò anche tante pene, scatenando l’ira del papa. Fu messo nell’Indice dei libri proibiti (1559). Tansillo recuperò poi il credito papale con un poemetto religioso. Da Il Vendemmiatore:
“… Quest’uva che l’altr’ier pendea sì acerba,
Ora è più dolce che del mel le canne:
Fu dura, ed ora è molle; sembrava erba,
Ed or sembra auro, ch’uman petto affanne;
Se sempre stesse al ramo ov’or si serba,
Come il liquor daría, che lieti fanne?
Per quetar col suo frutto l’altrui speme,
Prima da voi si coglie, e poi si preme. …”
https://it.wikisource.org/wiki/Il_Vendemmiatore
Non si trattava solo di ville, ma il paesaggio si trasformava con notevoli interventi di bonifica delle pianure e di terrazzamenti di colline e montagne, soprattutto nei territori più ricchi e più stabili. Oltre che in Toscana, le trasformazioni più notevoli si ebbero nel milanese e nella zona veneta.
In Toscana e nei territori limitrofi si diffuse sempre più la mezzadria, che consolidò nel Rinascimento la sua classica struttura poderale. Non varierà più di tanto nei secoli seguenti. La grande proprietà era suddivisa in poderi, unità dimensionate sulla capacità di lavoro della singola famiglia colonica, che ripagava il proprietario dividendo con lui i prodotti agricoli. Ogni podere era autonomo, per cui tendeva a comprendere la coltivazione di tutto quanto necessario (o quasi) all’autosufficienza. La maggior parte delle terre di ogni podere era sempre dedicata ai cereali (in genere frumento) e alla vigna, coltivate in modo promiscuo. Poi la produzione era completata con colture orto-frutticole, che variavano fra i diversi territori, e quelle tessili (come la canapa). Quindi, il modello basilare su cui si fondava l’agricoltura del podere era il cosiddetto campo arativo/arborato- vitato, cioè campi arati per la semina dei cereali alternati alle viti, che erano quasi sempre allevate su alberi (la vite maritata di cui abbiamo tanto parlato dagli Etruschi in poi, per esempio qui). Era un’agricoltura promiscua, ma comunque intensiva, nel senso che ogni risorsa era sfruttata al massimo, a volte anche per aspetti minimali. Ad esempio, anche le fronde degli alberi su cui poggiava la vite erano considerate indispensabili, utili per foraggiare il bestiame e, con le potature, per ottenere fascine da ardere o pali. Si usava dire che “i Toscani tengono i prati sugli alberi”, perché il foraggio del (poco) bestiame derivava soprattutto da queste risorse.
Nel Nord invece, nell’area padana, l'agricoltura era molto avanzata grazie ai lavori di bonifica che proseguivano ormai ininterrotti dal XI secolo, soprattutto in Lombardia. Accanto alla mezzadria, era già presente dal ‘400 un modello ancora più avanzato di affitti pagati in denaro, lavoratori salariati, con aziende sempre più votate alla commercializzazione dei prodotti. Il completamento della regimazione idraulica aveva trasformato la pianura paludosa nel tipico paesaggio padano dei prati irrigui, fatto da campi regolari ordinatamente separati da canali, sulle cui rive si trovavano filari di alberi, spesso con la vite maritata. Il prato forniva abbondante foraggio per l’allevamento dei bovini, determinando lo sviluppo della grande produzione casearia tipica della Padania. L’allevamento produceva grandi quantità di letame, la cui abbondanza permetteva una ricca produzione di cereali e altre colture. Era un ciclo produttivo chiuso e molto efficiente.
Nel Meridione e nelle terre dei papi, ogni evoluzione socio-economica era invece frenata dalla maggiore chiusura di una società che non era passata attraverso l’Età dei Comuni e che non aveva quindi visto lo sviluppo di una classe borghese evoluta. In queste zone continuò a permanere un’impostazione sostanzialmente feudale, che limitò la crescita socio-economica delle città. Tuttavia, si registrarono in questo periodo maggiori aperture sociali ed agricole.
Non ci furono solo miglioramenti ma anche involuzioni. Con la fine del Rinascimento, nei territori più poveri ed abbandonati del Centro e del Sud si sviluppò sempre più il modello economico dell’allevamento transumante di ovini, per il quale bastava avere a disposizione ampie porzioni di territorio incolto da affittare, come i grandi latifondi siciliani, il Tavoliere delle Puglie, l’Agro romano, la Maremma (vedi qui), ecc. Il facile guadagno degli affitti legati alla transumanza bloccò lo sviluppo di questi territori per secoli.
La Piccola Era Glaciale
Nel Cinquecento le guerre imperversavano, la politica declinava ed il clima andava sempre più peggiorando. Dal 1564 si ebbero di seguito dieci inverni rigidissimi. Fra il 1594 e il 1597 piovve quasi incessantemente, con grave danno ai raccolti. Ogni annata problematica portava carestie, che favorivano la diffusione di epidemie. Nell’ultimo decennio del secolo i ghiacciai si espansero come non mai, invadendo i campi coltivati e distruggendo villaggi. Alcuni fiumi e laghi nordici ghiacciarono completamente, come il lago di Costanza. I prezzi dei beni agricoli salirono sempre più.
Nel Seicento continuò questo clima difficile. Le carestie portarono alle note pestilenze del tempo (ricordate i "Promessi Sposi" del Manzoni?), che decimarono la popolazione. Le più importanti furono nel 1630 e nel 1656. Ricordo anche nel 1693 un terremoto distrusse buona parte della Sicilia Orientale. Diverse terre che erano state bonificate ritornarono selvagge. Per contrastare le carestie, la tendenza fu di convertire quasi tutti i terreni a grano, a scapito delle colture pregiate.
In questa fase difficile si persero molti progressi agricoli e sociali. Ad esempio, in molte parti del centro e del sud d’Italia tornò a prevalere nelle campagne un sistema feudale retrivo. Il Sud si concentrò quasi solo sull’autoconsumo, mentre al Nord si iniziarono ad importare le derrate alimentari dall’estero. Al Nord declinò l’industria laniera e della seta, causato dal declino mercantile italiano, ormai surclassato dagli olandesi. L’unica città in sviluppo nell’Italia del Seicento fu Livorno, in quanto era il porto di scalo più utilizzato dalle potenze straniere nel Mediterraneo.
Continua ...
Gambero Rosso Oslo Feb. 15th
Michele sarà a Oslo col Gambero Rosso, con i vini premiati, in particolare l'Atis 2019 che ha ricevuto i TreBicchieri.
Michele will be in Oslo with Gambero Rosso. He will present the prized wines, expecially Atis 2019 what won the TreBicchieri Award.
GAMLE LOGEN
Grev Wedels plass 2, 0151 Oslo
TASTING
14:00 - 16:00 | TRADE TASTING
17:00 - 19:30 | CONSUMERS TASTING
15:00 | TOP ITALIAN RESTAURANTS AWARDING CEREMONY
MASTERCLASS
18:00 - 19:00 | ITALY IN A NUTSHELL
BuyWine 2023
Michele Scienza sarà presente al BuyWine 2023 con i nostri vini, fiera dedicata agli incontri B2B con importatori esteri.
Michele Scienza will be at BuyWine 2023 with our wines. It's a B2B fair for impoters.
Evento Cuzziol a Milano 23 gennaio
Lunedì 23 gennaio saremo all'hotel Gallia a Milano per l'evento di presentazione del nuovo catalogo del nostro distributore in Italia, Cuzziol GrandiVini.
La degustazione è riservata agli operatori professionali, ristoratori ed enotecari.
Ci sarà Michele per noi, con le annate in vendita e qualche anteprima.
Buon Natale e Buon Anno Nuovo - chiusura per ferie dal 17 dicembre al 08 gennaio compresi.
Dopo un anno di lavoro senza mai fermarci, anche noi abbiamo bisogno di un po’ ferie. Saremo chiusi dal 17 dicembre al 08 gennaio compresi.
Ho trovato una nuova immagine della Madonna e del Bambino Gesù con un grappolo di uva. È del Beato Angelico (1425). Con essa, Michele ed io vi facciamo i nostri migliori auguri, anche se sappiamo che non è un periodo facile. Fra il mondo che “brucia” e difficoltà personali, quello che ci salva è sempre e solo l’amore.
Michele Scienza: "Vi racconto di Bolgheri, delle possibilità dei bianchi, di me e di mio padre" intervista su Cronache di Gusto.
Ecco qui sotto il link all'articolo originale. Se preferite, qui trovate il file in PDF.
Viaggio nella terra degli Etruschi
Artribune, piattaforma on line di contenuti e servizi dedicata all’arte e alla cultura, parla di noi, nell’articolo di Claudia Giraud dedicato alla Toscana etrusca. Il viaggio che propone esplora diversi percorsi che si possono fare in Toscana sulle tracce di questa antica civiltà. Il passaggio a Guado al Melo permette di scoprire la viticoltura etrusca, basata sulla vite “maritata” all’albero, la loro produzione vinicola e cultura del vino. Grazie mille all’autrice e a Toscana Promozione. Lo trovate su https://www.artribune.com/turismo/2022/10/toscana-terra-etrusca-tour-prato-firenze-valdicecina-costa-etruschi/4/
Tre Stelle Oro per Atis e Jassarte 2019 dalla guida Veronelli
Anche la guida Veronelli ha deciso di premiare con le TreStelle Oro i nostri grandi rossi da affinamento, Atis e Jassarte 2019. Ringraziamo di cuore Gigi Brozzoni e tutto lo staff.
Quando una cantina è anche un percorso culturale sul vino: il video di WineNews
Grazie a WineNews, una delle testate online più autorevoli sul vino, che dedica un bellissimo video alla nostra cantina sostenibile e al suo percorso culturale sul vino, raccontato dal prof. Attilio Scienza. Sotto il link
Merano Wine Festival 2022
Si avvicina l’evento del Merano WineFestival 2022. Michele ed io, Annalisa, saremo lieti di incontrarvi nell’occasione, nei giorni 4 e 5 Novembre, venerdì e sabato, al tavolo n. 69, nella Galleria al primo piano, dove ci sono le aziende toscane. A presto!
The Merano WineFestival 2022 event is approaching. Michele and I, Annalisa, will be glad to meet you on the occasion, on 4 and 5 November, Friday and Saturday, at table no. 69, in the Gallery on the first floor (where the Tuscan wineries are located). See you soon!
Non solo Atis: i premi del Gambero Rosso agli altri nostri vini
Dopo la felicità dei TreBicchieri all'Atis, ricordiamo che anche gli altri vini sono stati premiati. I treBicchieri sono il vertice, ma anche ricevere i Due e Un Bicchiere non è così facile.
In particolare, premiati con i Due Bicchieri:
Criseo Bolgheri DOC Bianco 2020
Rute Bolgheri DOC Rosso 2020, di prossima uscita
Premiato con Un Bicchiere, Jassarte 2019.
Attilio a Taormina Gourmet: come sarà il vino del futuro?
Attilio sarà coinvolto negli eventi di Taormina Gourmet, importante manifestazione enogastronomica siciliana.
Domenica 23, terrà una masterclass in cui parlerà dell'evoluzione del vino, presentando 10 vini innovativi. tra questi ci sarà il nostro Criseo Bolgheri DOC Bianco 2020, un vino antico, ma allo stesso tempo incredibilmente moderno.
Le sfide attuali impongono al mondo del vino di ripensare molte scelte che hanno limitato il settore nella sua capacità di interagire con l'ambiente e i cambiamenti climatici: sostenibilità, utilizzo delle migliori varietà per un territorio e non quelle della moda, uvaggi in campo o in cantina per creare equilibri perfetti in modo naturale, ... Tanti argomenti interessanti!
TreBicchieri per l'Atis 2019
Ringraziamo vivamente lo staff del Gambero Rosso per il riconoscimento. Atis è un Bolgheri superiore decisamente non convenzionale, un grande esempio di vino artigianale di una piccola azienda famigliare.
Nasce dal taglio sapientemente complesso di varietà e micro-particelle scelte delle nostre vigne.
Ha bisogno però di ancora qualche mese di affinamento in bottiglia, poi sarà perfetto!
Saremo quindi presenti alla premiazione a Roma che si terrà sabato 15 ottobre al mattino. Nel pomeriggio, ci sarà la degustazione dei vini premiati, prima solo per la stampa e poi aperta anche al pubblico. Il tutto si tiene all'EUR, nel Salone della cultura Palazzo dei Congressi - Ingresso Piazza John Kennedy 1:
ore 15.00 - 16.00 (ingresso riservato a ospiti dei produttori, stampa e operatori del settore)
A seguire ingresso aperto al pubblico fino alle ore 20.00.
A presto
Antillo 2021: la nuova annata è pronta!
Ci siamo finalmente: qui trovate la scheda del vino e la breve presentazione in video
L'Antillo 2021 ci riporta ad un gusto di un Bolgheri più fresco e fruttato, con un pizzico di spezia, un vino di breve invecchiamento non troppo impegnativo ma comunque di spessore. L'Antillo ci riporta alle tradizioni passate del nostro territorio, per la prevalenza nel taglio del Sangiovese.
Concentrati su un presente molto importante, pochi ricordano che qui la produzione di vino è ben più antica. Purtroppo, è stato proprio il Novecento, prima della rinascita, il periodo più difficile per il vino locale, per colpa della fillossera. Il parassita colpì la nostra costa soprattutto dagli anni '20 e mise in ginocchio l'allora fiorente produzione locale. Essa scese al minimo storico a metà secolo, sostituita dall'olivicoltura e in parte anche dall'orto-frutta, per poi riprendere la sua risalita e l'evoluzione straordinaria che ha condotto fino al nostro tempo.
Fino all'arrivo della fillossera, il territorio stava godendo di un momento magnifico per il vino, dopo le bonifiche di fine Settecento ed inizio Ottocento. C'era stato un notevole ampliamento della produzione ed il vino locale era lodato dalle celebri odi del Carducci.
Se volete saperne di più, potete leggere del secolo d'oro del vino a Bolgheri a questo link del mio blog.
Nota Bene: ormai è uso dire "il vino a Bolgheri", perchè la DOC si chiama Bolgheri e, parlando di vino, è questo il nome conosciuto dai più. Ricordiamoci però che il vino Bolgheri DOC è prodotto nel territorio del Comune di Castagneto Carducci. Per questo motivo, sarebbe più corretto, se si parla di geografia, dire "il vino a Castagneto". In fondo, è la stessa cosa (o quasi, perchè nel territorio possono anche essere prodotti vini non DOC), ma non è scontato che tutti lo sappiano.
The WineHunter Award per Atis, Jassarte e Criseo
Grazie a The Wine Hunter, il premio legato alla manifestazione Merano Wine Festival. Grazie mille per il riconoscimento!
Ottimo l'Antillo per Sommelier Toscana
Grazie alla rivista Toscana Sommelier, che pone il nostro Antillo Bolgheri DOC Rosso 2020, il nostro Bolgheri base, fra i migliori del territorio.
"Veste rubino nonostante la presenza del Sangiovese. Olfatto bello e convincente con cenni di autentica eleganza. Rara efficienza gustativa in cui il vino presenta molto piacevolezza e gradevolezza".
L'Antillo 2020 è esaurito in cantina ma potete ancora trovarlo nelle migliori enoteche e ristoranti. A settembre arriverà l'annata nuova, 2021.
Il mito eterno d’Arcadia, fra agricoltura e natura, reali ed inventate
E il vecchio diceva, guardando lontano: / "Immagina questo coperto di grano, / immagina i frutti e immagina i fiori / e pensa alle voci e pensa ai colori. / E in questa pianura, fin dove si perde, / crescevano gli alberi e tutto era verde, / cadeva la pioggia, segnavano i soli / il ritmo dell' uomo e delle stagioni". / Il bimbo ristette, lo sguardo era triste, / e gli occhi guardavano cose mai viste / e poi disse al vecchio con voce sognante: / "Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"
(Francesco Guccini, "Il vecchio e il bambino", 1972)
Il cammino dell’Homo sapiens non ha mai contemplato un rapporto pacifico con le risorse naturali ed il mondo animale. Oggi tocchiamo sempre più con mano le conseguenze estreme del nostro "adattamento" al mondo, dall'inquinamento al cambiamento climatico, per non parlare del rischio sempre latente di una distruzione nucleare.
Invece che cercare soluzioni sensate, spesso però preferiamo perderci nell'estremo opposto. Alla figura dell’uomo che depreda si contrappone la figura mitica dell’uomo “naturale”, anelando un ritorno ad una natura incontaminata o a una vaga vita agricola/pastorale antica, migliore e più felice. La paura scatena in noi fenomeni di rifiuto generalizzati, fino alla tecnofobia. Non a caso “naturale” è la parola più usata dal marketing di oggi, che ci propone nuovi filoni consumistici che comprendono le non-soluzioni delle medicine alternative, agricolture da cartolina, cibi “senza” che ci promettono solo benessere … Diventa veramente difficile riuscire a distinguere fra le proposte realmente sostenibili e quelle che sono solo marketing o camuffamenti "verdi".
Questa visione dualistica di frattura fra l’uomo (e la tecnica) e la Natura non è una novità. Fa parte dei fondamenti della nostra cultura occidentale e si è sedimentata per secoli. L’uomo civilizzato ha sognato sempre un luogo mitico dove tornare, una patria naturale che spesso ha preso il nome di Arcadia.
Arcadia è il nome di una regione della Grecia, arida e brulla, che in antichità era considerata la culla della poesia pastorale. Arcadia è però soprattutto il sogno senza tempo di un mondo incontaminato, dove l’uomo vive in pace ed armonia con la natura, ricreando quella frattura che si è creata con la tecnologia. È un luogo dell’anima dove è possibile vivere una vita naturale lontano dalle brutture della civiltà umana, raggiungendo quella felicità che sentiamo di non riuscire mai ad ottenere nel consesso civile.
Questa idea si è sedimentata nella nostra cultura nel corso delle epoche e dei pensieri. Arcadia, nominata o meno, poteva essere la natura incontaminata oppure il mondo agreste e pastorale (nell’immaginario comune i confini di questi due ambiti sono spesso incerti). Questo luogo mitico è stato abitato da ninfe e satiri, che possono anche assomigliarci esteriormente, ma sono molto diversi nella loro essenza di spiriti della natura. È stato anche però popolato da contadini e pastori, gente semplice che in questi miti costituiscono un’umanità più vera, meno corrotta di quella civilizzata e, quindi, più vicina alla Natura.
Il dualismo Natura-civiltà è antichissimo. La regione mitica di Arcadia è descritta inizialmente nella classicità greca da Teocrito. È Platone però ad introdurre il mito del luogo ameno, fatto da un corso d’acqua e ricca vegetazione, dove l’uomo può trovare la sua felicità. Aristotele separa invece la fisica dalla metafisica, tracciando una divisione fra la descrizione letteraria della natura e la sua indagine conoscitiva. Esiodo ci ricorda che l’uomo deve la sua sopravvivenza al lavoro e alla fatica. Solo modificando la Natura a suo vantaggio riesce ad ottenere quello che gli serve per vivere (“Le opere ed i giorni”). Aristofane ne "Le Nuvole" dice che la vita frugale di campagna è quella più morale, in contrapposizione alla vita della gente di città, che è viziata, stravagante, legata solo ai beni superflui.
Nel mondo latino, Lucrezio ("De Rerum Natura") ci ricorda che possiamo liberarci della paura della morte e degli dei solo cercando di capire il mondo, l’origine del cosmo, la realtà ed i fenomeni naturali. Per lui la natura è matrigna: fin dalla nascita ci infligge sofferenze e difficoltà spietate. La visione della Natura Matrigna rimarrà per secoli. Ripensiamo anche a Giacomo Leopardi nell'Ottocento. Egli pone la Natura al centro delle sue meditazioni esistenziali, ma esse aprono le porte ad un pessimismo individuale e cosmico.
“Tu (Natura) sei nemica scoperta degli uomini e degli altri animali, e di tutte le opere tue, ora c’insidi, ora ci minacci, ora ci assali, ora ci pungi, ora ci percuoti, ora ci laceri, e sempre o ci offendi, o ci perseguiti”
(Dialogo della natura e di un Islandese, G. Leopardi)
Virgilio invece ci riporta nel luogo ameno. Anzi, è colui che fissa definitivamente per i secoli a venire il topos letterario dell’Arcadia, il luogo dove i pastori si dedicano alla poesia, al canto e all’amore, in piena comunione con gli dei e le creature mitologiche. L’Arcadia con lui è il paesaggio naturale ma anche quello rurale, dove una natura gentile ripaga con abbondanza le fatiche dell’uomo abile nel suo lavoro.
Diversi autori latini fissano il classico dualismo fra la vita di città e quella di campagna, quest'ultima più nobile ed in armonia con la natura. Lo fa Varrone, così come prima di lui Catone e, più tardi, Columella (qui). Giovenale dice che “Roma è una grande fogna”, elogiando la vita rustica e la moralità integra delle genti di campagna. Cicerone scrive che “Le gioie dell’agricoltura sono quelle più vicine ad una vita di vera saggezza”. Il poeta Tibullo va oltre ed introduce anche il rimpianto della mitica Età dell’Oro, in cui l’uomo viveva nella natura ed otteneva quello che gli serviva per vivere senza neppure dover faticare.
Nel Medioevo la natura selvaggia inizia a diventare un luogo pauroso e pericoloso. Il bosco è pieno di briganti e di bestie feroci. Non è più la selva del mondo classico, quasi un giardino dove vivono benefiche divinità minori. La città (=la civiltà) è il luogo della protezione e della sicurezza. Fra le mura dei conventi i monaci preservano le conoscenze che garantiscono la produzione del cibo e studiano le erbe che curano le malattie. L’agricoltura stessa è racchiusa e protetta nelle mura dell’hortus, al sicuro dalle forze devastanti della natura.
Superate le paure, la natura torna ad essere il luogo ameno. Ricordiamo il Petrarca, con “Le chiare, fresche e dolci acque” e il Monte Ventoso da scalare, per raggiungere le più alte vette della spiritualità. Nel Rinascimento l’Arcadia torna in tutta la sua bellezza originaria di poesia pastorale. Spesso però le campagne descritte non sono più paesaggi generici o stereotipati ma prendono la forma, più o meno esplicita, dei luoghi vissuti dagli autori. Ad esempio, il Boiardo nei Pastoralia, accoglie il Dio Pan poco fuori Modena e lo guida verso la città. Il mito d’Arcadia viene espresso a pieno soprattutto da Jacopo Sannazzaro (“Arcadia”, 1504), nel quale domina il tema del rimpianto della mitica Età dell’Oro, anche perché la sua Arcadia non è solo un luogo felice ma piuttosto la trasposizione in ambientazione idilliaca del mondo reale. Con lui il mito di Arcadia dall’Italia si riversa nel resto d’Europa. Ricordiamo per esempio nel Seicento Philip Sidney che vi ambienta avventure e battaglie (“The countess of Pembroke’s Arcadia”). William Shakespeare fonde il mondo reale e quello fiabesco nel “Sogno di una notte di mezz’estate”. Pope, ad inizio Settecento, accosta la natura alla “semplicity” (“Discorso sulla poesia pastorale”).
Il mondo celtico-germanico ha anche però una visione tutta sua del mito della Natura, che non è la salva-giardino e l’ambiente pastorale del classicismo mediterraneo. La sua espressione è la foresta, luogo pauroso ma anche dove è possibile ritrovare sé stessi. È anche uno spazio di libertà, dove le convenzioni sociali possono essere sospese e dove possono trionfare la verità, l’amore e la giustizia. Pensiamo a Walter Scott, che con Ivanhoe è il principale diffusore nella letteratura del mito del bosco come luogo di eroismo e libertà. È questa l’influenza principale di Natura del Romanticismo, in un rapporto che si fa più personale. I suoi elementi si caricano di emozioni e stati d’animo di assoluta profondità e struggimento.
L’Ottocento, con le sue trasformazioni economiche e sociali, accentua sempre più la sensazione di frattura fra civiltà e natura. A fine secolo nasceranno le prime associazioni (élitarie) ambientaliste. Ad inizio Novecento nasceranno i primi parchi nazionali europei. Nel secondo dopoguerra nascerà anche l’ambientalismo di massa e politico ... Uno dei padre spirituali dell'ecologismo moderno è considerato Henry David Thoureau che col suo “Walden, vita nel bosco” (1854) racconta che ha raggiunto il benessere personale solo con l'esperienza di una vita in piena armonia con la natura, durata due anni. In questo periodo ha sopportato anche condizioni di estrema frugalità, che gli hanno però permesso di riscoprire la felicità delle piccole cose.
"Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, affrontando solo i fatti essenziali della vita, per vedere se non fossi riuscito a imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non dover scoprire in punto di morte di non aver vissuto."
Rimane sempre anche il pensiero antico della maggiore moralità delle persone più semplici. Thomas Jefferson afferma: “Sottoponi lo stesso quesito morale ad un contadino ed ad un professore, il primo deciderà altrettanto bene del secondo, se non meglio, perché non ancora deformato dall’astrattezza delle leggi artificiali”.
Pensiamo anche a Rousseau, a Lamartine, alle montagne altissime e ai laghi, alla nascita del gusto dell’orrido, ma anche il mito del “buon selvaggio”. “Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell'uomo”, scrive Rousseau. Secondo lui, l’uomo-naturale ha come solo obiettivo la cura di sé ed è naturalmente empatico verso i suoi simili. La società invece è una costruzione nociva, che corrompe l’essere umano, in quanto lo sguardo dell’altro porta l'uomo ad inseguire altre priorità, di sopraffazione ed ingordigia.
La lista sarebbe infinita. Le ultime Arcadie che voglio ricordarvi appartengono a miei ricordi d'infanzia, ad una cultura più “bassa”, quella dei cartoni animati degli anni ’70, momento più che mai cruciale di sviluppo dell’ambientalismo moderno e della critica sociale. La prima è nel bellissimo “Conan, il ragazzo del futuro”, opera di Hayao Miyazaki nel 1978 e trasmesso in Italia per la prima volta nel 1981. In questo mondo distrutto da armi terribili, è netta la contrapposizione fra le antiche città sommerse, la iper-tecnologica Indastria e l’isola felice di Hyarbor.
Il nome Arcadia compare invece realmente in Capitan Harlock, creato nel 1977 da Leiji Matsumoto, trasmesso in Italia per la prima volta nel 1979. Non è però l'Arcadia solita, quella della natura incontaminata o dei paesaggi bucolici, ma il nome dell’astronave dove il protagonista vive col suo gruppo di buffi corsari. In un mondo futuro distopico dove la Natura, fatta di alberi ed animali, non esiste più, l'Arcadia di Matsumoto è come un'arca che ospita una comunità umana ideale, persone che vivono una sorta di anarchia regolata, pronte a lottare e sacrificarsi per il bene comune. Sembra dirci che, dopo la devastazione e le guerre, l’ultima Arcadia che rimane da salvare è questo piccolo rimasuglio d’umanità.
Qui termino il viaggio nel mito antico della natura incontaminata e dell’uomo naturale. Arcadia (o chiamatela come volete) è il luogo dell’anima di tutti noi, radicato da secoli, un grande ideale utopistico che da sempre è servito a scuotere le coscienze, a farci chiedere “ma cosa stiamo facendo?” Facciamo però anche attenzione a non perderci in essa e nelle sue illusioni salvifiche, per mantenerci lucidi e tracciare una strada concreta per costruire un futuro possibile.
Il mito d’Arcadia nella letteratura, di Marilina Notaristefano, https://associazioneculturalearcadia.com/2016/04/03/il-mito-darcadia-nella-letteratura/
https://www.ilfoglio.it/cultura/2021/07/26/news/la-natura-matrigna-2718907/
Wine Advocate: buoni ma un po' pazzarelli
Grazie mille a Monica Lerner per il suo apprezzamento per i nostri vini, in particolare per l’Atis e il Jassarte. La cosa particolare è che questa brava giornalista americana ha per noi sempre commenti interessanti, che mi pare stiano fra l’incredulo e quella simpatia che si attribuisce a persone che si giudicano un po’ pazzerelle 😊.
L’anno scorso ha scritto che siamo l’azienda più creativa. Quest’anno scrive: “there is a bit of mad science here, but that’s what makes them so much fun”, cioè “qui c’è un po’ di scienza pazza, ma è questo che li rende così divertenti”.
Chissà se pensa che siamo un po’ matti a fare scelte controcorrente in un mondo come quello del vino, che spinge verso l’omologazione.
Per cui, pazzi o coraggiosi che siamo, prendiamo tutto questo come un complimento e speriamo di averla nostra ospite quanto prima, per divertirla ancora di più! (e magari riuscire a raccontarle la ricerca sperimentale e la riscoperta di antiche tradizioni italiane che stanno dietro a queste nostre scelte)
Ad ogni modo, grazie mille, Mrs. Lerner, apprezziamo molto che abbia assaggiato e recensito i nostri vini.
Ci siamo: ci certifichiamo come vino sostenibile
Sii il cambiamento che vorresti vedere avvenire nel mondo.
(Gandhi)
Sono felice di comunicarvi che con la vendemmia 2022 i nostri vini saranno certificati per la produzione di vino sostenibile, secondo lo dello standard unico di sostenibilità fissati quest'anno dal Ministero, col marchio SQPNI (Sistema Qualità Nazionale di Produzione Integrata). Il logo è la simpatica ape che vedete qui sopra, molto evocativa di una viticoltura rispettosa dell’ambiente e della salute. Non fermatevi però a questa apparenza un po’ naif: alla base c’è un sistema tecnico-scientifico molto rigoroso e solido, quello della viticoltura integrata volontaria.
Non diventiamo sostenibili ora perché ci certifichiamo. Viceversa, certifichiamo qualcosa che stiamo facendo da sempre. Chi ci conosce sa che lavoriamo fin dalla nascita di Guado al Melo perché sia un’azienda artigianale completamente sostenibile (dalla gestione della vigna, alla cantina di bioarchitettura, alla gestione della vinificazione, al riciclo dell’acqua piovana, alla diffusione della cultura del vino e del territorio, ...). Lo siamo nell’essenza, nel nostro modo di vivere e nella costanza di evolvere nel tempo.
La nostra certificazione parte con la vendemmia 2022. Dovrete quindi aspettare un po’ per vedere la graziosa apina sulle nostre etichette. Il primo vino sarà l’Airone 2022, che uscirà più o meno a marzo 2023. Poi verranno tutti gli altri.
E' necessario certificarsi allora? Sicuramente i sistemi di certificazione possono avere dei limiti, per questo non ci siamo certificati con sistemi in cui non credevamo. Se il sistema è fatto bene è però una garanzia in più nei confronti dei nostri clienti.
Perché solo ora? Era tempo che aspettavamo che la politica italiana definisse un sistema di certificazione unica di sostenibilità, basato su un sistema tecnico-scientifico rigoroso. Lo ha fatto in ritardo e, come sempre, in modo tortuoso e un po' confuso, Siamo però fiduciosi che siamo all'inizio di un percorso che sarà sempre più fruttuoso.
Non è la nostra prima esperienza. La regione Toscana verifica già la nostra adesione alla viticoltura integrata volontaria. Inoltre, qualche anno fa avevamo già partecipato, come azienda-pilota, alla nascita della prima certificazione di sostenibilità italiana, Magis. Il progetto, nato nel 2009, supportato da diverse università e centri di ricerca, fu molto rigoroso. Venne riconosciuto fra i migliori al mondo dall'OIV. Purtroppo finì dopo pochi anni, perché troppo in anticipo sui tempi: molte aziende si sfilarono perchè non ci videro un ritorno di immagine.
Quindi, avrete capito che se anche la sostenibilità può sembrare un discorso nuovo, in realtà è un concetto ormai “stagionato”. Nasce dall'evoluzione dell'agricoltura integrata negli anni '90. Dopo pochi anni nascevano già nei paesi vitivinicoli del Nuovo Mondo sistemi di certificazione uniche nazionali (prima in California, poi Nuova Zelanda, Cile, Sudafrica, …).
L'Italia (e l'Europa) è rimasta un po' indietro a livello di certificazioni e di sostenibilità. Finora ci si accontentava della regolamentazione regionale della viticoltura integrata, peraltro ottima in Toscana (ho meno conoscenze dirette sulle altre regioni). Si è iniziato a parlare di sostenibilità in modo più diffuso solo negli ultimi anni, Sono così nate di recente diverse certificazioni, che hanno potuto beneficiare dell'impianto rigoroso già impostato da Magis. Quest’anno il Ministero ha iniziato a lavorare per definire uno standard unico, con alla base il sistema SPQNI.
Purtroppo questo ritardo è dovuto al fatto che da noi il dibattito pubblico sui temi di agricoltura/ambiente è da sempre dominato da discorsi più “di pancia” che di testa, ricchi di luoghi comuni e pratiche evocative, perfette per la politica o i media più superficiali o il marketing aziendale, ma poco o per nulla efficaci e concreti in vigna.
Se vogliamo fare realmente il bene dell’ambiente e di noi stessi, l’essenziale non è fermarsi agli slogan attraenti ma lavorare per trovare dei metodi realmente efficaci e che permettano di raggiungere degli obiettivi realizzabili. Infatti, nonostante tutto questo, la ricerca viticola mondiale ha lavorato sodo in questi decenni e molti vignaioli sono stati al passo.
Come funziona la certificazione di sostenibilità
I pilastri della sostenibilità sono tre, strettamente intrecciati tra loro, quello ambientale, economico e sociale.
Parlando di vigna, la tutela dell’ambiente e della salute passa prima di tutto dalla base tecnico-agronomica, che è la viticoltura integrata volontaria (che già facciamo da sempre e che quindi ho raccontato sul nostro sito internet e in diversi post qui, qui, qui e tanti altri). Comprende le pratiche viticole multi-disciplinari che permettono di avere un’uva di grande qualità col più basso impatto (misurato) sull’ambiente. Ad esso si integrano altri elementi. Alcuni sono legati al lavoro in cantina, a partire dall'assoluta tracciabilità dal campo alla bottiglia finita, al contenimento dei prodotti di vinificazione (noi non ne usiamo), fino alla verifica di assenza di residui nel vino finito. Poi ci sono i parametri di impatto generali dell'azienda, in relazione al consumo energetico, all'acqua e al destino dei rifiuti e prodotti di scarto.
Se non sapete cos'è la viticultura integrata volontaria, ho messo un richiamo nel riquadro verde. Se la conoscete, saltatelo.
Cos’è la viticoltura integrata? È il modo più razionale per risolvere i problemi di impatto ambientale della viticoltura. Non è una “filosofia” ma semplicemente la scelta delle pratiche migliori disponibili, prese dalla tradizione e dalle migliori innovazioni, col fine di ridurre al massimo gli interventi umani e l’uso di ogni prodotto fitosanitario in vigna (possibilmente fino all’eliminazione) mantenendo nello stesso tempo un’adeguata qualità e quantità dell'uva (e del vino). Quindi una pratica è accettata solo se, contemporaneamente, soddisfa due condizioni: funziona bene e lo fa col minimo impatto sull’ambiente. È un sistema che beneficia ormai di decenni di studi e sperimentazione. Il concetto di “lotta integrata” è nato negli anni ’70, è cresciuto notevolmente nel tempo, con un importante salto soprattutto negli anni ’90.P
Perché si chiama integrata? Perché considera la vigna come un ecosistema integrato in cui interagiscono numerosi organismi viventi, influenzati dalla situazione del suolo, del clima e delle variazioni atmosferiche. L’approccio multidisciplinare, che riesce a mette insieme tutte le conoscenze su questi elementi, permette di ottenere il minimo impatto possibile in agricoltura.
Alcuni concetti cardine: Fra le pratiche utilizzate c’è una scala di priorità. Si privilegiano sempre prima quelle che permettono la prevenzione delle avversità. Dove non è possibile, si utilizzano sistemi di lotta biologica. Se non è possibile neppure questo, si ricorre all’uso di prodotti fitosanitari, scelti fra quelli che hanno dimostrato un’ottima efficacia e il più basso impatto sull’ambiente, usandone la quantità minore possibile, solo dove serve. In questo modo si può raggiungere un impatto bassissimo, che la ricerca sta cercando di abbassare sempre più. Per prendere le decisioni è fondamentale la raccolta dei dati che permettono di capire cosa sta succedendo (dall’osservazione della vigna alla raccolta dei dati atmosferici, …) così da intervenire puntualmente con i metodi migliori per quella situazione, solo dove serve. Un principio fondamentale è l’approccio integrato: ogni problema viene affrontato da più fronti, in modo da rendere minimale l’impatto di ciascun intervento. Un altro principio base è la soglia del danno, cioè non serve “sterilizzare” la vigna, ma è sufficiente che le avversità stiano sotto una soglia minima che non intacchi la qualità dell’uva.
Perché se ne parla poco ed è poco conosciuta? Sinceramente è il mio cruccio da sempre! Anche se se ne parla poco, è applicata da tantissime aziende di vignaioli italiani. Soprattutto mi chiedo perchè le aziende, le università, le regioni ed i tecnici che se ne occupano non ne parlano quasi mai. Oppure non sono ascoltati?!?! Mi sono data diverse spiegazioni. Si tratta di un sistema complesso, poco adatto alla semplicità richiesta dai media e dal marketing, che vogliono concetti poco ragionati, facili ed accattivanti. Nella mia esperienza mi sono anche accorta che questo sistema viene scelto in genere dalle aziende di vignaioli vecchio stampo, che non mettono al primo posto il marketing ma la cura ottimale della vigna, che in media sono dei pessimi comunicatori (scusatemi, ma purtroppo è così).
Non è però sufficiente. Per completare il concetto di sostenibilità, vengono verificati anche parametri relativi all’ambito economico e sociale, con una serie di verifiche sull’integrità dell’azienda nei rapporti con i propri lavoratori, per quanto riguarda la sicurezza e la valorizzazione, oltre che nei rapporti col territorio ed il resto della catena produttiva.
Cos’è la viticoltura sostenibile? È l’upgrade, il passo in avanti, della viticoltura integrata. Negli anni ’90 si è iniziato a riflettere sul fatto che non bastava considerare l’impatto in ambito ambientale. Perché ci sia vera sostenibilità, è necessario che esso si integri con gli aspetti economici e sociali.
Sostenibilità economica. Facciamo un esempio, ammettiamo che io trovi un sistema di coltivazione che non ha un impatto negativo sull’ambiente ma mi fa produrre pochissimo prodotto oppure esso è di scarsa qualità, oppure mi costa tantissimo produrlo ... Allora quel sistema non è sostenibile, perché risolve un problema ma ne crea molti altri. L’agricoltura deve dare reddito alle persone che la svolgono, altrimenti rischia di sparire oppure deve dipendere dai fondi pubblici per sopravvivere. Inoltre deve offrire sufficienti prodotti alimentari al fabbisogno della comunità, sia come quantità che come qualità. Questo concetto di base in realtà è insito da sempre nella lotta integrata, che ha sempre cercato le pratiche con il più basso impatto ambientale ma che, nello stesso tempo, mantenessero un adeguato livello qualitativo e quantitativo del prodotto.
Sostenibilità sociale. Inoltre, ogni attività umana deve contemplare il rispetto per i lavoratori e le persone che vivono nel territorio, la correttezza verso fornitori e clienti (e tutta la catena che sta prima e dopo), l’interazione positiva con la propria comunità, il mantenimento e la divulgazione della cultura del prodotto e del territorio, …
Tutti questi elementi devono coesistere perché si parli di viticoltura sostenibile, cioè si deve trovare la migliore mediazione possibile fra di essi.
È una certificazione di filiera e di prodotto. Significa, a differenza di altre, che si deve dimostrare ogni anno non solo di seguire determinati modi di lavorare, ma che si sono raggiunti gli obiettivi, dimostrati con l’assenza di residui in vigna e nel vino, per “conquistare” così il bollino sulle bottiglie.
Bolgheri: colline, pianure e suoli, capire un territorio oltre i luoghi comuni
T’amo, feconda e pia terra, e t’ammiro,
e ti palpo, e di te colmo le mani,
e su te chino il volto, avido, e i sani
profumi tuoi, riconoscente, aspiro;e in te l’occhio figgendo, in breve giro
scopro monti e foreste e valli e piani,
e mi smarrisco per recessi arcani,
...
(Edmondo de Amicis, Alla Terra)
Una domanda che mi sento fare spesso dai nostri visitatori è perché a Bolgheri la viticoltura non si è sviluppata in collina. Infatti comprende soprattutto la fascia pede-collinare e di pianura. Tale quesito è comprensibile: quante volte avete sentito dire che la viticoltura migliore è quella di collina? "Bacchus amat colles", Bacco ama i colli, scriveva anche Virgilio nelle Georgiche. Come mai allora a Bolgheri (e da altre parti) non è così? Perchè qui c'è tanto sole :-) Cerchiamo però di capire meglio il perché.
Prima rispondere a questa domanda, vi invito a riflettere sul fatto che, come in tanti altri campi, anche nel vino ci sono delle regole che possono sembrare generali ma che, con un approccio meno superficiale, si può arrivare a capire che non valgono esattamente in tutti i casi. Certe semplificazioni (o luoghi comuni) hanno poco a che fare con la multiforme diversità della produzione viticola. Come vi ho spesso ricordato, la viticoltura è sempre essenzialmente locale. Le scelte viticole possono cambiare molto fra territorio e territorio, addirittura fra vigna e vigna. Sono le condizioni particolari di suolo, clima, micro-clima e varietà a determinare le scelte migliori su dove e come realizzare una vigna, oltre che poi su come condurla per tutti gli anni a venire. Non possiamo stravolgerle se vogliamo fare un grande vino, un vino di territorio che porti in sé la sua splendida unicità.
Purtroppo a volte si tende a generalizzare usando come riferimento le scelte di territori di successo o di produttori famosi o della realtà che conosciamo meglio. Tuttavia, se ci accostiamo ad un territorio con pregiudizi, diventa veramente impossibile capirne le peculiarità. La generalizzazione è ancora più rischiosa per chi ci lavora, per i produttori: riprodurre nelle proprie vigne schemi perfetti di altri territori o aziende può portare ad errori che poi si pagano amaramente. Se si ha la grande fortuna di lavorare in un territorio vocato, la mancata comprensione delle proprie vigne è la grande discriminante fra riuscire a produrre un grande vino o meno. Gli studi di zonazione viticola servono proprio a questo, ad aiutare i produttori a fare le scelte migliori per le loro micro-realtà (non per fare graduatorie di qualità come spesso si pensa). Bolgheri è stato uno dei primi territori viticoli italiani ad avere degli studi di zonazione viticola, fatti nei primi anni '90, con una ricerca che è andata avanti fino al 2004, condotti dall'Università di Milano sotto la guida del prof. Attilio Scienza.
Torniamo quindi alla domanda iniziale. Il concetto della maggiore qualità della viticoltura di collina è nato correttamente nei territori con climi continentali o simili. Sono luoghi dove l’acqua in genere non manca, anzi sono mediamente (o molto) piovosi. In questi casi, il fondovalle o le pianure sono luoghi dove c’è abbondanza di acqua, spesso sono anche umidi o addirittura l’acqua può ristagnare nel suolo. La vite è una pianta molto rustica ma l’umidità è la condizione che teme di più. Troppa disponibilità di acqua in generale porta ad un eccesso di vigore, che è quasi sempre un limite per la qualità del vino. I climi umidi determinano anche diverse gravi malattie, come la peronospora o le muffe che colpiscono il grappolo. Quando l’umidità diventa decisamente troppo alta nel suolo, possono subentrare grossi problemi alle radici e quindi alla pianta stessa, dai marciumi fino all’asfissia radicale.
Per tutti questi motivi, nei territori caratterizzati da queste situazioni, i fianchi delle colline risultano spesso i più adatti per la vite perché sono i meno umidi e non troppo fertili. Viene scongiurato il problema dell’umidità del suolo: l’acqua scorre verso il basso, quindi i terreni collinari sono i più drenati ed asciutti. C’è anche una migliore esposizione al sole, temperature migliori e non c’è ristagno di aria umida. In passato, in realtà, la scelta ottimale della collina era spesso guidata da altre priorità. I terreni più fertili e ricchi di acqua erano riservati alle colture indispensabili per l’alimentazione, i cereali o altro. Alla vite, vista la rusticità, erano lasciati i terreni più magri e poveri, che erano spesso quelli di collina, dove era difficile riuscire a coltivarci altro.
Se queste considerazioni sono valide per territori come quelli appena descritti, non significa che però valgano ovunque! Ci possono essere zone di pianura senza grossi problemi di umidità a cui non si applicano questi concetti. Mi permetto anche di aggiungere che il cambio climatico in corso potrà portare a modificare tante certezze oggi considerate consolidate.
Nei territori mediterranei come Bolgheri la situazione climatica è completamente diversa. La vite qui è autoctona, questo è il suo ambiente naturale e non ha neppure tanti problemi fitosanitari. Quello che può mancare, a differenza delle zone continentali, è proprio l’acqua. Come ho ricordato più volte, la vite non ne ha bisogno di molta, ma non deve neppure mancare nei momenti importanti del ciclo della pianta, altrimenti può subire uno stress idrico che porta alla produzione di poca uva squilibrata. L’esperienza millenaria viticola insegna che la vite deve subire un leggero stress per dare l’uva migliore per fare vino. In genere, le situazioni meno qualitative nascono dai due estremi: quando la vite sta troppo bene o quando lo stress diventa troppo alto.
In questi climi, i sottili suoli di collina possono risultare troppo poveri e limitanti per la vite, in particolare per quanto riguarda l’acqua. Nelle aree pedecollinari o di pianura i suoli sono in genere più profondi, le radici si possono sviluppare a pieno e possono trovare l’acqua anche in estate, dove si è accumulata nelle falde acquifere più profonde nel corso delle stagioni più fresche. Non c'è neppure troppa fertilità, anzi spesso c'è il problema contrario: nei climi mediterranei la mineralizzazione della sostanza organica è molto velocizzata dalle alte temperature medie. Naturalmente non è per forza così ovunque: ci possono essere zone difficili anche in pianura o favorevoli in collina. Ad esempio, ci sono aree della pianura bolgherese dove i terreni sono resi sottili da croste tufacee superficiali. Alcuni suoli sono mal drenati e letteralmente si allagano nelle stagioni fresche. Prima di decidere dove fare una vigna, è quindi essenziale l'esame macroscopico dell'area e poi della micro-situazione, col supporto degli studi di zonazione e/o di un bravo geologo.
Avrete quindi compreso che, in un clima mediterraneo secco e ventilato come il nostro, il concetto continentale di basso ed alto è abbastanza inutile per questi aspetti: in basso non ci sono i problemi di umidità e l’irradiazione solare è abbondante ovunque. Capite quindi perché la domanda giusta da porre in tanti territori mediterranei non è tanto l’altitudine delle vigne ma piuttosto la risposta del suolo alla lunga stagione arida estiva.
Nel nostro territorio, la posizione della vigna è importante anche per quanto riguarda i venti, che possono soffiare anche in modo intenso. Certi venti freddi (la Tramontana da nord ed il Grecale da nord-est) possono essere la causa di gelate primaverili, visto che qui la temperatura va difficilmente sotto lo zero. Quindi, sono più a rischio le zone troppo esposte, come le parti alte delle colline (dei versanti interessati) o le zone più aperte di pianura. Sono meno esposte invece le vigne delle aree pedecollinari, protette dalle colline, oppure le zone riparate da altri ostacoli naturali o artificiali come boschi, filari di alberi o altro.
La principale differenza fra collina e pianura a Bolgheri è legata alle differenze di temperature e per quanto riguarda l’escursione termica estiva fra giorno e notte. In generale Bolgheri gode di un clima mediamente più fresco rispetto ai territori vicini. Nel suo interno, le temperature medie annuali sono più basse nell’area collinare ed aumentano un po' andando verso il mare. L’escursione termica è massima nelle piccole valli fra le colline, minore sulle parti alte dei rilievi e spostandosi verso il mare. Diventa quindi importante capire quali tipologie di vini e varietà stanno meglio in ciascuna condizione, senza però dimenticare di correlare questi dati agli altri elementi descritti sopra, soprattutto alla disponibilità idrica estiva.
In viticoltura, il clima è inevitabilmente correlato al suolo. Capita spesso di attribuire ad alcuni suoli una maggiore valenza qualitativa. In realtà non è proprio così. Ci sono esempi in Italia ed in tutto il mondo di grandi vini su terreni di ogni tipo, da quelli prevelentemente argillosi a quelli sabbiosi o limosi. La tessitura del suolo (cioè la dimensione delle particelle del suolo, nei rapporti fra le sue diverse componenti, dalla più fine a quella più grossolana) è importante in quanto influisce sull’espressione del vino, oltre che sulle scelte di lavoro del vignaiolo. Non definisce però necessariamente livelli qualitativi diversi, solo caratteristiche sensoriali differenti. È anche vero che ci possono essere varietà che prediligono l'uno o l’altro tipo di suolo ma molte altre danno semplicemente risultati diversi. Ad esempio, in modo molto generale, si può dire che i suoli con maggiore componente argillosa spingono più verso la potenza nei vini, quelli più leggeri (più sabbiosi) verso la finezza. Dire che l’uno o l’altro sia meglio o peggio è impossibile: dipende solo dal proprio gusto personale o, al più, dalle mode gustative del momento.
Un elemento molto più interessante per capire l’equilibrio della vite (e quindi del vino), ma di cui si parla molto meno, è la profondità del suolo, cioè quanto spazio ha realmente la vite per poter sviluppare un apparato radicale performante (vedete qui e qui sulle radici). Anche in questo caso però il discorso è molto articolato. In un suolo sottile le radici si svilupperanno per forza poco, il che è sicuramente un limite nei climi meno piovosi. Nei territori dove c’è buona disponibilità idrica, invece, può essere poco importante per l'acqua, anche se può essere un limite per la nutrizione minerale. Sarà cura allora del vignaiolo capire che deve intervenire di più con la concimazione. Inoltre, il rapporto clima-suolo può variare la reale disponibilità di spazio. Ad esempio, un terreno argilloso in una zona molto arida può essere problematico per la vite, perché per buona parte dell’anno diventa duro come la pietra, riducendo di fatto la capacità di crescita delle radici.
Concludendo, ho fatto diversi esempi (non esaustivi) di come c'è molta variabilità in viticoltura che va molto oltre certi stereotipi e pregiudizi, prendendo l'esempio di Bolgheri. Spero quindi sia chiaro che, se un territorio è vocato alla viticoltura, le scelte produttive possono essere anche molto diverse, non ci sono regole che vanno bene ovunque. Esistono invece scelte giuste o sbagliate per ogni condizione particolare. Inoltre, spero di aver chiarito che le differenze fra suoli e microclimi non sono necessariamente indicativi di livelli di qualità diversi, piuttosto di necessità agricole diverse e di caratteristiche diverse che si trovano nei vini o, a volte, di una migliore predisposizione per certe varietà o tipologie di vini.
Ogni azienda che fa vini territoriali sa che in queste peculiarità delle vigne sta l’identità inimitabile dei propri prodotti e che deve conoscerli a fondo per fare le scelte giuste per esaltarle e trarne il meglio.
Giorno della Terra: a che punto siamo in viticoltura?
Oggi si celebra come anno il Giorno della Terra (Earth Day). Come ogni giornata commemorativa, lo scopo è di focalizzare l’attenzione, almeno per un giorno, su determinati temi. Purtroppo sembra che l’urgenza ambientale sia un po’ passata in secondo piano per gli eventi straordinari degli ultimi anni, dalla pandemia all’ultima guerra, questa volta arrivata alle nostre porte.
Vorrei solo ricordare che anche il nostro settore, la produzione del vino, sta cercando di fare la sua parte. Quali sono le conquiste e le strade ancora da percorrere per il vino?
Le problematiche sono ancora tante, ma la viticoltura italiana di oggi non è certo più quella di 30 o 10 anche solo 5 anni fa. Ormai un certo livello di sostenibilità è stato acquisito da tutto il comparto, anche per obbligo di legge. Sono usciti via via dall’uso i prodotti fitofarmaci più impattanti usati in passato. Ormai, c’è l’obbligo di uso di macchine distributrici anti-deriva, di un certo controllo nei trattamenti, … La parola sostenibilità è sulla bocca di tutti e tantissime aziende la applicano credendoci realmente, con gradi diversi di efficacia. Molte usano i migliori approcci oggi disponibili, in una visione integrata e razionale che porta a non avere residui in vigna e nei vini.
Ho provato a fare un elenco (non esaustivo) delle problematiche più contingenti di oggi, almeno secondo me e la mia cerchia di conoscenti di addetti ai lavori:
- Più sostenibilità reale e meno slogan: tantissime aziende fanno un grande lavoro sulla sostenibilità ormai da decenni, eppure negli ultimi anni sembrano emergere nella comunicazione e sui media solo le storie più edulcorate e spesso inverosimili. Anche la politica e, ahimé, anche alcune università e centri di ricerca, sembrano aver dimenticato la razionalità nell’affrontare i problemi agricoli. Ci vorrebbero meno slogan e più sostanza. Si dovrebbero ribaltare i sistemi di certificazione attuali, più attenti alle “filosofie” e meno ai risultati reali e misurabili. Qualcosa si smuoverà in questo senso con la nuova certificazione sostenibile nazionale? Siamo fiduciosi. C’è tanto fumo, ma anche tanto arrosto!
- Sostenibilità delle cantine: le cantine consumano tante risorse: dall’energia per condizionare gli ambienti interni e le vasche dei vini, alla tanta acqua usata per i frequentissimi lavaggi e sanificazioni. Per fortuna ormai c’è una discreta sensibilità in questo ambito, più per il discorso energetico che per l’acqua. Tante cantine nuove sono fatte totalmente o parzialmente sotto terra, oppure ricorrono a fonti di energia alternativa, soprattutto solare. Sento invece parlare molto meno di riduzione dei consumi idrici o riciclo dell’acqua piovana. Diciamo che siamo sulla buona strada ma c’è ancora tanto da fare, soprattutto per tutti gli impianti vecchi e per chi ancora non considera la riduzione dei consumi una priorità.
- Uso dei combustibili fossili: purtroppo i trattori sono sempre più usati, soprattutto da certi sistemi che si spacciano per verdi ma che di fatto aumentano esponenzialmente il numero dei trattamenti (= ingressi in vigna). Qui si sta decisamente peggiorando. Uno dei cardini della viticoltura integrata è invece da sempre la riduzione dei trattamenti e degli ingressi in vigna.
- Varietà resistenti: se ne parla tanto ma di vini in giro se ne vedono ancora molto pochi. Non è solo una colpa. Siamo ancora agli albori di un processo di trasformazione che sarà per forza molto lungo e costoso. I tempi sono lunghi per le tecniche impiegate di incrocio tradizionale, per cui le varietà disponibili oggi sono ancora molto poche, adatte a certi climi e territori, meno in tanti altri. Inoltre, il mondo del vino ha impostato la sua comunicazione degli ultimi decenni essenzialmente sulle varietà, molto meno sui territori, rendendo difficile questa transizione. È un tema del futuro, che non deve farci dimenticare che già oggi si può e si deve lavorare in modo sostenibile.
- Acqua: con i cambi climatici in corso, la difficoltà principale della viticoltura del futuro sarà il corretto apporto di acqua alle vigne che, comunque, non ne hanno bisogno di molta. Diventa quindi imperativo decidere dove fare le vigne del futuro, cioè in quelle parti di territorio dove c’è abbastanza disponibilità idrica per la vite e senza quindi dover ricorrere per forza all’irrigazione. Il connubio vino-territorio diventa più importante che mai, per questo ma anche per tanti altri aspetti.
- Il trasporto del vino, un problema di difficile soluzione: il trasporto è uno dei tanti temi complicati per la sostenibilità. Basterà alleggerire le bottiglie? Qui i problemi sono molto più grandi e globali. Non mi sembra che sia un grande orientamento verso mezzi di trasporto delle merci più sostenibili. Mi sembra che questo resti il principale punto di domanda sul domani.
Per concludere, credo che tanto sia stato fatto finora, con un miglioramento progressivo delle tecniche di viticoltura integrata che hanno portato ad alti livelli di sostenibilità. Purtroppo, quando il tema della sostenibilità è stato inglobato dal marketing, ha fatto sì che deviasse anche verso rotte irrazionali. Nello stesso tempo però l'ha messo anche sotto i riflettori. Esistono entrambe le spinte, quella di facciata e quella più razionale, che speriamo prenda sempre più il sopravvento.