Vinitaly 2023

Vi aspettiamo a Vinitaly anche quest'anno, nel Padiglione 7 stand B4, nell'area di Cuzziol GrandiVini.

A presto


Sperimentiamo un nuovo sistema sostenibile per la tignoletta

Abbiamo posizionato nel Campo Grande questo apparecchio che è un nuovo sistema sperimentale per controllare con grande precisione e tempestività la presenza della tignoletta nelle vigne (per capire cos'è la tignoletta, potete leggere qui).

Dotato di batteria solare, registra e controlla in tempo reale la presenza di questo pericoloso parassita, inviandoci i dati. Gli insetti sono attirati all'interno della trappola tramite un feromone altamente specifico (un segnale chimico che imita quello rilasciato naturalmente durante l'accoppiamento). Una telecamera inquadra gli insetti catturati e li conta. L'intelligenza artificiale riconosce quelli giusti, escludendo quei pochi intrusi che possono essere entrati per sbaglio.

In più, l'apparecchio è dotato anche di una centralina metereologica, che rileva temperatura ed umidità.

Finora il controllo viene effettuato con una trappola più semplice, un foglio di plastica ricoperto di colla, che cattura gli insetti in modo non specifico. Periodicamente bisogna controllare visivamente gli insetti attaccati, riconoscere la tignoletta dagli altri e fare la conta. Indubbiamente si ha il vantaggio di una maggiore precisione, velocità d'informazione, oltre che salvaguardare gli insetti non interessati.

Si tratta di un sistema ancora solo sperimentale, ma è un'innovazione di grande interesse.


Vi aspettiamo a ProWein!

Siamo al Pad. 4, stand E20. Ci sarà Michele Scienza


Vinissima di Tamborini in Svizzera 12-13 marzo

Ricordo agli interessati che a breve ci sarà la manifestazione Vinissima a Lugano, organizzata ogni anno dal nostro importatore Tamborini Vini. Noi ci saremo per degustare insieme le nuove annate.

Per maggiori informazioni:

https://tamborinivini.ch/vinissima


Il vino italiano fra Rinascimento e l’inizio dell’Età Moderna: uno sguardo generale

Uno sguardo generale sull'agricoltura

Abbiamo visto come il Medioevo (qui, qui, e qui) fu un periodo molto ricco ed interessante per il vino italiano, nel corso del quale avvennero notevoli trasformazioni. Questo andamento favorevole continuò col Rinascimento, come già accennato qui. Prima però di parlare di vino, diamo uno sguardo generale sull'agricoltura e le trasformazioni del paesaggio dal Rinascimento all'inizio dell'Età Moderna.

L'indiscusso primato dell'Italia sull'economia europea, già iniziato col Medioevo, continuò e si consolidò col Rinascimento. Soprattutto i territori del Centro e del Nord avevano il più alto livello di urbanizzazione del continente, oltre che un notevole sviluppo artigianale e commerciale. Le campagne beneficiarono della prosperità economica delle città, grazie soprattutto alla nuova borghesia. Infatti i borghesi, che fossero artigiani, mercanti o altro, spesso e volentieri investivano le loro ricchezze nelle tenute di campagna. Al di là dell'investimento, per loro rappresentavano uno status symbol di altissimo prestigio sociale. Da sempre la proprietà terriera era il segno tangibile della ricchezza e del potere. La borghesia non riversò però nelle campagne solo capitali ma anche la propria intraprendenza. Nacquero tenute dinamiche ed innovative, ben diverse dalle più stagnanti (in media) proprietà nobiliari. Il Rinascimento vide quindi accrescere e completarsi quella trasformazione agricola e paesaggistica che si era già ben avviata nel Medioevo, raggiungendo l’apice di questo processo.

Col Cinquecento iniziò però un progressivo declino politico ed economico dell’Italia, diventata sempre più il campo di battaglia delle potenze straniere che si contendevano il dominio europeo. Tale declino arriverà a pieno compimento con l’inizio dell’Età Moderna, nel Seicento.  Questo causerà il blocco del progresso agrario italiano, che purtroppo si trascinerà poi molto a lungo (seppure con intensità e modalità diverse per le varie parti d’Italia).

A peggiorare la situazione, fra la fine del Rinascimento e l’inizio dell’Età Moderna ci fu una crisi agricola generalizzata in tutta Europa, per colpa del progressivo peggioramento del clima, già iniziato nella parte finale del Medioevo. La cosiddetta Piccola Era Glaciale raggiungerà il suo momento peggiore fra la fine del Cinquecento e l'inizio del Settecento.  

Il Bel Paesaggio italiano, fra ville e terre bonificate

Il bel paesaggio toscano rappresentato da Benozzo Gozzoli nella Capella dei Magi a Palazzo Medici Riccardi, Firenze (1459).

Il Bel Paesaggio, che era nato in Toscana nel Basso Medioevo, si consolidò nel Rinascimento ed uscì anche dai confini di questa regione. Non smetterà più di stupire i viaggiatori stranieri per il suo ordine e la sua armonia, la varietà e la densità delle colture, soddisfacendo a pieno l’ideale del bello unito all’utile, eredità della cultura romana.

L’elemento unitario alla base di questo paesaggio era la villa di campagna, che nel tempo diventò sempre più ricca e fastosa. Era un grande segno di potere per signori e nobili, agognato emblema di affermazione sociale per la ricca borghesia cittadina. La villa era contornata dall’elegantissimo giardino detto “all’italiana”, caratterizzato da aiuole ben definite e squadrate, di chiara derivazione agricola, che nel tempo si impreziosì sempre più con viali alberati, fontane e statue. Gli esempi più famosi saranno copiati in tutta Europa. In Toscana si diffusero sempre più le strade in cresta, costeggiate da filari di cipressi. Intorno si sviluppavano vigneti, oliveti e frutteti e campi coltivati.

Questo modello raggiunse il suo apice in Toscana entro la fine del Cinquecento, poi s’espanse in altri territori italiani. Ad esempio nel veneziano, il nord-est d’Italia, toccherà il suo massimo splendore nei due secoli seguenti. Nell’ambito romano, dove non c’era una borghesia sviluppata, la villa si ritrovava soprattutto nelle proprietà di papi e cardinali, che erano l’espressione delle famiglie italiane più potenti dell’epoca.

La Villa del Trebbio (1427-1436) di San Piero a Sieve (FI) in un dipinto di Giusto Utens (XVI)

Con l'avanzare del Rinascimento, il fasto delle ville aumentò a tal punto da soverchiare completamente la funzione agricola, come scrive in un poemetto il poeta napoletano Luigi Tansillo (Il Podere, 1560):

Io non vo’, che le ville sien palazzi, / che ingombrin molto; e chi vien, che vedan / terren, dove men s’ari, che si spazzi

Non vi ricorda qualcosa? Sembra di rileggere i versi di Orazio che, come altri autori romani, era preoccupato per le regiae moles (le dimensioni da reggia) delle ville agricole romane, che sembravano non lasciare più spazio alle coltivazioni. 

In questo poemetto (Il Podere), Luigi Tansillo parla direttamente ad un amico, il maggiordomo dei principi di Avalos, che è intenzionato ad acquistare un podere. Gli fornisce, in poesia, indicazioni sia economiche che di natura agraria. È chiaramente ispirato a Columella e Virgilio.

Nel 1534, a 24 anni, Luigi Tansillo aveva anche scritto “Il Vendemmiatore”, che in realtà ha ben poco a che fare con la viticoltura, ma è un poema erotico, che esorta a godere della giovinezza, nel tema del “carpe diem”. Tansillo, fingendo di scrivere un poema bucolico, si mette nei panni del vendemmiatore che, con metafore agricole che nascondono allusioni sessuali, invita le donne a non negarsi ai piaceri. Egli stesso racconta che lo scrisse dopo aver assistito alla vendemmia nella sua cittadina di origine, Nola. Allora c'era ancora un'usanza che era rimasta dall'epoca antica: era concesso ai vendemmiatori insultare i passanti e fare allusioni sconce, anche alle persone di classe sociale superiore. Il poema gli diede grande fama fra i letterati dell’epoca ma gli procurò anche tante pene, scatenando l’ira del papa. Fu messo nell’Indice dei libri proibiti (1559). Tansillo recuperò poi il credito papale con un poemetto religioso. Da Il Vendemmiatore:

“…  Quest’uva che l’altr’ier pendea sì acerba,
Ora è più dolce che del mel le canne:
Fu dura, ed ora è molle; sembrava erba,
Ed or sembra auro, ch’uman petto affanne;
Se sempre stesse al ramo ov’or si serba,
Come il liquor daría, che lieti fanne?
Per quetar col suo frutto l’altrui speme,
Prima da voi si coglie, e poi si preme
. …”

https://it.wikisource.org/wiki/Il_Vendemmiatore

"Il Vendemmiatore", 1600, Jacob Gerritsz.

Non si trattava solo di ville, ma il paesaggio si trasformava con notevoli interventi di bonifica delle pianure e di terrazzamenti di colline e montagne, soprattutto nei territori più ricchi e più stabili. Oltre che in Toscana, le trasformazioni più notevoli si ebbero nel milanese e nella zona veneta.

In Toscana e nei territori limitrofi si diffuse sempre più la mezzadria, che consolidò nel Rinascimento la sua classica struttura poderale. Non varierà più di tanto nei secoli seguenti. La grande proprietà era suddivisa in poderi, unità dimensionate sulla capacità di lavoro della singola famiglia colonica, che ripagava il proprietario dividendo con lui i prodotti agricoli. Ogni podere era autonomo, per cui tendeva a comprendere la coltivazione di tutto quanto necessario (o quasi) all’autosufficienza. La maggior parte delle terre di ogni podere era sempre dedicata ai cereali (in genere frumento) e alla vigna, coltivate in modo promiscuo. Poi la produzione era completata con colture orto-frutticole, che variavano fra i diversi territori, e quelle tessili (come la canapa). Quindi, il modello basilare su cui si fondava l’agricoltura del podere era il cosiddetto campo arativo/arborato- vitato, cioè campi arati per la semina dei cereali alternati alle viti, che erano quasi sempre allevate su alberi (la vite maritata di cui abbiamo tanto parlato dagli Etruschi in poi, per esempio qui). Era un’agricoltura promiscua, ma comunque intensiva, nel senso che ogni risorsa era sfruttata al massimo, a volte anche per aspetti minimali. Ad esempio, anche le fronde degli alberi su cui poggiava la vite erano considerate indispensabili, utili per foraggiare il bestiame e, con le potature, per ottenere fascine da ardere o pali. Si usava dire che “i Toscani tengono i prati sugli alberi”, perché il foraggio del (poco) bestiame derivava soprattutto da queste risorse.

Il bel paesaggio veneto nell'Adorazione dei Magi di Domenico Veneziano (1439-1441)

Nel Nord invece, nell’area padana, l'agricoltura era molto avanzata grazie ai lavori di bonifica che proseguivano ormai ininterrotti dal XI secolo, soprattutto in Lombardia. Accanto alla mezzadria, era già presente dal ‘400 un modello ancora più avanzato di affitti pagati in denaro, lavoratori salariati, con aziende sempre più votate alla commercializzazione dei prodotti. Il completamento della regimazione idraulica aveva trasformato la pianura paludosa nel tipico paesaggio padano dei prati irrigui, fatto da campi regolari ordinatamente separati da canali, sulle cui rive si trovavano filari di alberi, spesso con la vite maritata.  Il prato forniva abbondante foraggio per l’allevamento dei bovini, determinando lo sviluppo della grande produzione casearia tipica della Padania. L’allevamento produceva grandi quantità di letame, la cui abbondanza permetteva una ricca produzione di cereali e altre colture. Era un ciclo produttivo chiuso e molto efficiente.

Particolare della tavola dedicata a Mercurio, miniatura del libro De Sphaera, biblioteca Estense di Mantova (XV sec.)

Nel Meridione e nelle terre dei papi, ogni evoluzione socio-economica era invece frenata dalla maggiore chiusura di una società che non era passata attraverso l’Età dei Comuni e che non aveva quindi visto lo sviluppo di una classe borghese evoluta. In queste zone continuò a permanere un’impostazione sostanzialmente feudale, che limitò la crescita socio-economica delle città. Tuttavia, si registrarono in questo periodo maggiori aperture sociali ed agricole.

Il bel paesaggio siciliano, in un particolare della "Crocifissione" di Antonello da Messina (1475)

Non ci furono solo miglioramenti ma anche involuzioni. Con la fine del Rinascimento, nei territori più poveri ed abbandonati del Centro e del Sud si sviluppò sempre più il modello economico dell’allevamento transumante di ovini, per il quale bastava avere a disposizione ampie porzioni di territorio incolto da affittare, come i grandi latifondi siciliani, il Tavoliere delle Puglie, l’Agro romano, la Maremma (vedi qui), ecc. Il facile guadagno degli affitti legati alla transumanza bloccò lo sviluppo di questi territori per secoli.

La Piccola Era Glaciale

Nel Cinquecento le guerre imperversavano, la politica declinava ed il clima andava sempre più peggiorando. Dal 1564 si ebbero di seguito dieci inverni rigidissimi. Fra il 1594 e il 1597 piovve quasi incessantemente, con grave danno ai raccolti. Ogni annata problematica portava carestie, che favorivano la diffusione di epidemie. Nell’ultimo decennio del secolo i ghiacciai si espansero come non mai, invadendo i campi coltivati e distruggendo villaggi. Alcuni fiumi e laghi nordici ghiacciarono completamente, come il lago di Costanza. I prezzi dei beni agricoli salirono sempre più.

La Piccola Era Glaciale è rappresentata soprattutto nell'arte nel nord Europa, dove colpì più duramente, come nelle celebri opere di Brueghel il Vecchio. Uno degli eventi che riscosse più meraviglia in Italia fu il congelamento della Laguna Veneta ad inizio '700.

Nel Seicento continuò questo clima difficile. Le carestie portarono alle note pestilenze del tempo (ricordate i "Promessi Sposi" del Manzoni?), che decimarono la popolazione. Le più importanti furono nel 1630 e nel 1656. Ricordo anche nel 1693 un terremoto distrusse buona parte della Sicilia Orientale. Diverse terre che erano state bonificate ritornarono selvagge. Per contrastare le carestie, la tendenza fu di convertire quasi tutti i terreni a grano, a scapito delle colture pregiate.

In questa fase difficile si persero molti progressi agricoli e sociali. Ad esempio, in molte parti del centro e del sud d’Italia tornò a prevalere nelle campagne un sistema feudale retrivo. Il Sud si concentrò quasi solo sull’autoconsumo, mentre al Nord si iniziarono ad importare le derrate alimentari dall’estero. Al Nord declinò l’industria laniera e della seta, causato dal declino mercantile italiano, ormai surclassato dagli olandesi. L’unica città in sviluppo nell’Italia del Seicento fu Livorno, in quanto era il porto di scalo più utilizzato dalle potenze straniere nel Mediterraneo.

Dagli affreschi con paesaggi curatissimi del Medioevo e Rinascimento, nel Seicento si rappresentava spesso un paesaggio degradato, con scorci naturalistici e rovine. Una rappresentazione esemplare si ritrova nei dipinti di Salvator Rosa, considerato un pre-romantico, come questo "Grotta con cascate" (1639-1640)

Continua ...


Gambero Rosso Oslo Feb. 15th

Michele sarà a Oslo col Gambero Rosso, con i vini premiati, in particolare l'Atis 2019 che ha ricevuto i TreBicchieri.

Michele will be in Oslo with Gambero Rosso. He will present the prized wines, expecially Atis 2019 what won the TreBicchieri Award.

GAMLE LOGEN
Grev Wedels plass 2, 0151 Oslo

TASTING
14:00 - 16:00 | TRADE TASTING
17:00 - 19:30 | CONSUMERS TASTING
15:00 | TOP ITALIAN RESTAURANTS AWARDING CEREMONY

MASTERCLASS
18:00 - 19:00 | ITALY IN A NUTSHELL


BuyWine 2023

Michele Scienza sarà presente al BuyWine 2023 con i nostri vini, fiera dedicata agli incontri B2B con importatori esteri.

Michele Scienza will be at BuyWine 2023 with our wines. It's a B2B fair for impoters.


Evento Cuzziol a Milano 23 gennaio

Lunedì 23 gennaio saremo all'hotel Gallia a Milano per l'evento di presentazione del nuovo catalogo del nostro distributore in Italia, Cuzziol GrandiVini.

La degustazione è riservata agli operatori professionali, ristoratori ed enotecari.

Ci sarà Michele per noi, con le annate in vendita e qualche anteprima.


Buon Natale e Buon Anno Nuovo - chiusura per ferie dal 17 dicembre al 08 gennaio compresi.

Dopo un anno di lavoro senza mai fermarci, anche noi abbiamo bisogno di un po’ ferie. Saremo chiusi dal 17 dicembre al 08 gennaio compresi.

Ho trovato una nuova immagine della Madonna e del Bambino Gesù con un grappolo di uva. È del Beato Angelico (1425). Con essa, Michele ed io vi facciamo i nostri migliori auguri, anche se sappiamo che non è un periodo facile. Fra il mondo che “brucia” e difficoltà personali, quello che ci salva è sempre e solo l’amore.


Viaggio nella terra degli Etruschi

Artribune, piattaforma on line di contenuti e servizi dedicata all’arte e alla cultura, parla di noi, nell’articolo di Claudia Giraud dedicato alla Toscana etrusca. Il viaggio che propone esplora diversi percorsi che si possono fare in Toscana sulle tracce di questa antica civiltà. Il passaggio a Guado al Melo permette di scoprire la viticoltura etrusca, basata sulla vite “maritata” all’albero, la loro produzione vinicola e cultura del vino. Grazie mille all’autrice e a Toscana Promozione. Lo trovate su https://www.artribune.com/turismo/2022/10/toscana-terra-etrusca-tour-prato-firenze-valdicecina-costa-etruschi/4/


Tre Stelle Oro per Atis e Jassarte 2019 dalla guida Veronelli

Anche la guida Veronelli ha deciso di premiare con le TreStelle Oro i nostri grandi rossi da affinamento, Atis e Jassarte 2019. Ringraziamo di cuore Gigi Brozzoni e tutto lo staff.


Quando una cantina è anche un percorso culturale sul vino: il video di WineNews

Grazie a WineNews, una delle testate online più autorevoli sul vino, che dedica un bellissimo video alla nostra cantina sostenibile e al suo percorso culturale sul vino, raccontato dal prof. Attilio Scienza. Sotto il link

https://winenews.it/it/quando-una-cantina-e-anche-un-percorso-culturale-sul-vino-la-storia-di-guado-al-melo_481833/


Merano Wine Festival 2022

Si avvicina l’evento del Merano WineFestival 2022. Michele ed io, Annalisa, saremo lieti di incontrarvi nell’occasione, nei giorni 4 e 5 Novembre, venerdì e sabato, al tavolo n. 69, nella Galleria al primo piano, dove ci sono le aziende toscane. A presto!

The Merano WineFestival 2022 event is approaching. Michele and I, Annalisa, will be glad to meet you on the occasion, on 4 and 5 November, Friday and Saturday, at table no. 69, in the Gallery on the first floor (where the Tuscan wineries are located). See you soon!


Non solo Atis: i premi del Gambero Rosso agli altri nostri vini

Dopo la felicità dei TreBicchieri all'Atis, ricordiamo che anche gli altri vini sono stati premiati. I treBicchieri sono il vertice, ma anche ricevere i Due e Un Bicchiere non è così facile.

In particolare, premiati con i Due Bicchieri:

Criseo Bolgheri DOC Bianco 2020

Rute Bolgheri DOC Rosso 2020, di prossima uscita

Premiato con Un Bicchiere, Jassarte 2019.


Attilio a Taormina Gourmet: come sarà il vino del futuro?

Attilio sarà coinvolto negli eventi di Taormina Gourmet, importante manifestazione enogastronomica siciliana.

Domenica 23, terrà una masterclass in cui parlerà dell'evoluzione del vino, presentando 10 vini innovativi. tra questi ci sarà il nostro Criseo Bolgheri DOC Bianco 2020, un vino antico, ma allo stesso tempo incredibilmente moderno.

Le sfide attuali impongono al mondo del vino di ripensare molte scelte che hanno limitato il settore nella sua capacità di interagire con l'ambiente e i cambiamenti climatici: sostenibilità, utilizzo delle migliori varietà per un territorio e non quelle della moda, uvaggi in campo o in cantina per creare equilibri perfetti in modo naturale, ... Tanti argomenti interessanti!


TreBicchieri per l'Atis 2019

Ringraziamo vivamente lo staff del Gambero Rosso per il riconoscimento. Atis è un Bolgheri superiore decisamente non convenzionale, un grande esempio di vino artigianale di una piccola azienda famigliare.

Nasce dal taglio sapientemente complesso di varietà e micro-particelle scelte delle nostre vigne.

Ha bisogno però di ancora qualche mese di affinamento in bottiglia, poi sarà perfetto!

Saremo quindi presenti alla premiazione a Roma che si terrà sabato 15 ottobre al mattino. Nel pomeriggio, ci sarà la degustazione dei vini premiati, prima solo per la stampa e poi aperta anche al pubblico. Il tutto si tiene all'EUR, nel Salone della cultura Palazzo dei Congressi - Ingresso Piazza John Kennedy 1:
ore 15.00 - 16.00 (ingresso riservato a ospiti dei produttori, stampa e operatori del settore)
A seguire ingresso aperto al pubblico fino alle ore 20.00.

A presto


Antillo 2021: la nuova annata è pronta!

Ci siamo finalmente: qui trovate la scheda del vino e la breve presentazione in video

L'Antillo 2021 ci riporta ad un gusto di un Bolgheri più fresco e fruttato, con un pizzico di spezia, un vino di breve invecchiamento non troppo impegnativo ma comunque di spessore. L'Antillo ci riporta alle tradizioni passate del nostro territorio, per la prevalenza nel taglio del Sangiovese.

Concentrati su un presente molto importante, pochi ricordano che qui la produzione di vino è ben più antica. Purtroppo, è stato proprio il Novecento, prima della rinascita, il periodo più difficile per il vino locale, per colpa della fillossera. Il parassita colpì la nostra costa soprattutto dagli anni '20 e mise in ginocchio l'allora fiorente produzione locale. Essa scese al minimo storico a metà secolo, sostituita dall'olivicoltura e in parte anche dall'orto-frutta, per poi riprendere la sua risalita e l'evoluzione straordinaria che ha condotto fino al nostro tempo.

Fino all'arrivo della fillossera, il territorio stava godendo di un momento magnifico per il vino, dopo le bonifiche di fine Settecento ed inizio Ottocento. C'era stato un notevole ampliamento della produzione ed il vino locale era lodato dalle celebri odi del Carducci.

Se volete saperne di più, potete leggere del secolo d'oro del vino a Bolgheri a questo link del mio blog.

Nota Bene: ormai è uso dire "il vino a Bolgheri", perchè la DOC si chiama Bolgheri e, parlando di vino, è questo il nome conosciuto dai più. Ricordiamoci però che il vino Bolgheri DOC è prodotto nel territorio del Comune di Castagneto Carducci. Per questo motivo, sarebbe più corretto, se si parla di geografia, dire "il vino a Castagneto". In fondo, è la stessa cosa (o quasi, perchè nel territorio possono anche essere prodotti vini non DOC), ma non è scontato che tutti lo sappiano.


The WineHunter Award per Atis, Jassarte e Criseo

Grazie a The Wine Hunter, il premio legato alla manifestazione Merano Wine Festival. Grazie mille per il riconoscimento!


Ottimo l'Antillo per Sommelier Toscana

Grazie alla rivista Toscana Sommelier, che pone il nostro Antillo Bolgheri DOC Rosso 2020, il nostro Bolgheri base, fra i migliori del territorio.

"Veste rubino nonostante la presenza del Sangiovese. Olfatto bello e convincente con cenni di autentica eleganza. Rara efficienza gustativa in cui il vino presenta molto piacevolezza e gradevolezza".

L'Antillo 2020 è esaurito in cantina ma potete ancora trovarlo nelle migliori enoteche e ristoranti. A settembre arriverà l'annata nuova, 2021.


WineCritics, grandi Jassarte Criseo!

Grazie mille per gli ottimi punteggi.

Elegant and very complex wine. At the nose, you can smell aromas of lemon flowers, custard, toasted hazelnuts, burnt wood and saffron. Full body, soft and enveloping structure, light and tasty finish of excellent workmanship.
Ripe and well spiced. In the dark profile it recalls black plums, lots of wild myrtle. Full body, perfectly ripe tannins, savory and dynamic finish. Gorgeous

Il mito eterno d’Arcadia, fra agricoltura e natura, reali ed inventate

E il vecchio diceva, guardando lontano: / "Immagina questo coperto di grano, / immagina i frutti e immagina i fiori / e pensa alle voci e pensa ai colori. / E in questa pianura, fin dove si perde, / crescevano gli alberi e tutto era verde, / cadeva la pioggia, segnavano i soli / il ritmo dell' uomo e delle stagioni". / Il bimbo ristette, lo sguardo era triste, / e gli occhi guardavano cose mai viste / e poi disse al vecchio con voce sognante: / "Mi piaccion le fiabe, raccontane altre!"
(Francesco Guccini, "Il vecchio e il bambino", 1972)

https://youtu.be/RQ0vOnoNkPM

Il cammino dell’Homo sapiens non ha mai contemplato un rapporto pacifico con le risorse naturali ed il mondo animale. Oggi tocchiamo sempre più con mano le conseguenze estreme del nostro "adattamento" al mondo, dall'inquinamento al cambiamento climatico, per non parlare del rischio sempre latente di una distruzione nucleare.

Invece che cercare soluzioni sensate, spesso però preferiamo perderci nell'estremo opposto. Alla figura dell’uomo che depreda si contrappone la figura mitica dell’uomo “naturale”, anelando un ritorno ad una natura incontaminata o a una vaga vita agricola/pastorale antica, migliore e più felice. La paura scatena in noi fenomeni di rifiuto generalizzati, fino alla tecnofobia. Non a caso “naturale” è la parola più usata dal marketing di oggi, che ci propone nuovi filoni consumistici che comprendono le non-soluzioni delle medicine alternative, agricolture da cartolina, cibi “senza” che ci promettono solo benessere … Diventa veramente difficile riuscire a distinguere fra le proposte realmente sostenibili e quelle che sono solo marketing o camuffamenti "verdi".

Questa visione dualistica di frattura fra l’uomo (e la tecnica) e la Natura non è una novità. Fa parte dei fondamenti della nostra cultura occidentale e si è sedimentata per secoli.  L’uomo civilizzato ha sognato sempre un luogo mitico dove tornare, una patria naturale che spesso ha preso il nome di Arcadia.

Arcadia è il nome di una regione della Grecia, arida e brulla, che in antichità era considerata la culla della poesia pastorale. Arcadia è però soprattutto il sogno senza tempo di un mondo incontaminato, dove l’uomo vive in pace ed armonia con la natura, ricreando quella frattura che si è creata con la tecnologia. È un luogo dell’anima dove è possibile vivere una vita naturale lontano dalle brutture della civiltà umana, raggiungendo quella felicità che sentiamo di non riuscire mai ad ottenere nel consesso civile.

Questa idea si è sedimentata nella nostra cultura nel corso delle epoche e dei pensieri. Arcadia, nominata o meno, poteva essere la natura incontaminata oppure il mondo agreste e pastorale (nell’immaginario comune i confini di questi due ambiti sono spesso incerti). Questo luogo mitico è stato abitato da ninfe e satiri, che possono anche assomigliarci esteriormente, ma sono molto diversi nella loro essenza di spiriti della natura. È stato anche però popolato da contadini e pastori, gente semplice che in questi miti costituiscono un’umanità più vera, meno corrotta di quella civilizzata e, quindi, più vicina alla Natura.

Il dipinto di Cole riunisce i temi classici dell'Arcadia: un luogo dove l'uomo è in armonia con sè stesso ed il mondo. Qui svolge attività semplici di sussistenza, come l'agricoltura (a sinistra) e la pastorizia (al centro), oltre che di elevazione delle spirito, cioè l'arte (a destra), in perfetta armonia con una Natura perfetta. (T. Cole "The Course of Empire. The Arcadian or Pastoral State" 1836).

Il dualismo Natura-civiltà è antichissimo. La regione mitica di Arcadia è descritta inizialmente nella classicità greca da Teocrito. È Platone però ad introdurre il mito del luogo ameno, fatto da un corso d’acqua e ricca vegetazione, dove l’uomo può trovare la sua felicità. Aristotele separa invece la fisica dalla metafisica, tracciando una divisione fra la descrizione letteraria della natura e la sua indagine conoscitiva. Esiodo ci ricorda che l’uomo deve la sua sopravvivenza al lavoro e alla fatica. Solo modificando la Natura a suo vantaggio riesce ad ottenere quello che gli serve per vivere (“Le opere ed i giorni”). Aristofane ne "Le Nuvole" dice che la vita frugale di campagna è quella più morale, in contrapposizione alla vita della gente di città, che è viziata, stravagante, legata solo ai beni superflui.

Anche l'Odissea racconta di "luoghi ameni" o giardini meravigliosi, come la grotta di Calipso sull'isola di Ogigia o il giardino di Alcinoo, dove la frutta è prodotta in continuazione. Eppure Ulisse non è attratto da questi luoghi di delizie eterne, ma agogna il ritorno alla "petrosa Itaca", cioè alla civiltà umana. Ci ricorda Eva che, con Adamo, sceglie la conoscenza, anche al costo di essere scacciati dal paradiso terrestre. (Brueghel il Vecchio, Ulisse e Calipso, 1616).

Nel mondo latino, Lucrezio ("De Rerum Natura") ci ricorda che possiamo liberarci della paura della morte e degli dei solo cercando di capire il mondo, l’origine del cosmo, la realtà ed i fenomeni naturali. Per lui la natura è matrigna: fin dalla nascita ci infligge sofferenze e difficoltà spietate. La visione della Natura Matrigna rimarrà per secoli. Ripensiamo anche a Giacomo Leopardi nell'Ottocento. Egli pone la Natura al centro delle sue meditazioni esistenziali, ma esse aprono le porte ad un pessimismo individuale e cosmico.

L'episodio della peste di Atene, raccontata da Tucidide, è lo spunto per Lucrezio per ricordarci quanto sia dura la Natura verso l'uomo. L'epidemia ci mostra un'umanità desolata, devastata nel corpo ma che ha anche perso ogni valore morale. (Michael Sweerts, 1652, La peste di Atene)

“Tu (Natura) sei nemica scoperta degli uomini e degli altri animali, e di tutte le opere tue, ora c’insidi, ora ci minacci, ora ci assali, ora ci pungi, ora ci percuoti, ora ci laceri, e sempre o ci offendi, o ci perseguiti”
(Dialogo della natura e di un Islandese, G. Leopardi)

Virgilio invece ci riporta nel luogo ameno. Anzi, è colui che fissa definitivamente per i secoli a venire il topos letterario dell’Arcadia, il luogo dove i pastori si dedicano alla poesia, al canto e all’amore, in piena comunione con gli dei e le creature mitologiche. L’Arcadia con lui è il paesaggio naturale ma anche quello rurale, dove una natura gentile ripaga con abbondanza le fatiche dell’uomo abile nel suo lavoro.

Virgilio racconta nell'Eneide anche dei Campi Elisi, il luogo dove dopo la morte dimorano le anime delle persone degne, in profonda beatitudine. Lo descrive come un luogo di natura incontaminata, fatta da campi luminosi e boschetti profumati. Ridley Scott li rappresenta così nel film Il Gladiatore, mostrando uno scorcio di campagna toscana della Val d'Orcia.

Diversi autori latini fissano il classico dualismo fra la vita di città e quella di campagna, quest'ultima più nobile ed in armonia con la natura. Lo fa Varrone, così come prima di lui Catone e, più tardi, Columella (qui). Giovenale dice che “Roma è una grande fogna”, elogiando la vita rustica e la moralità integra delle genti di campagna. Cicerone scrive che “Le gioie dell’agricoltura sono quelle più vicine ad una vita di vera saggezza”. Il poeta Tibullo va oltre ed introduce anche il rimpianto della mitica Età dell’Oro, in cui l’uomo viveva nella natura ed otteneva quello che gli serviva per vivere senza neppure dover faticare.

Nel Medioevo la natura selvaggia inizia a diventare un luogo pauroso e pericoloso. Il bosco è pieno di briganti e di bestie feroci. Non è più la selva del mondo classico, quasi un giardino dove vivono benefiche divinità minori. La città (=la civiltà) è il luogo della protezione e della sicurezza. Fra le mura dei conventi i monaci preservano le conoscenze che garantiscono la produzione del cibo e studiano le erbe che curano le malattie. L’agricoltura stessa è racchiusa e protetta nelle mura dell’hortus, al sicuro dalle forze devastanti della natura.

Superate le paure, la natura torna ad essere il luogo ameno. Ricordiamo il Petrarca, con “Le chiare, fresche e dolci acque” e il Monte Ventoso da scalare, per raggiungere le più alte vette della spiritualità. Nel Rinascimento l’Arcadia torna in tutta la sua bellezza originaria di poesia pastorale. Spesso però le campagne descritte non sono più paesaggi generici o stereotipati ma prendono la forma, più o meno esplicita, dei luoghi vissuti dagli autori. Ad esempio, il Boiardo nei Pastoralia, accoglie il Dio Pan poco fuori Modena e lo guida verso la città. Il mito d’Arcadia viene espresso a pieno soprattutto da Jacopo Sannazzaro (“Arcadia”, 1504), nel quale domina il tema del rimpianto della mitica Età dell’Oro, anche perché la sua Arcadia non è solo un luogo felice ma piuttosto la trasposizione in ambientazione idilliaca del mondo reale. Con lui il mito di Arcadia dall’Italia si riversa nel resto d’Europa. Ricordiamo per esempio nel Seicento Philip Sidney che vi ambienta avventure e battaglie (“The countess of Pembroke’s Arcadia”). William Shakespeare fonde il mondo reale e quello fiabesco nel “Sogno di una notte di mezz’estate”. Pope, ad inizio Settecento, accosta la natura alla “semplicity” (“Discorso sulla poesia pastorale”).

Il mondo celtico-germanico ha anche però una visione tutta sua del mito della Natura, che non è la salva-giardino e l’ambiente pastorale del classicismo mediterraneo. La sua espressione è la foresta, luogo pauroso ma anche dove è possibile ritrovare sé stessi. È anche uno spazio di libertà, dove le convenzioni sociali possono essere sospese e dove possono trionfare la verità, l’amore e la giustizia.  Pensiamo a Walter Scott, che con Ivanhoe è il principale diffusore nella letteratura del mito del bosco come luogo di eroismo e libertà. È questa l’influenza principale di Natura del Romanticismo, in un rapporto che si fa più personale. I suoi elementi si caricano di emozioni e stati d’animo di assoluta profondità e struggimento.

Nel celeberrimo "Il Signore degli Anelli" di Tolkien si ritrovano tantissimi miti a proposito della foresta e della Natura incontaminata. Sono descritti esseri più vicini alla natura rispetto all'uomo tecnologico e distruttivo, come gli Elfi, legati alla natura selvaggia, e gli Hobbit, appartenenti ad un idilliaco mondo agricolo e pastorale. Un momento significativo e suggestivo (ma ce ne sono tantissimi in tutta l'opera) è rappresentato dalla marcia dagli alberi senzienti, gli Ent. verso la fortezza di Isengard, la fucina tecnologica, responsabile dell'abbattimento di molti alberi della foresta di Fangorn, per distruggerla. Qui Tolkien riprende ed amplifica la famosa scena del Macbeth di Shakespeare, in cui gli uomini dell'esercito salvifico di Malcom si mimetizzano coprendosi con le fronde degli alberi, dando l'impressione che il bosco stia marciando verso la fortezza dove si è asserragliato l'usurpatore Macbeth. Si avvera così la profezia delle streghe che, sembrando impossibile ad avverarsi, aveva illuso Macbeth della sua invincibilità. Le streghe avevano infatti predetto che non sarebbe stato sconfitto finché la foresta di Birnam non fosse scesa in battaglia.

L’Ottocento, con le sue trasformazioni economiche e sociali, accentua sempre più la sensazione di frattura fra civiltà e natura. A fine secolo nasceranno le prime associazioni (élitarie) ambientaliste. Ad inizio Novecento nasceranno i primi parchi nazionali europei. Nel secondo dopoguerra nascerà anche l’ambientalismo di massa e politico ...  Uno dei padre spirituali dell'ecologismo moderno è considerato Henry David Thoureau che col suo “Walden, vita nel bosco” (1854) racconta che ha raggiunto il benessere personale solo con l'esperienza di una vita in piena armonia con la natura, durata due anni. In questo periodo ha sopportato anche condizioni di estrema frugalità, che gli hanno però permesso di riscoprire la felicità delle piccole cose.

"Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, affrontando solo i fatti essenziali della vita, per vedere se non fossi riuscito a imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non dover scoprire in punto di morte di non aver vissuto."

Rimane sempre anche il pensiero antico della maggiore moralità delle persone più semplici. Thomas Jefferson afferma: “Sottoponi lo stesso quesito morale ad un contadino ed ad un professore, il primo deciderà altrettanto bene del secondo, se non meglio, perché non ancora deformato dall’astrattezza delle leggi artificiali”.

Pensiamo anche a Rousseau, a Lamartine, alle montagne altissime e ai laghi, alla nascita del gusto dell’orrido, ma anche il mito del “buon selvaggio”. “Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell'uomo”, scrive Rousseau. Secondo lui, l’uomo-naturale ha come solo obiettivo la cura di sé ed è naturalmente empatico verso i suoi simili. La società invece è una costruzione nociva, che corrompe l’essere umano, in quanto lo sguardo dell’altro porta l'uomo ad inseguire altre priorità, di sopraffazione ed ingordigia.

La lista sarebbe infinita. Le ultime Arcadie che voglio ricordarvi appartengono a miei ricordi d'infanzia, ad una cultura più “bassa”, quella dei cartoni animati degli anni ’70, momento più che mai cruciale di sviluppo dell’ambientalismo moderno e della critica sociale. La prima è nel bellissimo “Conan, il ragazzo del futuro”, opera di Hayao Miyazaki nel 1978 e trasmesso in Italia per la prima volta nel 1981. In questo mondo distrutto da armi terribili, è netta la contrapposizione fra le antiche città sommerse, la iper-tecnologica Indastria e l’isola felice di Hyarbor.

In Conan, l'isola di Higharbor, un'Arcadia mai nominata come tale, rappresenta l’ultimo baluardo di un mondo perfetto distrutto dalla tecnica, dove gli uomini vivono pacifici in una società ugualitaria basata su un'agricoltura pre-industriale.

Il nome Arcadia compare invece realmente in Capitan Harlock, creato nel 1977 da Leiji Matsumoto, trasmesso in Italia per la prima volta nel 1979. Non è però l'Arcadia solita, quella della natura incontaminata o dei paesaggi bucolici, ma il nome dell’astronave dove il protagonista vive col suo gruppo di buffi corsari. In un mondo futuro distopico dove la Natura, fatta di alberi ed animali, non esiste più, l'Arcadia di Matsumoto è come un'arca che ospita una comunità umana ideale, persone che vivono una sorta di anarchia regolata, pronte a lottare e sacrificarsi per il bene comune. Sembra dirci che, dopo la devastazione e le guerre, l’ultima Arcadia che rimane da salvare è questo piccolo rimasuglio d’umanità.

Qui termino il viaggio nel mito antico della natura incontaminata e dell’uomo naturale. Arcadia (o chiamatela come volete) è il luogo dell’anima di tutti noi, radicato da secoli, un grande ideale utopistico che da sempre è servito a scuotere le coscienze, a farci chiedere “ma cosa stiamo facendo?” Facciamo però anche attenzione a non perderci in essa e nelle sue illusioni salvifiche, per mantenerci lucidi e tracciare una strada concreta per costruire un futuro possibile.

Il mito d’Arcadia nella letteratura, di Marilina Notaristefano, https://associazioneculturalearcadia.com/2016/04/03/il-mito-darcadia-nella-letteratura/

https://www.ilfoglio.it/cultura/2021/07/26/news/la-natura-matrigna-2718907/

https://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:TItMd6LBJf0J:https://arenaphilosophika.it/corazzate-spaziali-e-socialisti-utopisti-il-mito-dellarcadia/+&cd=17&hl=it&ct=clnk&gl=it&client=firefox-b-d

https://www.danielemancini-archeologia.it/la-peste-di-atene-del-v-secolo-a-c/

Wine Advocate: buoni ma un po' pazzarelli

Grazie mille a Monica Lerner per il suo apprezzamento per i nostri vini, in particolare per l’Atis e il Jassarte. La cosa particolare è che questa brava giornalista americana ha per noi sempre commenti interessanti, che mi pare stiano fra l’incredulo e quella simpatia che si attribuisce a persone che si giudicano un po’ pazzerelle 😊.

L’anno scorso ha scritto che siamo l’azienda più creativa.  Quest’anno scrive: “there is a bit of mad science here, but that’s what makes them so much fun”, cioè “qui c’è un po’ di scienza pazza, ma è questo che li rende così divertenti”.

Chissà se pensa che siamo un po’ matti a fare scelte controcorrente in un mondo come quello del vino, che spinge verso l’omologazione.

Per cui, pazzi o coraggiosi che siamo, prendiamo tutto questo come un complimento e speriamo di averla nostra ospite quanto prima, per divertirla ancora di più! (e magari riuscire a raccontarle la ricerca sperimentale e la riscoperta di antiche tradizioni italiane che stanno dietro a queste nostre scelte)

Ad ogni modo, grazie mille, Mrs. Lerner, apprezziamo molto che abbia assaggiato e recensito i nostri vini.


Ci siamo: ci certifichiamo come vino sostenibile

Sii il cambiamento che vorresti vedere avvenire nel mondo.
(Gandhi)

Sono felice di comunicarvi che con la vendemmia 2022 i nostri vini saranno certificati per la produzione di vino sostenibile, secondo lo dello standard unico di sostenibilità fissati quest'anno dal Ministero, col marchio SQPNI (Sistema Qualità Nazionale di Produzione Integrata). Il logo è la simpatica ape che vedete qui sopra, molto evocativa di una viticoltura rispettosa dell’ambiente e della salute. Non fermatevi però a questa apparenza un po’ naif: alla base c’è un sistema tecnico-scientifico molto rigoroso e solido, quello della viticoltura integrata volontaria.

Non diventiamo sostenibili ora perché ci certifichiamo. Viceversa, certifichiamo qualcosa che stiamo facendo da sempre. Chi ci conosce sa che lavoriamo fin dalla nascita di Guado al Melo perché sia un’azienda artigianale completamente sostenibile (dalla gestione della vigna, alla cantina di bioarchitettura, alla gestione della vinificazione, al riciclo dell’acqua piovana, alla diffusione della cultura del vino e del territorio, ...). Lo siamo nell’essenza, nel nostro modo di vivere e nella costanza di evolvere nel tempo.

La nostra certificazione parte con la vendemmia 2022. Dovrete quindi aspettare un po’ per vedere la graziosa apina sulle nostre etichette. Il primo vino sarà l’Airone 2022, che uscirà più o meno a marzo 2023. Poi verranno tutti gli altri.

E' necessario certificarsi allora? Sicuramente i sistemi di certificazione possono avere dei limiti, per questo non ci siamo certificati con sistemi in cui non credevamo. Se il sistema è fatto bene è però una garanzia in più nei confronti dei nostri clienti.

Perché solo ora? Era tempo che aspettavamo che la politica italiana definisse un sistema di certificazione unica di sostenibilità, basato su un sistema tecnico-scientifico rigoroso. Lo ha fatto in ritardo e, come sempre, in modo tortuoso e un po' confuso, Siamo però fiduciosi che siamo all'inizio di un percorso che sarà sempre più fruttuoso.

Non è la nostra prima esperienza. La regione Toscana verifica già la nostra adesione alla viticoltura integrata volontaria. Inoltre, qualche anno fa avevamo già partecipato, come azienda-pilota, alla nascita della prima certificazione di sostenibilità italiana, Magis. Il progetto, nato nel 2009, supportato da diverse università e centri di ricerca, fu molto rigoroso. Venne riconosciuto fra i migliori al mondo dall'OIV. Purtroppo finì dopo pochi anni, perché troppo in anticipo sui tempi: molte aziende si sfilarono perchè non ci videro un ritorno di immagine.

Quindi, avrete capito che se anche la sostenibilità può sembrare un discorso nuovo, in realtà è un concetto ormai “stagionato”. Nasce dall'evoluzione dell'agricoltura integrata negli anni '90. Dopo pochi anni nascevano già nei paesi vitivinicoli del Nuovo Mondo sistemi di certificazione uniche nazionali (prima in California, poi Nuova Zelanda, Cile, Sudafrica, …).

L'Italia (e l'Europa) è rimasta un po' indietro a livello di certificazioni e di sostenibilità. Finora ci si accontentava della regolamentazione regionale della viticoltura integrata, peraltro ottima in Toscana (ho meno conoscenze dirette sulle altre regioni). Si è iniziato a parlare di sostenibilità in modo più diffuso solo negli ultimi anni, Sono così nate di recente diverse certificazioni, che hanno potuto beneficiare dell'impianto rigoroso già impostato da Magis. Quest’anno il Ministero ha iniziato a lavorare per definire uno standard unico, con alla base il sistema SPQNI.

Purtroppo questo ritardo è dovuto al fatto che da noi il dibattito pubblico sui temi di agricoltura/ambiente è da sempre dominato da discorsi più “di pancia” che di testa, ricchi di luoghi comuni e pratiche evocative, perfette per la politica o i media più superficiali o il marketing aziendale, ma poco o per nulla efficaci e concreti in vigna.

Se vogliamo fare realmente il bene dell’ambiente e di noi stessi, l’essenziale non è fermarsi agli slogan attraenti ma lavorare per trovare dei metodi realmente efficaci e che permettano di raggiungere degli obiettivi realizzabili.  Infatti, nonostante tutto questo, la ricerca viticola mondiale ha lavorato sodo in questi decenni e molti vignaioli sono stati al passo.

Come funziona la certificazione di sostenibilità

I pilastri della sostenibilità sono tre, strettamente intrecciati tra loro, quello ambientale, economico e sociale.

Parlando di vigna, la tutela dell’ambiente e della salute passa prima di tutto dalla base tecnico-agronomica, che è la viticoltura integrata volontaria (che già facciamo da sempre e che quindi ho raccontato sul nostro sito internet e in diversi post qui, qui, qui e tanti altri). Comprende le pratiche viticole multi-disciplinari che permettono di avere un’uva di grande qualità col più basso impatto (misurato) sull’ambiente. Ad esso si integrano altri elementi. Alcuni sono legati al lavoro in cantina, a partire dall'assoluta tracciabilità dal campo alla bottiglia finita, al contenimento dei prodotti di vinificazione (noi non ne usiamo), fino alla verifica di assenza di residui nel vino finito. Poi ci sono i parametri di impatto generali dell'azienda, in relazione al consumo energetico, all'acqua e al destino dei rifiuti e prodotti di scarto.

Se non sapete cos'è la viticultura integrata volontaria, ho messo un richiamo nel riquadro verde. Se la conoscete, saltatelo.

Cos’è la viticoltura integrata? È il modo più razionale per risolvere i problemi di impatto ambientale della viticoltura. Non è una “filosofia” ma semplicemente la scelta delle pratiche migliori disponibili, prese dalla tradizione e dalle migliori innovazioni, col fine di ridurre al massimo gli interventi umani e l’uso di ogni prodotto fitosanitario in vigna (possibilmente fino all’eliminazione) mantenendo nello stesso tempo un’adeguata qualità e quantità dell'uva (e del vino). Quindi una pratica è accettata solo se, contemporaneamente, soddisfa due condizioni: funziona bene e lo fa col minimo impatto sull’ambiente. È un sistema che beneficia ormai di decenni di studi e sperimentazione. Il concetto di “lotta integrata” è nato negli anni ’70, è cresciuto notevolmente nel tempo, con un importante salto soprattutto negli anni ’90.P

Perché si chiama integrata? Perché considera la vigna come un ecosistema integrato in cui interagiscono numerosi organismi viventi, influenzati dalla situazione del suolo, del clima e delle variazioni atmosferiche. L’approccio multidisciplinare, che riesce a mette insieme tutte le conoscenze su questi elementi, permette di ottenere il minimo impatto possibile in agricoltura.

Alcuni concetti cardine: Fra le pratiche utilizzate c’è una scala di priorità. Si privilegiano sempre prima quelle che permettono la prevenzione delle avversità. Dove non è possibile, si utilizzano sistemi di lotta biologica. Se non è possibile neppure questo, si ricorre all’uso di prodotti fitosanitari, scelti fra quelli che hanno dimostrato un’ottima efficacia e il più basso impatto sull’ambiente, usandone la quantità minore possibile, solo dove serve. In questo modo si può raggiungere un impatto bassissimo, che la ricerca sta cercando di abbassare sempre più. Per prendere le decisioni è fondamentale la raccolta dei dati che permettono di capire cosa sta succedendo (dall’osservazione della vigna alla raccolta dei dati atmosferici, …) così da intervenire puntualmente con i metodi migliori per quella situazione, solo dove serve. Un principio fondamentale è l’approccio integrato: ogni problema viene affrontato da più fronti, in modo da rendere minimale l’impatto di ciascun intervento. Un altro principio base è la soglia del danno, cioè non serve “sterilizzare” la vigna, ma è sufficiente che le avversità stiano sotto una soglia minima che non intacchi la qualità dell’uva.

Perché se ne parla poco ed è poco conosciuta? Sinceramente è il mio cruccio da sempre! Anche se se ne parla poco, è applicata da tantissime aziende di vignaioli italiani. Soprattutto mi chiedo perchè le aziende, le università, le regioni ed i tecnici che se ne occupano non ne parlano quasi mai. Oppure non sono ascoltati?!?! Mi sono data diverse spiegazioni. Si tratta di un sistema complesso, poco adatto alla semplicità richiesta dai media e dal marketing, che vogliono concetti poco ragionati, facili ed accattivanti. Nella mia esperienza mi sono anche accorta che questo sistema viene scelto in genere dalle aziende di vignaioli vecchio stampo, che non mettono al primo posto il marketing ma la cura ottimale della vigna, che in media sono dei pessimi comunicatori (scusatemi, ma purtroppo è così).

Non è però sufficiente. Per completare il concetto di sostenibilità, vengono verificati anche parametri relativi all’ambito economico e sociale, con una serie di verifiche sull’integrità dell’azienda nei rapporti con i propri lavoratori, per quanto riguarda la sicurezza e la valorizzazione, oltre che nei rapporti col territorio ed il resto della catena produttiva.

Cos’è la viticoltura sostenibile? È l’upgrade, il passo in avanti, della viticoltura integrata. Negli anni ’90 si è iniziato a riflettere sul fatto che non bastava considerare l’impatto in ambito ambientale. Perché ci sia vera sostenibilità, è necessario che esso si integri con gli aspetti economici e sociali.

Sostenibilità economica. Facciamo un esempio, ammettiamo che io trovi un sistema di coltivazione che non ha un impatto negativo sull’ambiente ma mi fa produrre pochissimo prodotto oppure esso è di scarsa qualità, oppure mi costa tantissimo produrlo ... Allora quel sistema non è sostenibile, perché risolve un problema ma ne crea molti altri. L’agricoltura deve dare reddito alle persone che la svolgono, altrimenti rischia di sparire oppure deve dipendere dai fondi pubblici per sopravvivere. Inoltre deve offrire sufficienti prodotti alimentari al fabbisogno della comunità, sia come quantità che come qualità. Questo concetto di base in realtà è insito da sempre nella lotta integrata, che ha sempre cercato le pratiche con il più basso impatto ambientale ma che, nello stesso tempo, mantenessero un adeguato livello qualitativo e quantitativo del prodotto.

Sostenibilità sociale. Inoltre, ogni attività umana deve contemplare il rispetto per i lavoratori e le persone che vivono nel territorio, la correttezza verso fornitori e clienti (e tutta la catena che sta prima e dopo), l’interazione positiva con la propria comunità, il mantenimento e la divulgazione della cultura del prodotto e del territorio, …

Tutti questi elementi devono coesistere perché si parli di viticoltura sostenibile, cioè si deve trovare la migliore mediazione possibile fra di essi.   

È una certificazione di filiera e di prodotto. Significa, a differenza di altre, che si deve dimostrare ogni anno non solo di seguire determinati modi di lavorare, ma che si sono raggiunti gli obiettivi, dimostrati con l’assenza di residui in vigna e nel vino, per “conquistare” così il bollino sulle bottiglie.


Bolgheri: colline, pianure e suoli, capire un territorio oltre i luoghi comuni

T’amo, feconda e pia terra, e t’ammiro,
e ti palpo, e di te colmo le mani,
e su te chino il volto, avido, e i sani
profumi tuoi, riconoscente, aspiro;

e in te l’occhio figgendo, in breve giro
scopro monti e foreste e valli e piani,
e mi smarrisco per recessi arcani,
...
(Edmondo de Amicis, Alla Terra)

Una domanda che mi sento fare spesso dai nostri visitatori è perché a Bolgheri la viticoltura non si è sviluppata in collina. Infatti comprende soprattutto la fascia pede-collinare e di pianura. Tale quesito è comprensibile: quante volte avete sentito dire che la viticoltura migliore è quella di collina? "Bacchus amat colles", Bacco ama i colli, scriveva anche Virgilio nelle Georgiche. Come mai allora a Bolgheri (e da altre parti) non è così? Perchè qui c'è tanto sole :-) Cerchiamo però di capire meglio il perché.

Prima rispondere a questa domanda, vi invito a riflettere sul fatto che, come in tanti altri campi, anche nel vino ci sono delle regole che possono sembrare generali ma che, con un approccio meno superficiale, si può arrivare a capire che non valgono esattamente in tutti i casi. Certe semplificazioni (o luoghi comuni) hanno poco a che fare con la multiforme diversità della produzione viticola. Come vi ho spesso ricordato, la viticoltura è sempre essenzialmente locale. Le scelte viticole possono cambiare molto fra territorio e territorio, addirittura fra vigna e vigna. Sono le condizioni particolari di suolo, clima, micro-clima e varietà a determinare le scelte migliori su dove e come realizzare una vigna, oltre che poi su come condurla per tutti gli anni a venire. Non possiamo stravolgerle se vogliamo fare un grande vino, un vino di territorio che porti in sé la sua splendida unicità.

Purtroppo a volte si tende a generalizzare usando come riferimento le scelte di territori di successo o di produttori famosi o della realtà che conosciamo meglio. Tuttavia, se ci accostiamo ad un territorio con pregiudizi, diventa veramente impossibile capirne le peculiarità. La generalizzazione è ancora più rischiosa per chi ci lavora, per i produttori: riprodurre nelle proprie vigne schemi perfetti di altri territori o aziende può portare ad errori che poi si pagano amaramente. Se si ha la grande fortuna di lavorare in un territorio vocato, la mancata comprensione delle proprie vigne è la grande discriminante fra riuscire a produrre un grande vino o meno. Gli studi di zonazione viticola servono proprio a questo, ad aiutare i produttori a fare le scelte migliori per le loro micro-realtà (non per fare graduatorie di qualità come spesso si pensa). Bolgheri è stato uno dei primi territori viticoli italiani ad avere degli studi di zonazione viticola, fatti nei primi anni '90, con una ricerca che è andata avanti fino al 2004, condotti dall'Università di Milano sotto la guida del prof. Attilio Scienza.

Torniamo quindi alla domanda iniziale. Il concetto della maggiore qualità della viticoltura di collina è nato correttamente nei territori con climi continentali o simili. Sono luoghi dove l’acqua in genere non manca, anzi sono mediamente (o molto) piovosi. In questi casi, il fondovalle o le pianure sono luoghi dove c’è abbondanza di acqua, spesso sono anche umidi o addirittura l’acqua può ristagnare nel suolo. La vite è una pianta molto rustica ma l’umidità è la condizione che teme di più. Troppa disponibilità di acqua in generale porta ad un eccesso di vigore, che è quasi sempre un limite per la qualità del vino. I climi umidi determinano anche diverse gravi malattie, come la peronospora o le muffe che colpiscono il grappolo. Quando l’umidità diventa decisamente troppo alta nel suolo, possono subentrare grossi problemi alle radici e quindi alla pianta stessa, dai marciumi fino all’asfissia radicale.

Nella mappa sono indicati i principali climi europei. La viticoltura è nata nei climi mediterranei e poi si è espansa in quelli continentali ed atlantici. Per ognuno di questi ambienti, cambiano le problematiche della vite, i vantaggi e gli svantaggi ed i metodi colturali necessari. In più, per ogni macro-ambiente climatico, ci sono ulteriori differenze per i diversi territori.

Per tutti questi motivi, nei territori caratterizzati da queste situazioni, i fianchi delle colline risultano spesso i più adatti per la vite perché sono i meno umidi e non troppo fertili. Viene scongiurato il problema dell’umidità del suolo: l’acqua scorre verso il basso, quindi i terreni collinari sono i più drenati ed asciutti. C’è anche una migliore esposizione al sole, temperature migliori e non c’è ristagno di aria umida. In passato, in realtà, la scelta ottimale della collina era spesso guidata da altre priorità. I terreni più fertili e ricchi di acqua erano riservati alle colture indispensabili per l’alimentazione, i cereali o altro. Alla vite, vista la rusticità, erano lasciati i terreni più magri e poveri, che erano spesso quelli di collina, dove era difficile riuscire a coltivarci altro.

Se queste considerazioni sono valide per territori come quelli appena descritti, non significa che però valgano ovunque! Ci possono essere zone di pianura senza grossi problemi di umidità a cui non si applicano questi concetti. Mi permetto anche di aggiungere che il cambio climatico in corso potrà portare a modificare tante certezze oggi considerate consolidate.

Vigne nella Bolgheri DOC (Photo Credits: AudreyH bit.ly/WLRlwT)

Nei territori mediterranei come Bolgheri la situazione climatica è completamente diversa. La vite qui è autoctona, questo è il suo ambiente naturale e non ha neppure tanti problemi fitosanitari. Quello che può mancare, a differenza delle zone continentali, è proprio l’acqua. Come ho ricordato più volte, la vite non ne ha bisogno di molta, ma non deve neppure mancare nei momenti importanti del ciclo della pianta, altrimenti può subire uno stress idrico che porta alla produzione di poca uva squilibrata. L’esperienza millenaria viticola insegna che la vite deve subire un leggero stress per dare l’uva migliore per fare vino. In genere, le situazioni meno qualitative nascono dai due estremi: quando la vite sta troppo bene o quando lo stress diventa troppo alto.

La vite selvatica (nella foto, a Guado al Melo) non cresce ovunque nei boschi mediterranei, ma privilegia i luoghi dove può trovare l'acqua, questa indispensabile risorsa. Qui piove poco e quasi solo nelle stagioni fresche (dal tardo autunno alla prima parte della primavera), dopo di che è molto raro. I luoghi dove si trovano raggruppate le viti selvatiche erano detti in passato "lambruscaie". Oggi è molto più difficile trovarle rispetto ad un tempo, in quanto le lambruscaie si localizzano soprattutto vicino ai torrenti, luoghi sottoposti spesso a lavori di pulizia degli argini.

In questi climi, i sottili suoli di collina possono risultare troppo poveri e limitanti per la vite, in particolare per quanto riguarda l’acqua. Nelle aree pedecollinari o di pianura i suoli sono in genere più profondi, le radici si possono sviluppare a pieno e possono trovare l’acqua anche in estate, dove si è accumulata nelle falde acquifere più profonde nel corso delle stagioni più fresche. Non c'è neppure troppa fertilità, anzi spesso c'è il problema contrario: nei climi mediterranei la mineralizzazione della sostanza organica è molto velocizzata dalle alte temperature medie. Naturalmente non è per forza così ovunque: ci possono essere zone difficili anche in pianura o favorevoli in collina. Ad esempio, ci sono aree della pianura bolgherese dove i terreni sono resi sottili da croste tufacee superficiali. Alcuni suoli sono mal drenati e letteralmente si allagano nelle stagioni fresche. Prima di decidere dove fare una vigna, è quindi essenziale l'esame macroscopico dell'area e poi della micro-situazione, col supporto degli studi di zonazione e/o di un bravo geologo.

Avrete quindi compreso che, in un clima mediterraneo secco e ventilato come il nostro, il concetto continentale di basso ed alto è abbastanza inutile per questi aspetti: in basso non ci sono i problemi di umidità e l’irradiazione solare è abbondante ovunque. Capite quindi perché la domanda giusta da porre in tanti territori mediterranei non è tanto l’altitudine delle vigne ma piuttosto la risposta del suolo alla lunga stagione arida estiva.

Nella figura si vede come varia la conformazione del suolo lungo i pendii e alla base delle colline, con diverse profondità legate all'accumulo del materiale di erosione e della direzione di movimento dell'acqua (da "Il suolo, la radice della vita" pubblicazione di APAT).

Nel nostro territorio, la posizione della vigna è importante anche per quanto riguarda i venti, che possono soffiare anche in modo intenso. Certi venti freddi (la Tramontana da nord ed il Grecale da nord-est) possono essere la causa di gelate primaverili, visto che qui la temperatura va difficilmente sotto lo zero. Quindi, sono più a rischio le zone troppo esposte, come le parti alte delle colline (dei versanti interessati) o le zone più aperte di pianura. Sono meno esposte invece le vigne delle aree pedecollinari, protette dalle colline, oppure le zone riparate da altri ostacoli naturali o artificiali come boschi, filari di alberi o altro.

La principale differenza fra collina e pianura a Bolgheri è legata alle differenze di temperature e per quanto riguarda l’escursione termica estiva fra giorno e notte. In generale Bolgheri gode di un clima mediamente più fresco rispetto ai territori vicini. Nel suo interno, le temperature medie annuali sono più basse nell’area collinare ed aumentano un po' andando verso il mare. L’escursione termica è massima nelle piccole valli fra le colline, minore sulle parti alte dei rilievi e spostandosi verso il mare. Diventa quindi importante capire quali tipologie di vini e varietà stanno meglio in ciascuna condizione, senza però dimenticare di correlare questi dati agli altri elementi descritti sopra, soprattutto alla disponibilità idrica estiva.   

Le temperature medie annuali a Bolgheri sono le più basse della costa toscana. All'interno del territorio della DOC, le più basse sono nelle piccole valli interne fra le colline, un poco più alte sui rilievi e andando verso il mare (immagine presa dagli studi zonazione viticola del territorio).

In viticoltura, il clima è inevitabilmente correlato al suolo. Capita spesso di attribuire ad alcuni suoli una maggiore valenza qualitativa. In realtà non è proprio così. Ci sono esempi in Italia ed in tutto il mondo di grandi vini su terreni di ogni tipo, da quelli prevelentemente argillosi a quelli sabbiosi o limosi. La tessitura del suolo (cioè la dimensione delle particelle del suolo, nei rapporti fra le sue diverse componenti, dalla più fine a quella più grossolana) è importante in quanto influisce sull’espressione del vino, oltre che sulle scelte di lavoro del vignaiolo. Non definisce però necessariamente livelli qualitativi diversi, solo caratteristiche sensoriali differenti. È anche vero che ci possono essere varietà che prediligono l'uno o l’altro tipo di suolo ma molte altre danno semplicemente risultati diversi. Ad esempio, in modo molto generale, si può dire che i suoli con maggiore componente argillosa spingono più verso la potenza nei vini, quelli più leggeri (più sabbiosi) verso la finezza. Dire che l’uno o l’altro sia meglio o peggio è impossibile: dipende solo dal proprio gusto personale o, al più, dalle mode gustative del momento.

Il clima è sempre correlato al suolo che può variare anche molto in un territorio, come in questo esempio (da "Il suolo, la radice della vita" pubblicazione di APAT).

Un elemento molto più interessante per capire l’equilibrio della vite (e quindi del vino), ma di cui si parla molto meno, è la profondità del suolo, cioè quanto spazio ha realmente la vite per poter sviluppare un apparato radicale performante (vedete qui e qui sulle radici). Anche in questo caso però il discorso è molto articolato. In un suolo sottile le radici si svilupperanno per forza poco, il che è sicuramente un limite nei climi meno piovosi. Nei territori dove c’è buona disponibilità idrica, invece, può essere poco importante per l'acqua, anche se può essere un limite per la nutrizione minerale. Sarà cura allora del vignaiolo capire che deve intervenire di più con la concimazione. Inoltre, il rapporto clima-suolo può variare la reale disponibilità di spazio. Ad esempio, un terreno argilloso in una zona molto arida può essere problematico per la vite, perché per buona parte dell’anno diventa duro come la pietra, riducendo di fatto la capacità di crescita delle radici.

Concludendo, ho fatto diversi esempi (non esaustivi) di come c'è molta variabilità in viticoltura che va molto oltre certi stereotipi e pregiudizi, prendendo l'esempio di Bolgheri. Spero quindi sia chiaro che, se un territorio è vocato alla viticoltura, le scelte produttive possono essere anche molto diverse, non ci sono regole che vanno bene ovunque. Esistono invece scelte giuste o sbagliate per ogni condizione particolare. Inoltre, spero di aver chiarito che le differenze fra suoli e microclimi non sono necessariamente indicativi di livelli di qualità diversi, piuttosto di necessità agricole diverse e di caratteristiche diverse che si trovano nei vini o, a volte, di una migliore predisposizione per certe varietà o tipologie di vini.

Ogni azienda che fa vini territoriali sa che in queste peculiarità delle vigne sta l’identità inimitabile dei propri prodotti e che deve conoscerli a fondo per fare le scelte giuste per esaltarle e trarne il meglio.


Giorno della Terra: a che punto siamo in viticoltura?

Oggi si celebra come anno il Giorno della Terra (Earth Day). Come ogni giornata commemorativa, lo scopo è di focalizzare l’attenzione, almeno per un giorno, su determinati temi. Purtroppo sembra che l’urgenza ambientale sia un po’ passata in secondo piano per gli eventi straordinari degli ultimi anni, dalla pandemia all’ultima guerra, questa volta arrivata alle nostre porte.

Vorrei solo ricordare che anche il nostro settore, la produzione del vino, sta cercando di fare la sua parte. Quali sono le conquiste e le strade ancora da percorrere per il vino?

Le problematiche sono ancora tante, ma la viticoltura italiana di oggi non è certo più quella di 30 o 10 anche solo 5 anni fa. Ormai un certo livello di sostenibilità è stato acquisito da tutto il comparto, anche per obbligo di legge. Sono usciti via via dall’uso i prodotti fitofarmaci più impattanti usati in passato. Ormai, c’è l’obbligo di uso di macchine distributrici anti-deriva, di un certo controllo nei trattamenti, … La parola sostenibilità è sulla bocca di tutti e tantissime aziende la applicano credendoci realmente, con gradi diversi di efficacia.  Molte usano i migliori approcci oggi disponibili, in una visione integrata e razionale che porta a non avere residui in vigna e nei vini.

Ho provato a fare un elenco (non esaustivo) delle problematiche più contingenti di oggi, almeno secondo me e la mia cerchia di conoscenti di addetti ai lavori:

  1. Più sostenibilità reale e meno slogan: tantissime aziende fanno un grande lavoro sulla sostenibilità ormai da decenni, eppure negli ultimi anni sembrano emergere nella comunicazione e sui media solo le storie più edulcorate e spesso inverosimili. Anche la politica e, ahimé, anche alcune università e centri di ricerca, sembrano aver dimenticato la razionalità nell’affrontare i problemi agricoli. Ci vorrebbero meno slogan e più sostanza. Si dovrebbero ribaltare i sistemi di certificazione attuali, più attenti alle “filosofie” e meno ai risultati reali e misurabili. Qualcosa si smuoverà in questo senso con la nuova certificazione sostenibile nazionale? Siamo fiduciosi. C’è tanto fumo, ma anche tanto arrosto!
  2. Sostenibilità delle cantine: le cantine consumano tante risorse: dall’energia per condizionare gli ambienti interni e le vasche dei vini, alla tanta acqua usata per i frequentissimi lavaggi e sanificazioni. Per fortuna ormai c’è una discreta sensibilità in questo ambito, più per il discorso energetico che per l’acqua. Tante cantine nuove sono fatte totalmente o parzialmente sotto terra, oppure ricorrono a fonti di energia alternativa, soprattutto solare. Sento invece parlare molto meno di riduzione dei consumi idrici o riciclo dell’acqua piovana. Diciamo che siamo sulla buona strada ma c’è ancora tanto da fare, soprattutto per tutti gli impianti vecchi e per chi ancora non considera la riduzione dei consumi una priorità.
  3. Uso dei combustibili fossili: purtroppo i trattori sono sempre più usati, soprattutto da certi sistemi che si spacciano per verdi ma che di fatto aumentano esponenzialmente il numero dei trattamenti (= ingressi in vigna). Qui si sta decisamente peggiorando. Uno dei cardini della viticoltura integrata è invece da sempre la riduzione dei trattamenti e degli ingressi in vigna.
  4. Varietà resistenti: se ne parla tanto ma di vini in giro se ne vedono ancora molto pochi. Non è solo una colpa. Siamo ancora agli albori di un processo di trasformazione che sarà per forza molto lungo e costoso. I tempi sono lunghi per le tecniche impiegate di incrocio tradizionale, per cui le varietà disponibili oggi sono ancora molto poche, adatte a certi climi e territori, meno in tanti altri. Inoltre, il mondo del vino ha impostato la sua comunicazione degli ultimi decenni essenzialmente sulle varietà, molto meno sui territori, rendendo difficile questa transizione. È un tema del futuro, che non deve farci dimenticare che già oggi si può e si deve lavorare in modo sostenibile.
  5. Acqua: con i cambi climatici in corso, la difficoltà principale della viticoltura del futuro sarà il corretto apporto di acqua alle vigne che, comunque, non ne hanno bisogno di molta. Diventa quindi imperativo decidere dove fare le vigne del futuro, cioè in quelle parti di territorio dove c’è abbastanza disponibilità idrica per la vite e senza quindi dover ricorrere per forza all’irrigazione. Il connubio vino-territorio diventa più importante che mai, per questo ma anche per tanti altri aspetti.
  6. Il trasporto del vino, un problema di difficile soluzione: il trasporto è uno dei tanti temi complicati per la sostenibilità. Basterà alleggerire le bottiglie? Qui i problemi sono molto più grandi e globali. Non mi sembra che sia un grande orientamento verso mezzi di trasporto delle merci più sostenibili. Mi sembra che questo resti il principale punto di domanda sul domani.

Per concludere, credo che tanto sia stato fatto finora, con un miglioramento progressivo delle tecniche di viticoltura integrata che hanno portato ad alti livelli di sostenibilità. Purtroppo, quando il tema della sostenibilità è stato inglobato dal marketing, ha fatto sì che deviasse anche verso rotte irrazionali. Nello stesso tempo però l'ha messo anche sotto i riflettori. Esistono entrambe le spinte, quella di facciata e quella più razionale, che speriamo prenda sempre più il sopravvento.


Grazie per Vinitaly

Quest'anno andare a Vinitaly ha significato tanto di più rispetto agli anni passati. Ha significato un primo tentativo di ritorno alla "normalità", dopo due anni di pandemia (anche se stiamo ancora capendo cosa sarà la "normalità" d'ora in poi).

Ad ogni modo, è stato bello poter rivedere tante persone che abbiamo avuto l'opportunità di conoscere grazie al nostro lavoro, alcune delle quali diventate nel tempo anche più che semplici rapporti lavorativi.

Grazie, grazie di cuore a chi è passato a trovarci, a chi ha continuato ad amare e portare nel mondo i nostri vini nonostante il Covid19! Grazie!

Un grazie particolare a Luca Cuzziol e a tutto lo staff di Cuzziol GrandiVini per l'organizzazione, oltre che il clima sempre "famigliare" che sanno creare.

Ecco alcune foto, che ho condiviso anche sui nostri social, per ricordare questi momenti.


Atis 2018, nuova annata 95 p.ti AIS

Non ho fatto in tempo a pubblicare la presentazione della nuova annata dell'Atis che la rivista Sommelier Toscana dell'AIS è uscita con un articolo di presentazione dei nuovi Bolgheri Superiore dove l'Atis risulta fra i migliori assaggi, con ben 95 punti.

Il 2018 per noi è l'annata in uscita da sempre, perchè abbiamo fatto la scelta fin dalle origini di questo vino, nel lontano 2003, di lasciarlo maturare per un tempo più lungo rispetto alle scelte di altre aziende del territorio che, come vedete infatti, escono ora col 2019. Sono scelte aziendali: secondo noi l'Atis è un grande vino che merita più evoluzione e complessità, che gli conferiscono ben 2 anni in legno vecchio sui lieviti e un anno di bottiglia. Non è filtrato, ma pulito dalla feccia solo con travasi. Ve lo proponiamo, quindi, perfettamente pronto da assaporare, con la capacità di evolvere per decenni.

Il 2018 è stata un'annata più fresca della media. Fra il resto, la seconda parte di settembre è stata caratterizzata da un notevole abbassamento delle temperature (da circa 30° a 20°), grazie al vento di grecale. La maturazione delle uve a temperature più miti del solito, in una situazione di sole e vento, ha determinato note uniche in questo straordinario vino.

Un'altra particolarità di questa annata speciale riguarda le uve. Vi ricordate che con l'annata 2017 abbiamo sostituito il 10% di Merlot col Rebo (leggi qui) ? Col 2018 abbiamo aumentato ancora di più questo vitigno resistente di grande interesse e perfettamente adattato al nostro territorio, arrivando ad un 15%, a discapito del Cabernet franc, che è sceso al 5%. La base principale, 80%, rimane il grande re delle nostre vigne, il Cabernet sauvignon, qui presente da oltre 100 anni.

NB Purtroppo queste immagini sono un'anteprima della rivista di qualità non eccelsa. Se volete leggere meglio i testi, collegatevi a questo link, pag. 38-39.


Raspi sì o no in vinificazione?

Vi è mai capitato di sentire parlare di vinificazione con i raspi? Viceversa, vi siete mai chiesti perché la diraspatura è la pratica prevalente nelle cantine?, Anzi, sapete che in genere si cerca di pulire il mosto da ogni resto vegetale? Ad ogni modo, la diatriba “raspo sì o raspo no” è molto probabilmente vecchia quanto il vino (o quasi).

Nella vinificazione di norma l'uva viene diraspata e poi pigiata, infatti si parla di macchine diraspa-pigiatrici (attenzione a non invertire!). La vinificazione con i raspi consiste invece nella vinificazione del grappolo intero, senza diraspatura, che viene leggermente o per nulla pigiato. Un altro sistema invece prevede che l'uva venga prima diraspata e pigiata, poi sono aggiunti i raspi nella vasca di fermentazione. Qual è la scelta migliore? O meglio, quali vantaggi e svantaggi comportano queste due pratiche?

Inevitabilmente, stando a bagno nel mosto/vino, i raspi interagiscono con esso. Posso rilasciare delle sostanze che contengono o, viceversa, assorbirne altre. Di cosa è fatto un raspo? Provate a succhiarne un pezzo e sentirete senza difficoltà che è tannico, leggermente acido e che ha un gusto erbaceo. Il raspo contiene acqua e diverse sostanze fra cui alcuni acidi organici (il tartarico e soprattutto il racemico), molti tannini, ecc. Con la lignificazione, diminuisce soprattutto la componente acida.

Nella tradizione si possono trovare entrambi i casi di vinificazione. Spesso la scelta era frutto del caso, delle pratiche tramandate localmente o conseguenza delle tecniche di pigiatura utilizzate. C'era però già una riflessione su quale sistema fosse migliore. Infatti, se andiamo a leggere i trattati viticoli di tutte le epoche, dal romano Columella fino ai nostri giorni, l’opinione più comune era che la vinificazione senza raspi fosse migliore per ottenere vini fini ed eleganti, per via dei gusti amari ed erbacei portati dai raspi. L'impiego di questi era invece considerato utile per vini da vigne giovani o per migliorare quelli un po' scarsi, comunque per vini con minori pretese di qualità. Vedremo il perché di tali affermazioni. Oggi abbiamo anche i dati di numerose ricerche scientifiche che hanno messo a confronto la vinificazione con i raspi rispetto a quella senza.

Proviamo quindi a capire quali sono i vantaggi e gli svantaggi generali della vinificazione con i raspi rispetto a quella senza. Eccovi un breve riepilogo dello stato dell’arte. Iniziamo con gli effetti secondari, per arrivare a quelli più importanti. I dati analitici che riporto sono presi dall'articolo di M. Blackford et al., “A Review on Stems Composition and Their Impact on Wine Quality” (Una rassegna delle ricerche sulla composizione dei raspi e del loro impatto sulla qualità del vino"), Molecules. 2021 Mar; 26(5): 1240.

Migliora la fermentazione?

Un primo effetto positivo spesso ricordato nella vinificazione con i raspi è che si ha una fermentazione migliore. Dalle prove fatte, è infatti possibile verificare un andamento generale un poco più favorevole. Si pensa che questo effetto possa essere dovuto alla quantità aggiuntiva di lieviti che i raspi portano sulla loro superfice, oltre per la capacità di intrappolare fra le loro asperità una certa quantità di aria che favorisce la vitalità dei microorganismi. Inoltre, la massa dei raspi sembra limitare un po’ gli sbalzi termici durante la fermentazione, il che favorisce la sopravvivenza dei lieviti fermentatori.

Tuttavia, si è visto che la maggiore presenza di ossigeno favorisce anche lo sviluppo di microorganismi indesiderati. La conseguenza più evidente è che si ha in genere un'acidità volatile più elevata. Inoltre, in presenza di uve non proprio perfette, con un po’ di muffa, la vinificazione con i raspi sembra accentuare la gravità degli effetti sul vino, la cosidetta alterazione ossidasica (anche se non è chiaro il perché).

L’effetto diluente e adsorbente

I raspi a bagno nel mosto/vino possono rilasciare dell’acqua, con un effetto diluente sugli altri componenti del vino. L’acqua rilasciata è in realtà minima sulla massa del mosto. Che sia questo o per altri motivi, nelle ricerche fatte si evidenziano delle differenze nella composizione del mosto/vino, alcune minime ed altre più importanti. Vediamo quali.

Nella vinificazione con i raspi rispetto a quella senza, si è misurato un lieve aumento del pH (nei vari studi varia dall’1% al 9%) ed una diminuzione dell’acidità (2%-15%), non sempre però confermata in tutti gli studi e per tutte le varietà. La variazione dell’acidità potrebbe dipendere dalla diluizione ma non solo. Si pensa che ci sia anche un’azione sui fenomeni che inducono la precipitazione dell’acido tartarico. Infatti, i raspi incrementano la presenza di sali (soprattutto potassio, ma anche calcio e fosforo), che si legano al tartrato e ne favoriscono la precipitazione. In alcuni studi si sono viste lievi variazioni anche di altri acidi.

Si sente spesso dire che la vinificazione col raspo abbia l’effetto (oggi considerato positivo) di abbassare il contenuto alcolico del vino. C’è chi lo ha correlato sempre alla diluizione, ma anche ad un possibile effetto di adsorbimento delle molecole di etanolo da parte della struttura del raspo. Tuttavia, dagli studi fatti, non si sono visti risultati così eclatanti: in alcuni casi la variazione è nulla, in altri lieve (varia dal 1% al 8%). Credo che abbia molto più senso lavorare bene in vigna per avere equilibri produttivi adeguati.

I raspi sembrano invece avere un effetto sulla diminuzione del colore del vino (rosso), più o meno evidenti a seconda delle varietà. Diminuiscono le antocianine dal 1% al 22%, così come l’intensità del colore (dal 7% al 33%), In particolare, si accentuano i riflessi giallastri in invecchiamento. Anche qui le ipotesi sulla causa sono diverse, forse sommate fra di loro: la diluizione, l’adsorbimento del colore e le variazioni del pH.

Gli effetti più marcati: aromi e tannini

I raspi rilasciano degli aromi che non sono proprio fra quelli più gradevoli. Le analisi chimiche confermano l’aumento soprattutto dei composti pirazinici, che danno note vegetali. Gli studi sugli aromi non sono facili. Come ho già scritto in precedenza, anche se si analizza la presenza e la concentrazione delle molecole aromatiche di una miscela complessa come il vino, non è poi comunque semplice prevederne la percezione olfattiva. Dall’analisi sensoriale, i vini vinificati con i raspi sembrano avere toni meno fruttati (frutta fresca), mentre aumentano le sensazioni di frutta cotta, di erbaceo e di spezie. C’è chi parla di maggiore complessità, ma rimane il dubbio sulla piacevolezza, che comunque è un elemento sempre molto personale.

L’effetto sul gusto del vino sembra invece essere più definito. Negli studi fatti si è visto che la vinificazione con i raspi aumenta la sensazione di astringenza e di amaro nei vini. Infatti, arriviamo finalmente all’evento più rilevante di tutti nella vinificazione con i raspi: il rilascio di una maggior quantità di polifenoli totali, in particolare dei tannini. Il rilascio dei tannini non è sempre uguale ma comunque importante, dal 20% al 80% a seconda del vitigno, della temperatura e della durata della macerazione. L’incidenza dei tannini del raspo è inversa alla durata della macerazione: più essa è lunga, più diventano preponderanti i tannini delle bucce. Se la macerazione è breve invece, i tannini del raspo diventano (logicamente) i più importanti nel vino. Siamo quindi arrivati a capire il motivo principale per cui si considerava utile in passato, in certi casi, la vinificazione con i raspi: soprattutto, il rilascio di tannini nei vini rossi.

I tannini dell’uva si trovano soprattutto nella buccia dell’acino e sono rilasciati nel vino nel corso della macerazione. A volte però il tannino manca, perché si usano uve di scarsa qualità (per i motivi più disparati: perché coltivate in luoghi non vocati, coltivate male, per annate poco favorevoli, vendemmie fatte al momento sbagliato, ecc.), oppure perché si usano vitigni che ne sono naturalmente poveri. Storicamente, dalle testimonianze dall’epoca romana fino ai nostri giorni, si sono sempre cercati dei sistemi per aggiungere tannini ai vini che ne sono sprovvisti. Fin dall’antichità si era però anche capito che i tannini vegetali non sono tutti uguali. Usare un tipo piuttosto che l’altro comporta una notevole differenza finale di gusto nel vino. Nel raspo sono presenti molti tannini di un certo tipo chimico (catechinico) simile a quelli dei vinaccioli e di tutte le altre parti verdi della pianta. Rispetto a quelli “nobili” della buccia dell’uva, sono più ruvidi in bocca, molto più erbacei ed amarognoli. Inoltre, hanno una tendenza ossidativa molto più spiccata.

Galle di quercia, causate da imenotteri della famiglia dei Cinipidi

In passato, il tannino considerato migliore da aggiungere al vino era quello delle galle delle querce. Se passeggiate vicino a questi alberi, potrete facilmente vedere strane escrescenze su diverse parti della pianta (rami, fusto, ecc.). La galla si forma a seguito dell’aggressione di un parassita per proliferazione incontrollata dei tessuti cellulari. La pianta reagisce accumulando in quel punto delle sostanze di difesa, i tannini appunto. L’uso dei tannini delle galle è antichissimo e continua ancora oggi, anche se ormai si usano prodotti purificati che possono avere anche costi molto elevati. Invece, i raspi erano considerati sistemi più alla buona per aggiungere tannini. A volte si usavano anche le foglie, con effetti nel vino decisamente ancora meno eleganti. Questi sistemi erano comunque tollerati e consigliati per la grande massa dei vini senza troppe pretese.

Abbiamo però bisogno oggi di aggiungere tannino al vino? Eccoci alla domanda fondamentale! In una produzione artigianale, grazie alle conoscenze odierne, in un territorio vocato alla vite, è necessario “aggiustare” i vini quando sono frutto di un lavoro poco curato o inesperto in vigna e in cantina. Secondo noi, l’aggiunta di tannino, qualunque sia la sua origine, rimane qualcosa di estraneo alla produzione di un vino di territorio. Non credo che ci sia concettualmente molta differenza se viene fatto con i raspi o con un tannino di quercia purificato.

Roy Lichtenstein, 1972, "Blue grapes"

Vita di cantina: dallo sgranellare a mano fino alle macchine diraspatrici

Con l'evoluzione delle pratiche di cantina dell'Ottocento, non solo non si volevano i raspi in fermentazione, ma neppure nella fase di pigiatura. La diraspatura iniziò a diventare una pratica qualitativa descritta nei testi di viticoltura, effettuata nelle (allora poche) cantine che cercavano di produrre vini più ricercati. In seguito è diventata sempre più comune.

La diraspatura era fatta facendo roteare un tridente in una tinozza riempita a metà con l'uva (illustrazione d'epoca).

Un sistema antico molto grossolano per la diraspatura, antenato (almeno nel concetto) delle macchine moderne, era quello di far roteare in una cesta di uva un bastone ramificato. Nelle aziende più evolute si preferiva un sistema più laborioso ma delicato, cioè quello di staccare gli acini a mano. Si diceva “sgranellare”. Per ovvi motivi, si riservavano queste cure costose ai pochi vini di alto valore.

Tavolo di diraspatura ottocentesco a graticcio (illustrazione d'epoca)

Le prime macchine meccaniche, prima solo pigiatrici, poi anche diraspa-pigiatrici, furono a lungo viste con sospetto per l’azione troppo distruttiva sul grappolo. Quelle che usiamo oggi sono frutto di una notevole evoluzione che, nel tempo, ha spinto sempre più verso la capacità di agire in modo delicato, riuscendo a staccare accuratamente le bacche dal raspo senza strappare o tagliuzzare i pedicelli e le altre parti verdi. Le macchine odierne hanno anche la capacità di pigiare molto poco l’acino stesso.

Nella produzione del vino bianco, dove il gusto è molto più delicato ed il vino si altera molto più facilmente, diventa ancora più rilevante la necessità di non portarsi inutilmente gusti amari ed astringenti, oltre che tannini facilmente ossidabili. Molti vignaioli artigiani, come noi, non pressano il grappolo intero nella vinificazione in bianco, ma prima praticano la diraspatura. Dopo di che, per essere assolutamente sicuri di eliminare tutti i pezzettini di foglie o raspi o altro, viene fatta anche la pulizia del mosto per sedimentazione spontanea. Basta lasciare il mosto una notte al fresco della cantina per far sì che i torbidi precipitano sul fondo della vasca. Il mosto viene quindi prelavato dall’alto, senza smuovere il fondo, e trasferito in un nuovo contenitore per la fermentazione.

In definitiva, avrete capito che noi non vinifichiamo con i raspi e anche il motivo. Il vino per noi si fa con l’uva, con i suoi equilibri unici che nascono in vigne vocate, grazie anche a tanto lavoro per ogni singola pianta. I raspi apportano qualcosa di estraneo al frutto, neppure tanto piacevole, che preferiamo non avere. Oltre tutto, abbiamo un territorio che dona già tanto ai nostri vini, sia come gusto che come aromi, non vediamo nessuna necessità di aggiungere qualsiasi cosa. Ciò non toglie che in altri situazioni non si possa ritenere utile l'apporto dei raspi per i propri vini, dando più peso ai vantaggi piuttosto che agli svantaggi.

I raspi sono comunque importanti nel ciclo aziendale, non sono solo scarti: dopo la diraspatura li mettiamo nella nostra stazione di compostaggio, dove contribuiscono a formare un compost vegetale perfetto per la concimazione delle vigne.

Per approfondire:

Riberaux-Gayon et al. “Trattato di scienza e tecnica enologica”, ed. AEB Brescia, 1980.

M. Blackford et al., “A Review on Stems Composition and Their Impact on Wine Quality”, Molecules. 2021 Mar; 26(5): 1240.

NB: alcune immagine le ho trovate sul web: sono disposta a rimuoverle nel caso qualcuno avesse a risentirne dell'uso.

Le illustrazioni d'epoca vengono da libri antichi della nostra biblioteca sul vino.


Ecco L'Airone 2021

Diamo il benvenuto alla nuova annata dell'Airone che apre, come ogni anno, le nostre nuove uscite. L'Airone è il nostro bianco che esprime tutta la freschezza del Vermentino, varietà perfetta per il nostro clima marino, che sopporta molto bene il vento ed il caldo di un clima mediterraneo-mite come il nostro. Questa varietà è presente sulla costa toscana e, in generale, quelle tirreniche, da secoli, anche se la sua provenienza è incerta.

Dell'ultima vendemmia ho già parlato a lungo: come saprete, l'abbiamo giudicata un'ottima annata. E' stata siccitosa ma le nostre vigne non hanno mostrato sintomi di sofferenza idrica, perchè invece aveva piovuto in abbondanza in inverno. E' stata calda ma senza eccessi e molto ben ventilata. L'uva era favolosa, perfetta e sana.

Ha come al solito ottimi profumi, che in questa fase giovanile ricordano soprattutto gli agrumi tipici del Vermentino, in particolare il pompelmo. A questi si aggiungono delicati aromi di salvia. Ha lievi punte di frutta esotica, come ananas e frutto della passione. In bocca è molto fresco e piacevolmente leggero, leggermente sapido, con discreta lunghezza. Attenzione però: un vino artigianale è vivo e stando in bottiglia evolverà nei mesi. Potrete sentire aumentare alcuni aromi, come quelli di frutta esotica, aggiungersene altri come i fiori bianchi, leggeri sentori di miele e di crosta di pane, ...

E' un ottimo vino da bere fresco, direi intorno ai 10°-12°C. Appena tolto dal frigo, saprà di poco. Aspettate un po' prima di berlo, che si scaldi leggermente. Questo vino è giovane, ma dategli comunque qualche minuto dopo la stappatura, per aprirsi per bene.

E' perfetto come aperitivo ma anche per accompagnare piatti non troppo intensi. Ad esempio, posso suggerirvi di berlo con i classici spaghetti alle vongole, una frittura di pesce oppure di verdure, una frittatina alle erbe aromatiche, un tortino di verdure primaverili, ...

Se non lo bevete subito, mi raccomando la conservazione! Non è proprio il massimo tenere un vino alla luce (peggio che mai sotto ad un faretto!), a temperatura ambiente o al caldo, ma neppure dimenticarselo in un frigorifero per mesi. Tutte queste situazioni lo scombinano, ne alterano i profumi ed il gusto, possono causare precipitazioni di piccoli cristalli (niente che fa male, è solo il tartrato di potassio dell'uva). Questo succede perchè è un vino artigianale: non facciamo stabilizzazioni chimiche o filtrazioni intense, c'è anche il minimo di solforosa possibile. Conservatelo con rispetto: a bottiglia sdraiata (in piedi è OK solo se lo bevete a breve), in un luogo fresco (circa 10°-12°), al buio.

Ecco qui sotto la scheda, qui in formato PDF, che trovate anche sulla pagina dell'Airone, che ho appena aggiornato.


A Lugano, il 3-4 aprile, torna Vinissima di Tamborini Vini

Tamborini Vini è il nostro importatore e distributore per la Svizzera e ogni anno organizza una bella manifestazione per presentare i vini ai clienti. Quest'anno torna finalmente, dopo la pausa imposta dal Covid. Noi ci saremo: vi aspettiamo!

Ecco la loro presentazione:

Vinissima 2022 torna il 3 e 4 aprile dopo due anni di “stop” nella storica cantina ticinese Tamborini Vini di Lamone. L’evento nasce come appuntamento annuale per gli appassionati, i curiosi e gli operatori del mondo enologico per degustare vini e distillati di produzione Tamborini e delle cantine importate. Saranno presenti infatti 35 produttori italiani e francesi che vi presenteranno con competenza e passione più di 150 tra vini e distillati. Vinissima rappresenta anche un’occasione unica per conoscere le novità di produzione Tamborini e il nuovo listino prodotti 2022.

“New entry” dell’edizione 2022 sarà l’angolo bar con degustazione di cocktail, show mix e workshop a cura del bartender Roger Docourt. Saranno presenti anche dei Food Truck per poter accompagnare al vino ottimo cibo.

Per tutti gli acquisti effettuati durante l’evento dai visitatori, verrà applicato uno sconto speciale.


Fra Medioevo e Rinascimento: l'alba di una nuova geografia viticola italiana

Nel corso del Trecento si impose un altro vino orientale di lusso, col nome di Malvasia, commercializzato dai veneziani. Sembra che il nome derivasse dal luogo in cui era stoccato, Monembasia, un porto del Peloponneso, mentre la produzione sembra che avvenisse soprattutto a Creta. La Malvasia era un vino ancora più forte, liquoroso e dolce dei precedenti (si pensa fra i 16° ed i 18° alcolici). Divenne il vino più nobile dell’epoca in tutta Europa. Venne imitato ovunque in Italia. Da qui il lascito delle tante varietà attuali che conservano il nome Malvasia (Malvasia nera, nera di Basilicata, nera lunga, bianca, bianca lunga, bianca di Candia, bianca di Basilicata, di Casorzo, delle Lipari, di Sardegna, di Schierano, Istriana, ecc.). Non hanno necessariamente parentela fra loro. Devono il nome, molto probabilmente, solo al fatto che erano usate localmente per produrre questa tipologia di vino.

Nel Trecento arriviamo alla maturità dell’epoca comunale, esemplificata nell’affresco del "Buongoverno" di Ambriogio Lorenzetti (1338-1339. Palazzo del Buonconsiglio, Siena). In questo particolare, si mostra il perfetto paesaggio agrario suburbano, frutto della disciplina collettiva, fatto di campi ben coltivati in modo intensivo, strade vicinali e poderali. Allontanandosi dalla città, entrando nel contado, tutto è più sfumato, gli spazi sono più ampi, ma comunque anche qui non mancano i segni dei tempi nuovi: fattorie, carri, strade, mulini ad acqua, …

Come scritto nel post precedente, quasi tutti i vini italiani fino al Duecento erano anonimi e distinti solo per il colore (il bianco, album, il rosso, vermilium, …), per il sapore (dulce, bruscum, …), dalla zona di produzione (vinum de plano, vinum de monte). Col Trecento, emersero sempre più dei vini locali che si distinguevano per la qualità, anche se non imitavano i vini orientali. Erano vini che non uscivano dal consumo locale, al massimo regionale. Non erano di lusso, ma iniziavano a spuntare costi maggiori, alla portata di persone benestanti. Erano anche i più consigliati nei trattati di medicina, che spesso disdegnavano quelli di lusso perché troppo pesanti e sovraccarichi. Questi vini iniziarono pian piano ad avere un nome, che poteva essere legato alla zona di produzione o altre caratteristiche. Fra questi ricordiamo i diversi Moscatello, prodotti in varie zone d’Italia, il Nebbiolo e l’Arneis piemontesi, il Razzese ligure, il Groppello lombardo, lo Schiavo lombardo-veneto, il Garganigo ed il Marzemino veneti, il Refosco friulano, il Chianti toscano, dalla Campania il Lacrima ed il Fiano, il Gaglioppo del sud, ecc. Alcuni erano una sorta di clonazione locale dei vini di lusso, come la Vernaccia di Cellatica (vicino a Brescia), la Vernaccia di San Gimignano, la Ribolla di Imola, il Greco di Corsica, il Greco di Velletri, la Malvasia e la Vernaccia sarde.  

L'alba delle varietà moderne. Non ha grande senso cercare vini e varietà attuali nel Medioevo, anche se a volte si ritrovano gli stessi nomi. In mezzo ci sono troppi secoli e tante probabili trasformazioni. Il Medioevo, come l'epoca antica, fu un momento in cui viaggiavano i vini ma anche molto le varietà, per il Mediterraneo e per l'Europa, con anche la possibilità di incroci con i vitigni locali. Questi scambi sono raccontati, ad esempio, nelle "Trecentonovelle" (1390) di Franco Sacchetti. Si legge che in Italia c'era così tanta voglia di produrre grandi vini che i produttori cercavano di accaparrarsi le migliori varietà di uve da ogni parte, recuperando le barbatelle (magliuoli) direttamente o sfruttando la rete di contatti offerta dalla Chiesa. Sacchetti riporta ad esempio che il nobile fiorentino Vieri de' Bardi si fece mandare nella sua proprietà di Antella (Bagno a Ripoli) delle barbatelle da Portovenere, con le quali si produceva la celebre Vernaccia di Coniglia. "Tanto è grande lo studio di vino che da un gran tempo in qua gran parte dell’Italiani hanno si usato ogni odo d’avere perfettissimi vini che non si sono curati di mandare, non che per lo vino, ma per li magliuoli d’ogni parte; acciocché ognora se li abbino veduti e usufruttati nella loro possessione, e perché siano stati chierici, non hanno auto il becco torto. Fu, non è molti anni, un cavaliere ricco e savio nella città di Firenze, che ebbe nome messer Vieri de’ Bardi, il quale era vicino al piovano all’Antella, là dove un suo luogo dimorava spesso. E veggendosi in grande stato, per onore di sé e per vaghezza nel suo alcuno nobile vino straniero, pensò di trovare modo di far venire magliuoli da Portovenere della vernaccia di Coniglia".

Dalla metà del '300 ai primi del '400 circa, ci furono alcune importanti trasformazioni, che mutarono ancora una volta in modo significativo la geografia viticola italiana.

Da un lato iniziò a peggiorare sempre più il clima, dopo il periodo caldo medievale che aveva favorito il boom della viticoltura. Iniziava quel periodo di freddo chiamato la "Piccola Era Glaciale", che sconvolgerà tutta l’Europa con una crisi agricola generale. Le prime carestie contribuirono alla diffusione delle epidemie come la Peste Nera che, dal 1348, portò alla decimazione delle popolazioni. La crisi fece diminuire in generale l'agricoltura, fra cui anche la viticoltura. Inoltre, il freddo la fece proprio sparire da tutti quei territori dove il clima era ormai diventato un limite insormontabile.

In questo grafico si vede come è cambiata la temperatura media europea nel corso del Medioevo. Dopo il periodo di caldo medioevale, nel corso del '300 il clima iniziò a diventare sempre più rigido, anche se il picco peggiore di freddo verrà dopo (fra il '500 ed il '600). L'immagine è presa da "Estimating the Contribution of The Industrial Revolution to 20th Century Warming", December 11, 2018 by Jennifer Marohasy
La Peste Nera (1343-1353) trasformò radicalmente la società dell'epoca. Si è stimato che siano morte circa 20-25 milioni di persone in Europa, che allora contava circa 70 milioni di abitanti. Colpì però in modo diverso fra le diverse zone. Ad esempio, a Milano si stima che siano morte 1-2 persone ogni 10, a Firenze 8 ogni 10.

Il vino fra ubriachezza, beffe e piacere. La Peste Nera, come saprete, fa da sfondo al Decamerone del Boccaccio, da cui ho tanto attinto finora, in quanto è la massima opera medievale che parla molto spesso di vino. Come sapete, il Decamerone è composto da un serie di novelle che un gruppo di giovani nobili fiorentini, sette ragazze e tre ragazzi, si raccontano a turno per passare il tempo nella villa di campagna dove si sono rifugiati per sfuggire al contagio. Nell'introduzione, Boccaccio descrive le bellezze di tale dimora, fra cui le cantine, ricche di vini pregiati che, secondo lui, sono più adeguate a "buoni bevitori che a savie e oneste donne". Nel Medioevo, le donne di buona reputazione non dovevano mai lasciarsi andare troppo. L'eccesso di vino era comunque deprecato per tutti, sia per la morale che per la salute. Eppure le novelle del Boccaccio sono molto poco moraliste e spesso semi-serie: l'ubriachezza è fonte di inganni o di beffe, mentre le donne intelligenti riescono spesso a vincere le avversità della vita.

La storia di Alatiel. La bella Alatiel, figlia del sultano di Babilonia, viene mandata dal padre in sposa al re del Marocco. Inizia per lei un lungo viaggio per il Mediterraneo, nel corso del quale viene rapita e violata da diversi uomini. Il primo, Pericone, pensa di farla cedere col vino. "Poiché si era accorto che a lei piaceva il vino, a cui non era abituata perché la sua religione le impediva di berlo, pensò di farla cedere, con l’aiuto del vino e di Venere. Una sera la invitò ad una festa e ordinò al coppiere di servirle un bicchiere di vari vini mescolati tra loro. Bevuto l’intruglio, la donna, dimenticando le sventure passate, divenne lieta e vedendo alcune donne ballare danze spagnole, ballò anche lei alla maniera alessandrina. Così trascorse quasi tutta la notte, tra vini e danze. Allontanatisi i convitati, l’uomo, che era molto robusto ed energico, entrò nella camera da solo con la donna, che più calda di vino che di onestà, si spogliò e si coricò." Alla fine della storia, la ragazza riesce a tornare a casa, ma la sua vita sarebbe stata compromessa da tante disavventure, per la morale del tempo. Riesce però a convince il padre di essere stata accolta tutto quel tempo in un convento e così sposa comunque il suo fidanzato.

Nella novella di Tofano e Ghita, il ricco Tofano è molto geloso della bella moglie Ghita. Il suo tormento spinge infine la donna a corrispondere ad un giovane spasimante. Così Ghita prende l'abitudine di far ubriacare il marito, per far "poi il piacer suo mentre egli addormentato fosse". Una notte, mentre lei torna da un incontro con l'amante, il marito la chiude fuori di casa per svergognarla di fronte ai vicini. La donna minaccia allora di suicidarsi, dicendogli che poi avrebbero dato la colpa a lui. Favorita dal buio, getta quindi una pietra nel pozzo. L'uomo, preoccupato, corre fuori a guardare. Ghita, svelta, entra in casa e chiude fuori il marito. La situazione si inverte comicamente: Tofano inizia ad inveire ed urlare, svegliando il vicinato, mentre Ghita grida a tutti che il marito si ubriaca sempre e passa la notte nelle taverne. La cattiva condotta di Tofano si diffonde ed arriva anche alle orecchie dei parenti di Ghita, i quali picchiano l'uomo e portano via la donna. Alla fine della storia, Tofano capisce che tutto l'accaduto è partito dalla sua folle gelosia e si pente. Convince la moglie a tornare, con la promessa che lei potrà fare tutto quello che vuole, a patto che lo faccia con discrezione.

Fra la fine del '300 e l'inizio del '400 ci fu anche un cambiamento epocale nei commerci, chiamato la “rivoluzione dei noli”. Fino ad allora il commercio del vino era limitato ai prodotti più cari, oltre che conservabili, perché i costi di spedizione erano calcolati essenzialmente in base al volume occupato dalla merce sulla nave. Le botti di vino occupano parecchio spazio. In proporzione, costava meno trasportare ad esempio pietre preziose. La rivoluzione dei noli introdusse invece l'uso di calcolare il costo tenendo anche conto del valore intrinseco della merce. Il vino ne trasse un grande giovamento e, di conseguenza, ci fu un aumento importante del suo commercio che divenne generalizzato.

Come detto, fino ad allora la vite si coltivava praticamente ovunque in Italia, per avere vino a disposizione per la comunità e, salvo i prodotti di lusso, il consumo dei vini comuni era essenzialmente locale. Quando i trasporti diventarono più convenienti, tanti più vini cominciarono a viaggiare. Il commercio fu facilitato anche dalla nascita di entità politiche più grandi, anche regionali, il che abbassava il numero dei dazi negli spostamenti e quindi il prezzo finale al consumatore. Inoltre, nelle zone più ricche del Nord e del Centro Italia, ci fu un anche un miglioramento delle strade. Le persone si ritrovarono quindi ad avere a disposizione sempre più un'ampia scelta e si orientarono sempre più sul consumo dei vini migliori, non per forza quelli locali.

Tutti questi eventi contribuirono a mutare in modo importante, ancora una volta, la geografia italiana del vino. La viticoltura si ridusse in generale e, in particolare, diminuì o scomparve da tutti quei territori poco o per nulla vocati. Al contrario, crebbe invece sempre più in quei distretti considerati di maggiore qualità, dove il rendimento economico divenne sempre più rilevante, come la Toscana, l’Oltrepò pavese, i colli veneti, l’Istria, i Castelli Romani, la Puglia, la Calabria, le Langhe, ecc. Non era per forza più necessaria l'alta gradazione alcolica dei vini orientali (o fatti in quello stile), ottenuta per appassimenti o concentrazione. Bastava fosse una buona gradazione, derivata da un territorio vocato alla viticoltura, sufficiente perché i vini si conservassero abbastanza bene, preservandone la piacevolezza ed i profumi.

Aumentando la commercializzazione, aumentò sempre più la necessità che i vini fossero riconoscibili, con identità precise. Non si parlò quasi più solo di vino rosso o bianco (o poco più), ma i nomi dei vini iniziarono a diventare una prassi comune. Derivavano spesso dalla tipologia del prodotto, spesso unito al luogo di produzione o, in altri casi, a quello di stoccaggio o distribuzione, raramente delle uve. Iniziarono ad essere sempre più citati i territori particolarmente vocati, a volte anche le singole vigne di grande qualità. Ad esempio, nel catasto fiorentino del 1427 sono identificate 106 diverse località produttrici di vino intorno alla città.

Non pensiate però che ci fosse una grande chiarezza, come oggi. La situazione era ancora molto confusa, sia per l’epoca che per gli studiosi moderni che hanno cercato di decifrarla, perché con lo stesso nome e provenienza si trovano anche vini con caratteristiche molto diverse fra loro (bianchi e rossi, vini dolci e non, ecc.). Siamo ancora ben lontani da una geografia del vino ben precisa e delineata. Possiamo dire che iniziava a prendere forma.

Sul finire dell’età dei Comuni e l’inizio del Rinascimento si portò ancora più avanti la trasformazione del paesaggio agrario. Se prima rimanevano spazi ancora selvaggi, ora non più: si completò quel reticolo di campi e colture sulle colline e nelle pianure, almeno nei territori più ricchi della penisola. Adorazione dei Magi, 1423, Gentile da Fabriano, dettaglio.

 Nel Quattrocento il consumo del vino era ormai molto evoluto. Si iniziavano a distinguere e conoscere i vini per le peculiarità organolettiche e culturali, oltre che per gli abbinamenti col cibo. Nacquero in quel periodo anche i primi trattati di cucina.

A metà ‘400 crollò l’Impero Bizantino, scomparve il commercio genovese col mondo del Mediterraneo orientale, mentre quello veneziano si ridusse notevolmente. Crollò in parte il prestigio dei vini orientali o orientaleggianti, molto dolci, aromatizzati ed alcolici. Non se ne perse comunque il gusto, soprattutto nei banchetti e nelle cerimonie. Si impose però una nuova tipologia di vino di lusso, quello proveniente da un territorio vocato, secco, non eccessivamente alcolico, bianco o rosso, gradevolmente profumato. Erano vini giovani, in quanto i processi d’invecchiamento torneranno ad essere “scoperti” solo qualche secolo più tardi. Del Rinascimento però parleremo meglio un'altra volta.

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