“Da dove potremmo meglio cominciare se non dalla vite, rispetto alla quale l’Italia ha una supremazia così incontestata, da dar l’impressione di aver superato, con questa sola risorsa, le ricchezze di ogni altro paese, …?” Plinio
Oltre a Plinio, anche Orazio racconta che i Romani consideravano la viticoltura come una delle più grandi risorse economiche della nazione. Catone la pone al primo posto fra le colture per redditività. Non ci stupisce: l’Italia è la terra di elezione della vite e ancora oggi ne ha il primato produttivo.
Penserete: cosa si può dire della viticoltura romana che non è già stato detto e ridetto?
Sebbene sia stata ben descritta dai Rustici Latini (le nostre fonti: vedi qui), esaminata in lungo ed in largo da studiosi di tutti i secoli, la viticoltura romana è stata spesso travisata, per malintesi linguistici e culturali. Questo fatto ha fatto perdere spesso la percezione di quello che è il suo tratto originario ed assolutamente distintivo: la coltivazione della vite maritata all’albero (o vite alberata) di matrice etrusco-laziale, forma che rimarrà in Italia fino alla prima metà del Novecento. Questa forma di coltivazione è presente anche in altre culture antiche ma in Italia ha rivestito un ruolo particolarmente importante e duraturo per millenni.
La viticoltura a Roma, come per quasi tutti i popoli italici, si perde nella storia. Fin da quando l’uomo ha calpestato le nostre terre, ha da sempre raccolto le uve selvatiche nei nostri boschi mediterranei. A Roma il passaggio verso la viticoltura vera e propria sembra sia avvenuto per influenza etrusca. Sulle origini della viticoltura in Italia ho già parlato in modo più approfondito qui.
La viticoltura originaria romana era quindi la stessa degli Etruschi, un sistema d’allevamento basato sul modo naturale di crescita della vite. Nel bosco infatti essa usa gli alberi come sostegno per raggiungere la luce. In Etruria si utilizzavano soprattutto aceri, a Roma soprattutto olmi. In latino questo sistema di coltivazione era detto arbustum vitatum (vite alberata), col vitatum spesso omesso. Più poeticamente, era usato anche il termine vitis maritae, viti maritate (all’albero). Ho già descritto più in dettaglio questi aspetti qui.
Se vogliamo quindi immaginarci il classico paesaggio agricolo dell’epoca romana, dobbiamo pensare ad una campagna con viti maritate ad alberi disposte a filari o a quinconce (come il numero 5 su un dado), con strisce di terreno intermedie dove si seminava il grano (o altre colture). Naturalmente non mancava l’olivo.
Non è un mondo agricolo così distante da noi, anche se oggi dimenticato. Ancora ad inizio Novecento, il vino Chianti era prodotto da un modello di viticoltura molto simile, ben raffigurato in quest’opera di Raffaello Sorbi (1893): vigne con viti maritate (sistema detto in Toscana “testucchio”), alternate a strisce di grano o altre colture, gestite da coloni in mezzadria. Erano identici anche i buoi con la museruola (la consiglia anche Plinio, poi vedrete).
Solo più tardi Roma ingloberà anche la viticoltura di origine greca, la vigna bassa, con l’alberello senza sostegno o con un sostegno “morto” (il palo), portando poi avanti entrambe.
Lost in translation.
Mi rifaccio al titolo di un noto film di diversi anni fa, Lost in traslation (perso nella traduzione), che rende bene l’idea di quello che è successo con la viticoltura dell’antica Roma, spesso travisata per problemi di traduzione o culturali.
Purtroppo è anche colpa nostra. L’Italia moderna del vino non si è curata molto del suo immenso patrimonio storico-culturale, occupandosene solo in modo superficiale. Spesso la narrazione della storia del vino (compresa la nostra) in epoca moderna, è stata lasciata in mano ad autori estranei alla nostra cultura, che non avevano gli strumenti sufficienti per capirla.
La viticoltura romana è stata quindi spesso identificata solo con la vigna bassa. Studiosi o divulgatori estranei alla cultura italiana e/o senza competenze agrarie approfondite non conoscevano neppure l’esistenza della vite maritata all’albero. Altri l’hanno considerata assolutamente secondaria, una forma primitiva di scarso interesse, soppiantata presto dalle tecniche di prevenienza greca, considerate più avanzate. Ogni volta che veniva trovato il termine vigna (vinea) negli autori latini, si dava per scontato che ci si riferisse alla vigna bassa. Hugh Johnson, ad esempio, cita l’esistenza della vite alberata ma scrive che “gli autori antichi non ne parlano mai” (sic!).
Il termine latino specifico per la vite alberata, arbustum, è stato ampiamente frainteso, tradotto spesso come bosco. Apollinaire lo traduce come bouquet d’arbre, boschetto, così come diversi autori tedeschi (Jungholz) ed anglosassoni (plantation of trees). Così succedeva che non ci si accorgesse dell’assurdità di far dire a Varrone, per esempio, che da quel “bosco” si producevano certe quantità di vino e di grano!
Della vite alberata non parlano solo gli autori più agrari ma anche i poeti, (cosa che non succede con la vigna bassa). In Catullo, nei Carmina, la vite e l’olmo sono descritti come moglie e marito. Nell’epoca augustea è citata spesso da Virgilio ed Orazio, ma chi ne parla più di tutti è Ovidio, che la usa frequentemente come metafora d’amore negli Amores, nei Fasti, Heroides, Tristia e nelle Metamorfosi, nella storia di Vertumno e Pomona (vedete qui).
Come già accennato in precedenza sull’origine della viticoltura in Italia (qui), solo negli ultimi decenni ci sono stati diversi studi multidisciplinari (fra archeologia, linguistica e viticoltura) che hanno cercato di fare più luce sulle nostre origini viticole. Soprattutto è stato il lavoro di Paolo Bracali dell’Università di Perugia che ha chiarito il significato dei termini latini legati alla vigna ed il loro cambiamento nel corso della lunga storia romana.
Vinea o arbustum?
Catone, il primo dei Rustici Latini, è abbastanza chiaro quando scrive che per realizzare bene una vigna è necessario “che gli alberi siano ben maritati alle vite e che queste siano in numero sufficiente”. La vigna, dalle origini ed ancora nella sua epoca, era fatta solo da viti maritate agli alberi. Egli la indica col termine generico vinea o, quando vuole sottolineare la forma di allevamento, quello più specifico di arbustum.
[one_third][info_box title=”” image=”” animate=””]*Cicerone racconta la storia di Atto Navio, giovane guardiano di porci dalle capacità divinatorie. Un giorno perse una scrofa in una vigna e fece voto a Giove, se l’avesse ritrovata, di offrirgli il grappolo più grande. Così successe e, per adempiere al voto, suddivise la vigna in diverse parti ed interpretò il volo degli uccelli per ciascuna, secondo gli usi divinatori di derivazione etrusca. Così facendo trovò un grappolo di incredibile grandezza e bellezza, da donare al dio. Il giovane divenne poi l’augure ufficiale del primo re etrusco di Roma, Tarquinio Prisco.
Questo mito è considerato alle origini del rito romano dell’auspicatio vindemiae. Prima della vendemmia il Flamen Dialis, il sommo sacerdote di Giove, offriva al dio un grappolo scelto da una vigna pubblica. Il rito serviva a garantire un buon raccolto e dava l’avvio ufficiale all’epoca della vendemmia. Per questo, il periodo della festa variava ogni anno. [/info_box][/one_third]Fino alla tarda epoca repubblicana quindi, ogni volta che si parla di vinea, ci si riferisce solo alla vite alberata, la forma tradizionale di viticoltura romana. Molti di questi autori non spiegano come è fatta, non hanno intenti agronomici, ma possiamo accorgercene anche da alcuni particolari. Cicerone, ad esempio, racconta un mito in cui un pastore porta dei maiali in una vigna*. Non può essere altro che una vigna alberata, visto che è praticamente impossibile che si portassero a pascolare porci in una vigna bassa con i frutti maturi (se li sarebbero mangiati!).
Fedro, che traduce e riadatta le favole di Esopo nel I secolo a.C., nella famosissima storia della volpe che non riesce a raggiungere l’uva, usa il termine “vinea alta”. Si inizia a intravedere qui un cambiamento. Infatti usa ancora la parola vinea alla maniera antica, ma sente l’esigenza di aggiungervi quell’alta. Forse teme di non essere capito?
Infatti Roma aveva ormai annesso diversi territori che erano state colonie greche, nei quali la vite era coltivata bassa, ad alberello, sostenuta a volte da un palo. Entrò quindi a far parte della cultura romana anche quest’altro sistema di coltivazione. L’esigenza di non confonderli portò ad un cambio linguistico che sembra fissarsi negli ultimi decenni del I sec. a.C.
Varrone sembra essere il primo ad usare due nomi distinti per indicare i due sistemi di coltivazione. Da lui in poi, nei testi latini, l’arbustum restò ad indicare la vite maritata, mentre vinea divenne il termine preferenziale per la vigna bassa. Il vinetum comprendeva entrambi, così come a volte anche vinea (…tanto per non rendere le cose troppo facili…).
Capite quindi la difficoltà? Era facile per traduttori poco esperti di aspetti viticoli perdersi, soprattutto scambiando l’arbustum per un boschetto, non capendo neppure che si stesse parlando di una vigna.
Vigna alta o vigna bassa?
Dalla tarda epoca repubblicana e sopratutto in quella imperiale, quindi, erano presenti entrambe le forme viticole.
In molti testi di storia del vino si trova una suddivisione schematica secondo la quale la vigna bassa era propria delle grandi ville schiaviste, con una produzione intensiva e di maggiore qualità. L’arbustum è relegato a contesti più primitivi o meno specializzati. Si tratta di una interpretazione che sembra rispecchiare però una concezione novecentesca di viticoltura, piuttosto che la comprensione dell’epoca.
Gli studi degli ultimi decenni, infatti, hanno portato a riconsiderare questo modello. Il concetto di specializzazione e di coltivazione intensiva ai tempi di Roma era differente da quello moderno. L’agricoltura promiscua era comunque prevalente, anche nelle grandi villae. Inoltre, la presenza dell’una o altra forma viticola sembra rispondere più alla tradizione culturale del luogo che alla dimensione aziendale o alla qualità del vino (pur con le dovute eccezioni), così come testimoniato da Virgilio, Plinio il Vecchio e tanti altri.
Ad esempio, Plinio il Giovane (nipote dell’altro Plinio) aveva grandi proprietà nell’alta valle del Tevere, che gli fruttavano ingenti guadagni nella vendita del vino a Roma. Plinio dice che i suoi coloni usavano coltivare “sotto e sopra”, dove per “sopra” s’intende la vite alberata e con “sotto” i cereali, in linea con la tradizione più antica locale. Plinio, parlando della sua attività di avvocato, usa questa metafora agricola che ci testimonia l’agricoltura promiscusa: “Come in agricoltura non curo e coltivo soltanto la vigna bassa (vinea), ma anche quella alberata (arbustum), e non solo la vite alberata ma anche i campi e negli stessi campi non semino soltanto farro o frumento, ma anche orzo, fave e altri legumi, così nella discussione di una causa, spargo ampiamente diversi argomenti, come se seminassi, per raccogliere quello che ne nascerà”.
Poteva quindi esserci una certa variabilità nelle scelte viticole. Tuttavia la prevalenza della tradizione locale è anche dimostrata dal fatto che le frontiere culturali viticole più antiche sono rimaste più o meno tali e quali, in Italia, fino al Novecento, così come sottolineato da nostri autori Ottocenteschi (come il Manzi) e ripreso più tardi da Emilio Sereni. A grandi linee, l’alberata rimase predominante nell’Italia centrale e settentrionale, dove era arrivata nel passato la tradizione Etrusca (compresi i popoli confinanti influenzati da essa). La vite bassa rimase prevalente nell’Italia del sud e in tutte le zone di antica cultura viticola greca. (vedete qui)
Nell’interpretazione moderna, la vite maritata è stata spesso legata alla produzione di un vino di scarsa qualità. I Romani però non la pensavano esattamente così. Plinio il Vecchio testimonia che i vini più rinomati della sua epoca, i famosi vini campani, capaci di lunghissimi invecchiamenti, derivassero proprio da viti maritate.
Egli è un sostenitore della vite alberata rispetto a quella bassa, così come Columella. Gli autori latini elencano una serie di vantaggi, considerati tali, in diverse parti d’Italia, fino all’inizio del XX secolo. Anche numerose fonti storiche e letterarie successive, dall’editto di Rotari (645 d.C.) fino alle opere ottocentesche, indicano la vite maritata come la più adatta all’economia dell’azienda agricola ed agli interessi del proprietario.
L’uva, tenuta lontana dal suolo, era più protetta dal gelo e dall’umidità. Le fronde dell’albero la preservavano (in parte) da altre avversità, come la grandine. Inoltre, nel passato era considerato un notevole pregio poter sfruttare lo stesso appezzamento di terreno per più usi. Deponeva a favore della vite alberata il fatto di poter coltivare senza problemi, fra i filari, il grano o altre colture. Vi si potevano far pascolare gli animali per buona parte dell’anno, senza rischi per l’uva o i germogli (salvo non vi fossero altre colture in mezzo da proteggere). All’epoca era comune che il proprietario affittasse il pascolo anche a pastori esterni. Nella vigna bassa invece tutto questo era possibile solo nel periodo di riposo della vite. In più, l’alberata permetteva il risparmio di recinzioni e siepi, essendo l’uva più protetta anche dagli animali selvatici. Solo il bestiame di grossa taglia è pericoloso per le vigne alte. Plinio infatti consiglia di mettere la museruola ai buoi quando si ara il terreno.
Quando Catone fa la sua famosa graduatoria delle coltivazioni economicamente più interessanti, ci ricorda che la vite alberata dà doppia redditività. Infatti la mette al primo posto come viticoltura vera e propria, ma la fa tornare anche all’ottavo posto per quanto si ricava dagli alberi di sostegno: le foglie come foraggio, le potature dei rami come legna da ardere, i frutti nel caso si utilizzassero alberi da frutto (Catone cita molto l’uso del fico). Questo passaggio è stato uno di quelli più travisati: la vinea al primo posto era interpretata come vite bassa e l’arbustum, all’ottavo posto, come un boschetto qualsiasi.
Non è che ci fossero solo vantaggi. Gli stessi Romani riconoscevano la difficoltà dei lavori. Plinio racconta che, alle origini, re Numa introdusse l’obbligo di potatura delle viti, ma i Romani non volevano salire sugli alberi, anche molto alti, per paura di cadere. Sembra che da allora s’introdusse l’uso di garantire ai vignaioli, nel contratto di lavoro, anche le spese del funerale. A parte i miti, Columella cita i Saserna, proprietari della Gallia Cisalpina, che giudicavano questo sistema troppo costoso.
Nei secoli successivi (soprattutto nell’Ottocento) continuerà la disputa che dividerà gli esperti fra detrattori e sostenitori. Si riconoscevano diversi aspetti negativi come l’ombreggiatura delle viti, la competizione fra le due specie (nei terreni non abbastanza fertili) con scarsa corposità dei vini, la lentezza a raggiungere la produzione ottimale di uva, i maggiori costi di potatura e vendemmia, l’impossibilità di una pur minima meccanizzazione, … La grafiosi degli anni ’20 del Novecento tolse parecchi indugi all’abbandono di questa forma tradizionale, facendo morire la maggior parte degli olmi. Semplicemente non c’era più spazio per la vite maritata, in un mondo contadino ormai al tramonto.
Vorrei infine ricordare che l’epoca romana, soprattutto nella fase Imperiale, fu caratterizzata da un periodo climatico piuttosto caldo. Anche ora, con i cambiamenti del clima in corso, ci siamo resi conto che bisogna rivedere gli equilibri produttivi di soli venti-trent’anni fa. Non si può escludere a priori che una forma espansa, se ben gestita, nel clima e nel terreno adeguato, non possa comunque produrre vini di buona qualità. Fra l’altro Columella ci testimonia come, all’apice della loro viticoltura, i Romani avessero ben chiaro il concetto del legame fra equilibrio produttivo e qualità del vino (almeno negli ambiti più acculturati), un aspetto che sarà “riscoperto” solo parecchi secoli dopo.
La vite maritata in giro per l’Europa (e non solo).
Della lunga “carriera” della vite maritata all’albero in Italia ho già parlato qui. Uno dei grandi meriti di Roma è di aver diffuso la viticoltura in altre parti d’Europa, tramite i suoi legionari. Anche qui si è dato per scontato che fosse solo la vigna bassa. In realtà portarono anche quella maritata. Di essa si trova infatti traccia nella storia viticola di altri territori europei.
Ricordo anche che altri sistemi di allevamento a vigna alta, con pali o pergolati, furono diffusi sempre dai Romani. Questi sono ancora presenti in molte parti d’Europa.
In Francia si trovano diverse tracce dell’antica tradizione dell’alberata. Le vigne alte (in generale) sono dette hautains. Le alberate vere e proprie erano numerose in epoca Medioevale in numerosi territori, ad esempio in Piccardia oppure in Provenza (su alberi di noci). Nel XIV secolo, ci sono documenti che ne dimostrano la diffusione ad Avignone. Olivier de Serres in “Le théâtre d’agriculture et mesnage des champs” ne testimonia ancora la presenza nel XVII secolo, soprattutto nella Brie, Champagne, Borgogna, Berri, Alto Delfinato (su ciliegi), Savoia e nella valle del Rodano. Fino all’inizio del XX secolo si potevano ancora trovare soprattutto nell’Alta Savoia e nella zona dei Pirenei occidentali baschi. Sono sparite del tutto dopo la fillossera.
Nel Portogallo nord-occidentale è rimasta ancora oggi la tradizione della vigna alta, con pali ma a volte ancora l’alberata vera e propria, col nome di viña de enforcato, nella zona di produzione del vinho verde.
In Spagna l’alberata non ha lasciato tracce nella tradizione viticolta, anche se sappiamo che vi fu portata dai Romani. In particolare, c’è la testimonianza diretta di Columella, che l’introdusse nelle sue proprietà in Baetica. Sono rimaste solo altre forme di vigna alta in Galizia e nei paesi baschi.
L’impronta culturale antichissima è rimasta almeno in un proverbio molto diffuso, che dice: “no se le pueden pedir peras al olmo”, “non si possono chiedere pere all’olmo”, citato anche da Cervantes nel Don Chisciotte. In Portogallo ne esiste uno molto simile: “Não pode o ulmeiro dar peras“, “l’olmo non può dare pere”. Si usano per esprimere il concetto di non poter chiedere a qualcuno qualcosa che gli è impossibile, ma la maggior parte degli spagnoli e dei portoghesi non sa perchè si dice così. L’origine si trova molto probabilmente nelle Sententiae di Publilio Siro (I sec. a.C.), che scrive: “Pirum, non ulmum accedas, si cupias pira“, “non vai dall’olmo ma dal pero, se vuoi le pere”. Per gli antichi Romani era più facile capire: l’olmo era il “marito” preferito della vite, per cui non poteva certo dare pere, se mai l’uva.
Se gli spagnoli abbandonarono l’alberata in madre patria, la portarono nel Nuovo Mondo, con altre forme di vigna alta. Avevano bisogno di vino per la Messa, per cui piantavano vigne ovunque andassero. Ci riuscirono anche in Bolivia, nella valle del Cinti, ad un’altitudine di 1900-2550 metri slm, dove era veramente difficile pensare di coltivarci la vite. Eppure risolsero il problema “rispolverando” l’antico sapere romano, con viti maritate ad alberi indigeni, anche altissimi, l’unico modo per preservare germogli ed uva in quel clima così difficile.
Se volete vedere ancora la vite maritata, potete trovarla da noi, a Guado al Melo.
(…continua…)
Bibliografia:
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Paolo Braconi, “Catone e la viticoltura intensiva”.
Paolo Braconi, “In vineis arbustisque. Il concetto di vigneto in epoca Romana.
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Attilio Scienza, “Quando le cattedrali erano bianche”, Quaderni monotematici della rivista mantovagricoltura, il Grappello Ruberti nella storia della viticoltura mantovana.
Attilio Scienza et al., Atti del Convegno “Origini della viticoltura”, 2010.
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Dalmasso e Marescalchi, “Storia della vite e del vino in Italia”, 1931-1933-1937.
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Valerio Merlo, “Contadini perfetti e cittadini agricoltori nel pensiero antico”, Alce Nero.
Roger Dion, “Histoire de la vigne et du vin en France, des origines au XIX siècle”, Parigi, 1959.
https://fr.wikipedia.org/wiki/Hautain