Uno sguardo generale sull’agricoltura
Abbiamo visto come il Medioevo (qui, qui, e qui) fu un periodo molto ricco ed interessante per il vino italiano, nel corso del quale avvennero notevoli trasformazioni. Questo andamento favorevole continuò col Rinascimento, come già accennato qui. Prima però di parlare di vino, diamo uno sguardo generale sull’agricoltura e le trasformazioni del paesaggio dal Rinascimento all’inizio dell’Età Moderna.
L’indiscusso primato dell’Italia sull’economia europea, già iniziato col Medioevo, continuò e si consolidò col Rinascimento. Soprattutto i territori del Centro e del Nord avevano il più alto livello di urbanizzazione del continente, oltre che un notevole sviluppo artigianale e commerciale. Le campagne beneficiarono della prosperità economica delle città, grazie soprattutto alla nuova borghesia. Infatti i borghesi, che fossero artigiani, mercanti o altro, spesso e volentieri investivano le loro ricchezze nelle tenute di campagna. Al di là dell’investimento, per loro rappresentavano uno status symbol di altissimo prestigio sociale. Da sempre la proprietà terriera era il segno tangibile della ricchezza e del potere. La borghesia non riversò però nelle campagne solo capitali ma anche la propria intraprendenza. Nacquero tenute dinamiche ed innovative, ben diverse dalle più stagnanti (in media) proprietà nobiliari. Il Rinascimento vide quindi accrescere e completarsi quella trasformazione agricola e paesaggistica che si era già ben avviata nel Medioevo, raggiungendo l’apice di questo processo.
Col Cinquecento iniziò però un progressivo declino politico ed economico dell’Italia, diventata sempre più il campo di battaglia delle potenze straniere che si contendevano il dominio europeo. Tale declino arriverà a pieno compimento con l’inizio dell’Età Moderna, nel Seicento. Questo causerà il blocco del progresso agrario italiano, che purtroppo si trascinerà poi molto a lungo (seppure con intensità e modalità diverse per le varie parti d’Italia).
A peggiorare la situazione, fra la fine del Rinascimento e l’inizio dell’Età Moderna ci fu una crisi agricola generalizzata in tutta Europa, per colpa del progressivo peggioramento del clima, già iniziato nella parte finale del Medioevo. La cosiddetta Piccola Era Glaciale raggiungerà il suo momento peggiore fra la fine del Cinquecento e l’inizio del Settecento.
Il Bel Paesaggio italiano, fra ville e terre bonificate
Il Bel Paesaggio, che era nato in Toscana nel Basso Medioevo, si consolidò nel Rinascimento ed uscì anche dai confini di questa regione. Non smetterà più di stupire i viaggiatori stranieri per il suo ordine e la sua armonia, la varietà e la densità delle colture, soddisfacendo a pieno l’ideale del bello unito all’utile, eredità della cultura romana.
L’elemento unitario alla base di questo paesaggio era la villa di campagna, che nel tempo diventò sempre più ricca e fastosa. Era un grande segno di potere per signori e nobili, agognato emblema di affermazione sociale per la ricca borghesia cittadina. La villa era contornata dall’elegantissimo giardino detto “all’italiana”, caratterizzato da aiuole ben definite e squadrate, di chiara derivazione agricola, che nel tempo si impreziosì sempre più con viali alberati, fontane e statue. Gli esempi più famosi saranno copiati in tutta Europa. In Toscana si diffusero sempre più le strade in cresta, costeggiate da filari di cipressi. Intorno si sviluppavano vigneti, oliveti e frutteti e campi coltivati.
Questo modello raggiunse il suo apice in Toscana entro la fine del Cinquecento, poi s’espanse in altri territori italiani. Ad esempio nel veneziano, il nord-est d’Italia, toccherà il suo massimo splendore nei due secoli seguenti. Nell’ambito romano, dove non c’era una borghesia sviluppata, la villa si ritrovava soprattutto nelle proprietà di papi e cardinali, che erano l’espressione delle famiglie italiane più potenti dell’epoca.
Con l’avanzare del Rinascimento, il fasto delle ville aumentò a tal punto da soverchiare completamente la funzione agricola, come scrive in un poemetto il poeta napoletano Luigi Tansillo (Il Podere, 1560):
“Io non vo’, che le ville sien palazzi, / che ingombrin molto; e chi vien, che vedan / terren, dove men s’ari, che si spazzi”
Non vi ricorda qualcosa? Sembra di rileggere i versi di Orazio che, come altri autori romani, era preoccupato per le regiae moles (le dimensioni da reggia) delle ville agricole romane, che sembravano non lasciare più spazio alle coltivazioni.
In questo poemetto (Il Podere), Luigi Tansillo parla direttamente ad un amico, il maggiordomo dei principi di Avalos, che è intenzionato ad acquistare un podere. Gli fornisce, in poesia, indicazioni sia economiche che di natura agraria. È chiaramente ispirato a Columella e Virgilio.
Nel 1534, a 24 anni, Luigi Tansillo aveva anche scritto “Il Vendemmiatore”, che in realtà ha ben poco a che fare con la viticoltura, ma è un poema erotico, che esorta a godere della giovinezza, nel tema del “carpe diem”. Tansillo, fingendo di scrivere un poema bucolico, si mette nei panni del vendemmiatore che, con metafore agricole che nascondono allusioni sessuali, invita le donne a non negarsi ai piaceri. Egli stesso racconta che lo scrisse dopo aver assistito alla vendemmia nella sua cittadina di origine, Nola. Allora c’era ancora un’usanza che era rimasta dall’epoca antica: era concesso ai vendemmiatori insultare i passanti e fare allusioni sconce, anche alle persone di classe sociale superiore. Il poema gli diede grande fama fra i letterati dell’epoca ma gli procurò anche tante pene, scatenando l’ira del papa. Fu messo nell’Indice dei libri proibiti (1559). Tansillo recuperò poi il credito papale con un poemetto religioso. Da Il Vendemmiatore:
“… Quest’uva che l’altr’ier pendea sì acerba,
Ora è più dolce che del mel le canne:
Fu dura, ed ora è molle; sembrava erba,
Ed or sembra auro, ch’uman petto affanne;
Se sempre stesse al ramo ov’or si serba,
Come il liquor daría, che lieti fanne?
Per quetar col suo frutto l’altrui speme,
Prima da voi si coglie, e poi si preme. …”
https://it.wikisource.org/wiki/Il_Vendemmiatore
Non si trattava solo di ville, ma il paesaggio si trasformava con notevoli interventi di bonifica delle pianure e di terrazzamenti di colline e montagne, soprattutto nei territori più ricchi e più stabili. Oltre che in Toscana, le trasformazioni più notevoli si ebbero nel milanese e nella zona veneta.
In Toscana e nei territori limitrofi si diffuse sempre più la mezzadria, che consolidò nel Rinascimento la sua classica struttura poderale. Non varierà più di tanto nei secoli seguenti. La grande proprietà era suddivisa in poderi, unità dimensionate sulla capacità di lavoro della singola famiglia colonica, che ripagava il proprietario dividendo con lui i prodotti agricoli. Ogni podere era autonomo, per cui tendeva a comprendere la coltivazione di tutto quanto necessario (o quasi) all’autosufficienza. La maggior parte delle terre di ogni podere era sempre dedicata ai cereali (in genere frumento) e alla vigna, coltivate in modo promiscuo. Poi la produzione era completata con colture orto-frutticole, che variavano fra i diversi territori, e quelle tessili (come la canapa). Quindi, il modello basilare su cui si fondava l’agricoltura del podere era il cosiddetto campo arativo/arborato- vitato, cioè campi arati per la semina dei cereali alternati alle viti, che erano quasi sempre allevate su alberi (la vite maritata di cui abbiamo tanto parlato dagli Etruschi in poi, per esempio qui). Era un’agricoltura promiscua, ma comunque intensiva, nel senso che ogni risorsa era sfruttata al massimo, a volte anche per aspetti minimali. Ad esempio, anche le fronde degli alberi su cui poggiava la vite erano considerate indispensabili, utili per foraggiare il bestiame e, con le potature, per ottenere fascine da ardere o pali. Si usava dire che “i Toscani tengono i prati sugli alberi”, perché il foraggio del (poco) bestiame derivava soprattutto da queste risorse.
Nel Nord invece, nell’area padana, l’agricoltura era molto avanzata grazie ai lavori di bonifica che proseguivano ormai ininterrotti dal XI secolo, soprattutto in Lombardia. Accanto alla mezzadria, era già presente dal ‘400 un modello ancora più avanzato di affitti pagati in denaro, lavoratori salariati, con aziende sempre più votate alla commercializzazione dei prodotti. Il completamento della regimazione idraulica aveva trasformato la pianura paludosa nel tipico paesaggio padano dei prati irrigui, fatto da campi regolari ordinatamente separati da canali, sulle cui rive si trovavano filari di alberi, spesso con la vite maritata. Il prato forniva abbondante foraggio per l’allevamento dei bovini, determinando lo sviluppo della grande produzione casearia tipica della Padania. L’allevamento produceva grandi quantità di letame, la cui abbondanza permetteva una ricca produzione di cereali e altre colture. Era un ciclo produttivo chiuso e molto efficiente.
Nel Meridione e nelle terre dei papi, ogni evoluzione socio-economica era invece frenata dalla maggiore chiusura di una società che non era passata attraverso l’Età dei Comuni e che non aveva quindi visto lo sviluppo di una classe borghese evoluta. In queste zone continuò a permanere un’impostazione sostanzialmente feudale, che limitò la crescita socio-economica delle città. Tuttavia, si registrarono in questo periodo maggiori aperture sociali ed agricole.
Non ci furono solo miglioramenti ma anche involuzioni. Con la fine del Rinascimento, nei territori più poveri ed abbandonati del Centro e del Sud si sviluppò sempre più il modello economico dell’allevamento transumante di ovini, per il quale bastava avere a disposizione ampie porzioni di territorio incolto da affittare, come i grandi latifondi siciliani, il Tavoliere delle Puglie, l’Agro romano, la Maremma (vedi qui), ecc. Il facile guadagno degli affitti legati alla transumanza bloccò lo sviluppo di questi territori per secoli.
La Piccola Era Glaciale
Nel Cinquecento le guerre imperversavano, la politica declinava ed il clima andava sempre più peggiorando. Dal 1564 si ebbero di seguito dieci inverni rigidissimi. Fra il 1594 e il 1597 piovve quasi incessantemente, con grave danno ai raccolti. Ogni annata problematica portava carestie, che favorivano la diffusione di epidemie. Nell’ultimo decennio del secolo i ghiacciai si espansero come non mai, invadendo i campi coltivati e distruggendo villaggi. Alcuni fiumi e laghi nordici ghiacciarono completamente, come il lago di Costanza. I prezzi dei beni agricoli salirono sempre più.
Nel Seicento continuò questo clima difficile. Le carestie portarono alle note pestilenze del tempo (ricordate i “Promessi Sposi” del Manzoni?), che decimarono la popolazione. Le più importanti furono nel 1630 e nel 1656. Ricordo anche nel 1693 un terremoto distrusse buona parte della Sicilia Orientale. Diverse terre che erano state bonificate ritornarono selvagge. Per contrastare le carestie, la tendenza fu di convertire quasi tutti i terreni a grano, a scapito delle colture pregiate.
In questa fase difficile si persero molti progressi agricoli e sociali. Ad esempio, in molte parti del centro e del sud d’Italia tornò a prevalere nelle campagne un sistema feudale retrivo. Il Sud si concentrò quasi solo sull’autoconsumo, mentre al Nord si iniziarono ad importare le derrate alimentari dall’estero. Al Nord declinò l’industria laniera e della seta, causato dal declino mercantile italiano, ormai surclassato dagli olandesi. L’unica città in sviluppo nell’Italia del Seicento fu Livorno, in quanto era il porto di scalo più utilizzato dalle potenze straniere nel Mediterraneo.
Continua …