(continua da qui)
Concludiamo questo nostro viaggio nella viticoltura italiana dell’epoca Romana con gli ultimi lavori della vigna e la vendemmia.
Prima però vorrei completare il quadro dell’epoca con la descrizione del clima di allora. Spesso non ci si pensa, ma i mutamenti climatici hanno avuto grande importanza negli eventi storici dell’umanità, a maggior ragione per quanto riguarda l’evoluzione dell’agricoltura.
La fondazione di Roma (753 a.C.) cadde in un periodo di piccola era glaciale (nel grafico, il primo picco discendente colorato in blu), durato circa dal 900 al 300 a.C. Questo significa che, nei primi secoli dell’epoca Romana, l’Italia aveva un clima decisamente più freddo di quello a cui siamo abituati oggi. Nel grafico a lato si vedono le temperature medie annuali dall’Era Glaciale ad oggi. La linea verticale in fondo rappresenta il nostro periodo.
Numerosi autori romani testimoniano i terribili inverni di quei periodi. Columella e Giovenale raccontano che all’inizio del IV secolo a.C. gli inverni erano così rigidi che il Tevere era incrostato di ghiaccio. I boschi del Lazio e dell’Etruria erano costantemente ricoperti di neve. L’inverno del 399-400 a.C. rimase nella storia di Roma per via di un’incredibile nevicata. Caddero più di 2 metri di neve (7 piedi) ed i crolli di alberi e tetti in tutta la città causarono numerosi morti e feriti. Varrone racconta di inverni lunghissimi nelle montagne italiane. Sant’Agostino riporta che, ancora nell’inverno del 275 a.C., il Tevere gelò e Roma rimase sotto la neve per 40 giorni.
Come possiamo immaginarci la viticoltura di quel periodo? Non abbiamo molte indicazioni a prosito. Possiamo pensare che era presente soprattutto nelle aree più miti, come le coste o altre zone favorevoli, fino ad altitudini non molto elevate.
Dopo di che il clima si avviò ad un notevole cambiamento, con la risalita delle temperature, fino ad arrivare al momento detto dell’Optimum Climatico Romano, un periodo piuttosto caldo. Durò circa dal 250 a.C. al 400 d.C. e interessò in modo locale l’Europa e l’Atlantico settentrionale. Il passaggio climatico verso temperature più alte corrisponde con l’espansione di Roma nel Mediterraneo. In antichità, infatti, si navigava solo nelle stagioni favorevoli ed il clima migliore permise periodi di navigazione più lunghi. Corrisponde anche all’aumento esponenziale della viticoltura italiana. Il clima più caldo ne permise l’espansione anche in aree prima non favorevoli. Iniziò così anche l’esportazione massiccia del vino.
L’aumento delle temperature determinò, in generale, lo spostamento verso nord della linea delle coltivazioni mediterranee, come l’ulivo. Plinio scrive che il faggio, che prima arrivava solo all’altezza di Roma, spinse il suo habitat fino al nord d’Italia. Il periodo caldo favorì poi la diffusione della viticoltura da parte dei Romani in buona parte d’Europa, anche nei territori che non avevano mai visto prima la vite. La portarono fino in Inghilterra, oltre che a notevoli altitudini. Da molte di queste zone estreme sparirà con la successiva Piccola Era Glaciale.
Dal 400 circa iniziò invece un periodo di raffreddamento. Secondo diversi studiosi, l’instabilità ed i peggioramenti climatici, con le conseguenze sull’agricoltura e la salute della popolazione, contribuirono alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente.
Non si sa esattamente quanto l’attività umana di allora potesse aver influito sulle evoluzioni climatiche. Sappiamo però che l’epoca Romana ha registrato i primi interventi massicci dell’uomo sulla trasformazione del paesaggio naturale italiano.
In epoca pre-romana l’Italia era fatta di immense distese di boschi, interrotti da aree paludose nelle zone costiere o nelle pianure. Solo una piccolissima parte era occupata dall’agricoltura, ristretta intorno alle colonie della Magna Grecia al sud o le città-stato dell’Italia centrale.
Ad esempio la vasta area fra Aquileia, Ravenna, Mantova, Brescia, Reggio e Como era tutta paludosa. Le coste adriatiche, tirreniche e liguri erano ricoperte da fitte foreste, dalle quali si prelevava legname considerato pregiato per la grossezza dei tronchi. Gli stessi colli di Roma, come il Palatino o il Quirinale, erano ricoperti da boschi. Fra Modena e Bologna le foreste era ancora così fitte in epoca Repubblicana da rallentare notevolmente i lavori di costruzione della via Emilia. Tito Livio racconta che la foresta del Cimino, in Etruria, era così terrificante da superare quelle germaniche descritte da Tacito. La Gallia Cisalpina (nord d’Italia) era ricchissima di querce, infatti fu il principale centro di allevamento dei maiali dell’impero. Il Gargano, in Puglia, era ricoperto da querce ed altri alberi che arrivavano fino al mare.
Questi boschi erano stati usati dall’uomo da sempre ma, in epoca Romana, la popolazione aumentò notevolmente rispetto al passato e così anche le applicazioni tecniche. L’uso del legname divenne massiccio, usato come combustibile ma soprattutto per l’edilizia in notevole espansione e la costruzione delle grandi flotte navali romane, …
Così nei secoli i Romani disboscarono buona parte della penisola, anche per far sempre più spazio ai terreni agricoli e ai pascoli. Rispetto ad oggi, comunque, rimaneva ancora una buona parte di natura incontaminata.
In epoca arcaica, Anco Marzio aveva messo il patrimonio boschivo sotto la tutela degli Dei e dei magistrati decemvirali, dichiarandolo Demanio Pubblico Naturale. Più che una tutela, probabilmente, era solo una questione economica: una parte importante del reddito pubblico derivava proprio dalla gestione di questo patrimonio. Comunque sappiamo che gli stessi Romani si accorsero del degrado che derivò dallo sfruttamento intensivo delle risorse naturali. Ce lo raccontano Plinio ed altri autori, che parlano di frane, alluvioni, erosioni, carenze idriche e problemi agricoli, riconoscendo dietro ad essi la mano dell’uomo.
La vigna prima ancora della legge
«Sed etiam a vinea, et balneo, et theatro nemo dubitat
in ius vocari licere».(Gaius, Liber I ad Legem XII Tabularum)
“Non è consentito chiamare in giudizio (e portare in tribunale) chi si trovi nella vigna, al bagno (le terme) o a teatro”.
Questa sententia citata dal giurista Gaius, compresa nelle leggi scritte più antiche di Roma, le Leggi delle XII Tavole (Lex XII Tabularum, 450 a.C.), dimostra quanto fossero considerati importanti i lavori in vigna nelle epoche più antiche di Roma, al punto da far sospendere anche un procedimento giudiziario. Bisognava aspettare che il vignaiolo avesse finito il suo lavoro.
In generale l’importanza della viticoltura a Roma si può capire dal grande numero di leggi che la riguardavano, rispetto alle successioni, le compravendite, i legati, ecc. Nei contratti agrari veniva sempre riconosciuto l’aumento del valore di un terreno nel quale era statto fatto un vigneto. In caso di risoluzione anticipata del contratto di affitto, anche per morosità, il proprietario doveva comunque indennizzare il fittavolo che vi aveva impiantato viti.
Numerose sono anche le cause giudiziarie che riguardano la vigna, che ci offrono siparietti non sempre edificanti della vita dell’epoca. Ad esempio, il giurista Sesto Pomponio racconta di un tale che, approfittando del grande rigoglio delle viti (alberate) del vicino, raccoglieva i frutti dai tralci che si allungavano fin sugli alberi della sua proprietà e ne traeva profitto. Ad un certo punto il proprietario delle viti se ne accorse e volle tagliare quei tralci. Il tale si oppose al taglio, arrivando a far causa al vicino per impedirglielo. Il tribunale gli diede però torto, ribadendo che i rami appartengono sempre al proprietario del terreno dove le viti sono piantate, ovunque essi arrivino.
Nella Roma antica comparve anche il primo esempio nella storia di intervento del governo per regolamentare l’impianto delle vigne e, quindi, il mercato del vino. Si tratta del famoso editto di Domiziano che, nel 92 d.C., vietò l’impianto di nuove vigne e introdusse l’obbligo di espianto di metà di quelle delle province. Secondo alcuni studiosi, l’editto nacque in un momento di stagnazione generale del commercio del vino. In particolare, i patrizi romani, che erano produttori di vino, non volevano subire la concorrenza esterna. Già Cicerone aveva intenti protezionistici quando scriveva nel De Re Pubblica (55-51 a.C.): «Noi non permettiamo che i popoli Transalpini coltivino l’olivo e la vite, perché si mantengano superiori la nostra olivicoltura e viticoltura». Secondo altri, l’editto nacque anche dalla volontà di frenare l’eccessiva espanzione delle vigne che stava avvenendo in quel periodo, per evitare carestie per mancanza di grano.
La successiva decadenza della viticoltura in Italia fece sparire il divieto e, viceversa, diversi imperatori si impegnarono per arginare questo fenomeno. Ad esempio, Aureliano, intorno al 275 d.C., distribuì gratuitamente schiavi ai proprietari terrieri, dall’Etruria fino alle Alpi Marittime, perchè ampliassero le vigne sempre più abbandonate.
Invece il divieto di creare nuovi vigneti fuori dall’Italia fu abrogato da Probo, verso la fine del III sec. d.C.. Probo permise finalmente «a tutti i Galli ed a tutti gli Spagnoli e persino ai Britanni di coltivare le viti e di fare il vino», e di «possedere le vigne ai Galli e ai Pannoni» (Historiae Aug. Probus, 18,8). Egli introdusse anche delle corvéé per i centurioni romani, dedicate spessoanche all’impianto di vigne, come accadde in Germania, che fino ad allora ne era priva.
Sul finire dell’era antica, la viticoltura italiana era in forte decadenza anche perché era oppressa dalla burocrazia e da tasse sempre più asfissianti. Cassiodoro racconta che i produttori arrivavano al punto di tagliare le proprie viti per sottrarsi ad imposizioni fiscali insostenibili. Nell’codice teodosiano del 413 d.C. è scritto che si condannava alla pena di morte e alla confisca dei beni chi avesse tagliato le viti per sfuggire al fisco:
“Si quis sacrilega vitem falce succiderit, …”
Se qualcuno avesse abbattuto la vite con falce profanatrice …” Cod. Theod. l. XIII. Tit. XI. leg. 1.
Si ritornerà a parlare di leggi intorno alla vigna con i Longobardi.
Torniamo agli ultimi lavori della vigna.
Potatura verde
Gli autori agrari romani raccontano dei diversi lavori compresi sotto la dicitura di “potatura verde”, all’epoca detta vites pampinari. Per Varrone è anche più importante della potatura invernale e deve essere fatta solo da persone esperte. Già Catone cita i lavori di spollonatura , legatura e sfogliatura. Columella aggiunge anche la cimatura ed il diradamento dei grappoli, completando l’insieme dei lavori, come ai nostri giorni.
Per spollonare usavano i cultelli minores, piccoli coltelli ricurvi. I tralci delle viti erano legati perché non venissero rotti dagli attrezzi e dagli animali durante il passaggio, facendo attenzione ad indirizzarli verso l’alto. Queste scelte erano fatte senza conoscere la fisiologia delle viti, come oggi. Era un sapere empirico, nato dall’osservazione attenta e razionale della risposta delle piante ai lavori fatti in diverso modo.
Ad agosto, spiega Columella, si tolgono le foglie intorno ai frutti nei territori dove il clima è più fresco e piovoso, per evitare di far marcire i grappoli. Consiglia invece di non farlo nei luoghi caldi, come facciamo ancora oggi. Racconta anche che nelle zone dal clima torrido si ombreggiassero le viti con delle stuoie, come faceva suo zio Marco in Betica (sud della Spagna).
Lavorazione del suolo
Anche la lavorazione del suolo e l’estirpazione dalle erbacce era importante allora come oggi. L’operazione era chiamata fossio e chi la faceva fossor. Virgilio usa il verbo jactare.
Dove era possibile, era sempre fatto con l’aratro tirato dai buoi. Dove non si poteva usare l’aratro, si lavorava con la vanga semplice (pala o ligo) o col bipalium (una vanga con sbarra trasversale, che scava a profondità doppia di quella comune). La marra era una zappa a testa larga e dentata. Il rastrum era uno strumento sempre dentato, così come il sarculum, tutti diversi tipi di rastrelli. L’irpex era un pesante rastrello tirato da buoi, come gli erpici moderni.
Gli autori latini consigliano di zappare la vigna almeno tre volte all’anno: uno quando germoglia, l’altro alla fioritura e il terzo per la maturazione. Le giovani vigne devono essere sempre accuratamente vangate per togliere tutte le erbacce. Questi lavori sono essenziali anche oggi, anche se fatti in modo diverso, essenzialmente per togliere la vegetazione a ridosso della vite ed per evitare competizioni sfavorevoli in momenti delicati della vita della pianta.
Un altro lavoro era quello di scalzare le viti (ablaqueare o circumfodere) con la dolabra e la dolabella, che erano delle piccole asce. All’epoca di Palladio si diceva excodicari: si apriva la terra intorno alla vite e si tagliavano le radici più superficiali. Poi si rincalzava la terra intorno alle viti nel periodo freddo, nei territori dal clima più fresco. Questo lavoro tradizionale oggi non viene praticamente più fatto.
Vendemmia
La raccolta dell’uva era un evento legato a pratiche religiose, dedicate principalmente a Giove, come già descritto qui, ed altre superstiziose. Le festività Vinalia Rustica si svolgevano il 19 agosto e servivano a propiziare il bel tempo durante la maturazione dell’uva. Durante le feste i vendemmiatori poteva fare scherzi di ogni tipo, anche offendendo i passanti, senza che questi potessero reagire. Cicerone parla delle Auguratio Vineta, pratiche augurali prima della vendemmia. Il via ufficiale alla raccolta era dato invece dalla festa della Auspicatio Vindemiae, con un rito officiato dal Flamen Dialis, il sommo sacerdote di Giove. Egli raccoglieva un grappolo primiziale in una vigna pubblica e lo offriva al dio, compiendo un sacrificio animale. Il gesto doveva garantire un buon raccolto. La data della festa variava ogni anno, in relazione al periodo della vendemmia. Plinio il Vecchio cita invece un rituale magico usato per scongiurare il mal tempo: si metteva un grappolo d’uva finto nella vigna e questo avrebbe dovuto attirare a sé i danni, risparmiando il resto.
Columella scrive invece della ricerca di metodi razionali per decidere il momento ideale della raccolta. Egli passa in esame i sistemi proposti da diversi autori, come la valutazione della mollezza dell’acino, del colore e della lucidità del frutto, addirittura dal cadere delle foglie. Questo non deve stupire però, anche perchè all’epoca spesso si facevano quelle che oggi noi chiamiamo “vendemmie tardive”. Tuttavia per lui non sono sistemi sicuri, perchè possono dipendere anche da altre cause oltre che la maturità, come le intemperie dell’annata o altro. C’è chi assaggia l’uva ma anche questo metodo può essere frutto di inganno per Columella, perchè dice che non sempre si riesce a cogliere bene il rapporto fra dolcezza ed acidità, soprattutto per le varietà più aspre.
Secondo Columella, il sistema migliore e senza possibilità di sbagli è valutare il colore dei vinaccioli:
“La cosa migliore, come io stesso uso fare, è osservare la maturazione naturale di per sé. Ora, la maturità naturale si ha se, spremuti i vinaccioli, i quali si nascondono nell’acino, essi sono scuri di colore o alcuni nerissimi. Nessuna cosa, infatti, può dare colore ai vinaccioli se non il raggiungimento della maturità naturale …” (De Re Rustica”).
In effetti i vinaccioli sono un buon segnale della maturazione dell’uva. Al momento dell’invaiatura (il momento di cambio di colore degli acini), i semi da verdi diventano giallognoli o marroncini, a seconda della varietà, poi diventano sempre più scuri. Si tratta di un parametro oggettivo, sufficientemente buono per il passato e rimasto in uso per secoli. Non è però precisissimo. Infatti, diventa sempre più difficile valutare le diverse gradazioni di marrone nelle fasi finali. Oggi, per decidere il momento perfetto per la vendemmia, valutiamo un insieme di diversi parametri (vedete qui). I vinaccioli completano le informazioni necessarie, soprattutto assaggiandoli e valutando la maturazione dei tannini.
Un altro sistema consigliato in epoca antica consisteva nel valutare la crescita della dimensione degli acini che, a maturità, si ferma. Il metodo suggerito è quello di togliere un acino da un grappolo e di controllarlo dopo un po’ di tempo. Se non si è ancora a maturità, le altre bacche continuano a crescere e riempiono il vuoto lasciato dall’acino tolto. Quando gli acini non crescono più ed il buco non viene riempito, allora si è pronti. Anche questo sistema si basa sull’attenta osservazione di quanto succede in vigna. Come il precedente, è un sistema abbastanza buono, ma non permette la finezza che cerchiamo adesso.
In ogni caso, queste conoscenze erano avanzate per l’epoca. Molto probabilmente erano conosciute e messe in pratica solo da chi aveva la cultura per leggere i trattati agrari di allora. Sicuramente la maggior parte dei vignaioli raccoglieva l’uva senza conoscere queste tecniche e senza grande precisione per la maturità, come è successo nella stragrande maggioranza delle vigne fino a non molto tempo fa.
Quando si raccoglieva nel passato? I vignaioli spesso raccoglievano nello stesso periodo tutti gli anni, quando iniziava il vicino, quando avevano tempo dalle altre incombenze, ecc. In epoca antica si andava anche a chiedere agli indovini. Infatti Catone e Columella, nei loro testi, “sgridano” i vignaioli che si affidano ad astrologi, aruspici o altre fonti simili per decidere il tempo della vendemmia, invece che imparare il loro mestiere!
Quando vendemmiavano?
Columella ci offre la testimanianza più precisa sulle date della vendemmia, nel suo calendario dei lavori agricoli (libro XI del De re rustica). Scrive nella seconda metà del I sec. d.C., per cui nel periodo climatico dell’Optimum Romano. Il periodo della vendemmia sembra molto simile al nostro.
Nel calendario mensile dei lavori, Columella inizia a parlare di vendemmia ad agosto, quando dice che si inizia a raccogliere l’uva nelle terre con climi notevolmente caldi, come la Betica, nel sud della Spagna (quella dello zio Marco) e il nord Africa. All’inizio di settembre, scrive, si inizia a vendemmiare nei luoghi vicini al mare e quelli caldi in generale. Nella seconda metà del mese, afferma che ormai si raccoglie un po’ ovunque. Infine, ad ottobre si vendemmia anche nelle zone più fresche. Ricordo che ai tempi di Columella si seguiva il Calendario Giuliano, noi quello Gregoriano, ma più o meno i mesi coincidono.
La raccolta era fatta con piccoli falcetti ricurvi, detti falcula vindimiatoria. Per raggiungere i grappoli delle alberate, si usavano scale. Plinio raccomanda di non raccogliere l’uva calda e neppure quella ricoperta di rugiada, ottimi consigli anche per oggi. I grappoli erano riposti in ceste, come si vede in tanti mosaici o affreschi romani, oppure in contenitori di legno, come scrive Catone.
Quanto produceva una vigna dell’antica Roma?
“Vinea est prima, si vinum multum siet”
Così scriveva Catone nel II secolo a.C.: “La vigna è la più conveniente fra le coltivazioni, se produce molto vino”.
Infatti, in generale, rispetto ai nostri parametri, la produzione raccontata dai Rustici Latini è veramente alta, come già abbiamo visto in anteprima con la meravigliosa vigna di Palemone (qui).
Per i Romani, come in tutte le epoche passate anche più vicine a noi, il valore della vigna era legato all’alta produttività, anche se riconoscevano un’opportuna riduzione delle rese per i vini di grande pregio. Tolta questa piccola parte, la grande massa di uva serviva a produrre grandi quantità di vino a basso costo. I vari autori antichi ci forniscono alcune stime.
In Cispadania (attuale Emilia Romagna e anche parte delle Marche) sembra che si producesse in media intorno ai 10 cullei* di vino per jugero* (circa 200 hl/ per ettaro), con punte estreme di 15 cullei (circa 320 hl/ha). Rese un po’ più basse sono testimoniate per il centro Italia. Vi ricordate la meravigliosa vigna di Palemone che, secondo Svetonio, produceva 360 grappoli per ogni vite? Anche Columella la cita, dopo che era passata sotto la proprietà di Seneca, con una produzione di 8 culei per jugero (circa 170 hl/ha). Columella afferma che era meglio cessare l’uso di una vigna se questa fosse scesa al di sotto dei 3 cullei per jugero (circa 65 hl/ha). Naturalmente, da questa considerazione erano escluse le poche vigne pregiate, per le quali si citano anche minimi di 1 culleo/jugero (circa 21 hl/ha).
Considerate che oggi abbiamo una resa media in Italia che si aggira intorno ai 100-120 q.li di uva per ettaro (esattamento 108 q.li/ha nel 2019), che corrispondono a circa 75-90 hl di vino per ettaro. In Toscana, dove di media la qualità è molto alta, nel 2019 la resa media è stata di 66 q.li/ha, cioè poco più di 50 hl/ha. (Questi dati li ho presi dall’utilissimo blog “I numeri del Vino“, qui)
Le rese romane sono quindi enormi rispetto alle nostre, considerando anche che all’epoca le vigne non avevano la densità d’impianto di oggi, anzi, spesso erano in coltura promiscua. Quindi, ogni singola vite produceva quantità di uva esagerate. Ricordiamoci anche che la forma di coltivazione più diffusa era la vite maritata, che è molto espansa e porta ad alte produzioni.
Certi studiosi hanno giustificato questi numeri pensando che fossero le rese massime possibili. C’è chi sostiene che non debbano essere presi esattamente alla lettera, col sospetto che alcuni autori romani possano peccare di una certa enfasi quando vogliono lodare qualcosa. Ciò non toglie che la quantità, per la produzione di massa, non mancava di certo.
Per ora ci fermiamo qui, sulla soglia della cantina, col cesto in spalla. Ci entreremo un’altra volta.
*Unità di misura citate in questo articolo:
L’unità di misura della capacità riferita alla produzione del vino era il culleus, che corrispondeva ad un grande otre in pelle di circa 520 litri, la più grande unità di volume romana. Sotto ad esso c’era l’anfora, amphora, che corrispendeva a circa 26 litri. Ci volevano 20 anfore per fare 1 culleus. L’unità di misura di base era il sextarius, il sestero, che corrisponde a poco più di mezzo litro (circa 540 ml). 1 amphora= 48 sextarii.
L’unità di misura più usata per le superfici agricole era lo jugerum, circa 2553 m2, più o meno ¼ di ettaro (che, ricordo, è 10.000 m2). L’unità di base era l’actus quadratus, la metà dello jugero.
Bibliografia:
“L’agricoltura di Lucio Giunio Moderato Columella” volgarizzata da Benedetto del Bene, con annotazioni adattate alla moderna agricoltura e con cenni sugli studi agrari d’Italia del cav. Ignazio Cantù, Milano, dalla Tipografia di Giovanni Silvestri, 1850.
“Interventi di bonifica agraria nell’Italia romana”, a cura di Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ed. L’Erma di Bretchneider, 1995.
“Il vino nel «Corpus iuris» e nei glossatori”, Cornelia Cogrossi, (2003) In: La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento. Atti del convegno (Monticelli Brusati, Antica Fratta, 5-6 ottobre 2001). Centro culturale artistico di Franciacorta e del Sebino, Brescia, pp. 499-531.
“Interventi di bonifica agraria nell’Italia romana”, a cura d Lorenzo Quilici e Stefania Quilici Gigli, ed. L’Erma di Bretchneider, 1995.
“Storia dell’agricoltura italiana: l’età antica. Italia Romana” a cura di Gaetano Forni e Arnaldo Marcone, Edizioni Polistampa, 2002
“Terra e produzione agraria in Italia nell’Evo Antico”, M. R. Caroselli.
“Meteo, clima e storia. Le variazioni climatiche del periodo Romano”. Marco Rossi, 2007.
“Studi sui Libri ad edictum di Pomponio”, Emanuele Solfi, 2002, ed. LEM
“Origini della viticoltura”, Attilio Scienza et al., Atti del Convegno, 2010.
“La viticoltura e l’enologia presso i Romani”, Luigi Manzi, 1883.
“Storia della vite e del vino in Italia”, Dalmasso e Marescalchi, 1931-1933-1937.
“Storia del paesaggio agrario italiano”, Emilio Sereni, 1961.
“Il vino nella storia”, Enrico Guagnini, 1981.
“Il vino, storia, tradizioni, cultura”, Hugh Johnson, 1991.
“Contadini perfetti e cittadini agricoltori nel pensiero antico”, Valerio Merlo, Alce Nero.