In questi giorni stiamo facendo in vigna la potatura secca (o invernale), che è il più importante fra tutti i lavori utili ad indirizzare le viti ad un equilibrio armonioso. Con questo post cercherò di farvi capire a grandi linee come e perché facciamo questo lavoro.
Prima di tutto vorrei sottolineare che niente è improvvisato: ci basiamo su un sapere che nasce da millenni di cultura contadina, approfondito ed ampliato poi dalle conoscenze sulla fisiologia della vite e le sue relazioni con l’ambiente che gli sta intorno. Per coltivare al meglio una pianta, è necessario conoscerla. Solo così è possibile rispettare i suoi equilibri ed intervenire in modo rispettoso ma utile.
È importante non fare errori nella potatura, altrimenti non riusciremo a produrre grandi vini di territorio. Sbagliare, o fare una cattiva potatura per trascuratezza o scarsa competenza, significa limitare l’espressione di tutta la potenzialità della propria vigna e/o danneggiarla a tal punto da accorciarle la vita.
In pratica, quando la vite è in riposo, tagliamo i tralci dell’anno passato, lasciando un certo numero di gemme. Queste sono da valutare attentamente, perchè determinano la produzione che avrà la vite l’annata seguente. Numero e distribuzione delle gemme definiscono anche lo spazio di vita della pianta, cioè quella che è chiamata forma di allevamento. È importante perchè da essa dipende l’equilibrio fra tutte le parti della vite (tronco, radici e chioma), in relazione all’ambiente in cui vive.
Il taglio va valutato pianta per pianta, vigna per vigna. Può essere fatto solo a mano, da persone esperte. Nessuna scelta è casuale nella buona gestione del vignaiolo: se avrete la pazienza di andare fino in fondo a questo post lo capirete.
Non è comunque l’unico lavoro che agisce sull’equilibrio complessivo, per cui deve essere fatto con una visione d’insieme, inserito in un ciclo iniziato con la nascita stessa della vigna, come è evoluta nel tempo e pensando già ai lavori successivi. In vigna niente è separato dal resto.
Cosa succede se non si pota la vite?
Se non si pota, come succede alla vite selvatica in natura o come si faceva nelle forme di viticoltura primitiva, la pianta tende a crescere molto e a produrre tanti grappoli. Sono piccoli, poco dolci e poco equilibrati. È un’uva che va bene per essere mangiata dagli animali selvatici o per fare un vino rudimentale.
Gli antichi viticoltori iniziarono però a capire con l’esperienza che, potando, riuscivano a produrre un’uva migliore, più dolce, più buona, che produceva un vino molto più interessante. Da allora in poi questa pratica non è stata più abbandonata ma affinata al punto da essere diventata quasi un’arte.
La vite non potata tende anche ad avere una notevole alternanza produttiva. Significa che un anno si ha una produzione abbondante, l’anno dopo invece ci sarà pochissima uva o praticamente niente, e così via (al di là delle normali fluttuazioni delle annate legate all’andamento stagionale).
Quando si pota:
La potatura si fa quando la vite è nella fase di riposo invernale.
Bisogna considerare che il tempo della potatura condiziona quello del germogliamento primaverile. Prima si pota e prima la vite germoglierà (e viceversa). In genere, noi vignaioli vogliamo evitare che il germogliamento sia troppo precoce, perchè l’inizio della primavera è quello più a rischio di maltempo. Ci potrebbero essere gelate o grandinate, che potrebbero danneggiare i germogli. Per questo, in genere, si cerca di spostare la potatura il più avanti possibile. Dipende comunque molto dal proprio clima: il rischio è massimo nel nord Italia, minimo al sud, con tutte le variabili possibili. Da noi, è legato essenzialmente a possibili gelate causate dai venti di grecale o tramontana.
Bisogna anche tener conto, soprattutto per chi sta nei climi più freddi, che alcune varietà sopportano meno bene i geli invernali se sono state già potate. In questo caso sarebbe meglio aspettare di aver superato il periodo più gelido.
Infine, bisogna fare i conti con le proprie forze e la dimensione delle proprie vigne, per calcolare i tempi esatti, perché il lavoro deve essere terminato, in ogni caso, prima del “pianto della vite”. Si tratta della fuoriuscita di goccioline dai punti di taglio del legno: è il segnale della ripartenza del circolo della linfa nella pianta, il primo segno del prossimo sviluppo dei germogli.
Gli strumenti del vignaiolo.
Fino a non molto tempo fa i contadini usavano strumenti da taglio diversi per ogni regione. A nord si usava soprattutto la roncola, nel centro e nel sud, come da noi, il pennato (nel disegno), con diverse forme a seconda delle zone. Questi attrezzi rendevano il lavoro difficile: bisogna fare attenzione a non ferirsi, a non ferire troppo la pianta (per evitare l’ingresso di malattie e parassiti) e ci voleva una certa forza. Nell’Ottocento si è cominiciato ad usare le forbici a molla e questo ha reso il lavoro un po’ più semplice. Oggi si usano ancora queste, a volte elettriche o pneumatiche, che riducono la fatica e l’usura delle mani. La sega si usava e si usa solo per tagli di rami particolarmente grossi o parti di tronco.
Per questioni di sostenibilità, oggi molto spesso si fa anche la pre-potatura (come facciamo anche noi). È un taglio dei tralci molto grossolano, fatto con un attrezzo apposito portato dal trattore. Poi i potatori lavorano di fino, col taglio di potatura vero e proprio. La pre-potatura consente di eliminare la perdita di tempo e la fatica di districare i lunghi tralci, avvolti intorno ai fili e fra di loro. La velocità è importante perchè, come scritto, spesso la finestra temporale di lavoro non è molto larga.
Cosa ce ne facciamo dei tralci?
Come da tradizione, noi spezzettiamo i tralci tagliati nel vigneto e li usiamo per fare compost, utile a recuperare sostanza organica nella vigna. C’è anche chi li brucia, ma è poco ecologico ed è anche uno spreco. Il compost vegetale, che facciamo anche con tutti gli altri resti vegetali (raspi, erba, ecc.), contribuisce ad arricchire il suolo soprattutto di azoto, calcio e potassio. L’alto indice di biodiversità favorisce la mineralizzazione della sostanza organica e la corretta distribuzione di questi nutrienti.
Scendiamo nel dettaglio:
Un equilibrio molto delicato e complicato.
La vite indirizza la sua energia a diverse finalità: la crescita di tutte le sue parti (legnose e verdi), la formazione e sviluppo del grappolo, il deposito degli zuccheri e altri composti organici negli acini, l’accumulo di sostanze di riserva. Tutte queste funzioni sono fondamentali per un ottimale equilibrio della vite (e della vigna nel complesso) perché cresca bene, dia buona uva e abbia una lunga vita.
La potatura (con altri lavori successivi) agisce sulla regolazione del vigore della vite, indirizzando la sua energia prima di tutto alla produzione di uva equilibrata ma preservando sempre un sviluppo armonioso della pianta.
Questi lavori sono condizionati pesantemente dal territorio (clima e suolo), della varietà, del portinnesto, ecc., tutti elementi che bisogna conoscere bene per fare le scelte ottimali. A seconda delle diverse condizioni, a volte può essere necessario stimolare il vigore della pianta, a volte è meglio limitarlo.
Una vite troppo vigorosa tende a crescere tanto in tutte le sue parti, producendo tanta uva ma scadente. Anche una vite troppo debole non produrrà il miglior vino che potrebbe esprimere. Manca di energia e non riesce ad accumulare nel grappolo tutti i composti organici necessari. Inoltre non “starebbe bene” in generale: non riuscirebbe a compiere il rinnovo vegetativo, a depositare le sostanze di riserva negli organi perenni. Questo comprometterebbe l’equilibrio della pianta, compreso il lavoro ottimale delle radici, con ripercussioni importanti sulla vita presente e futura della vite.
In entrambi casi si avrebbe uva di scarsa qualità, per ragioni opposte, che matura male. Non si tratta solo di un accumulo sbilanciato degli zuccheri (troppi o troppo pochi). Sarà anche un’uva che produrrà un vino con un’acidità non equilibrata, che potrebbe mantenere caratteri erbacei, che non riuscirebbe a sviluppare complessità aromatica, ecc.
Il ciclo della vite è circolare: dorme in inverno, si sveglia in primavera, germoglia, cresce, fruttifica e torna a dormire. Non è però un ciclo chiuso: ogni anno è strettamente connesso al precedente. Le gemme che germoglieranno la prossima primavera si sono formate l’anno prima, così come le riserve della pianta. Queste gemme, che restano dormienti fino alla primavera successiva, sono dette “ibernanti”. Sono quelle che decidiamo di tenere o meno con la potatura.
La gemma ibernante si sveglia a primavera, germoglia e forma i nuovi tralci. Sugli internodi dei tralci nascono le foglie, i grappoli, i viticci e nuove gemme. Si formano sia quelle ibernanti (che “serviranno” l’anno dopo) che quelle dette “pronte” o “laterali”. Queste ultime sono attive nella stessa annata in cui nascono: svilupperanno i rami laterali nel corso della primavera e dell’estate. Per ora però non ci interessano.
Se affettiamo una gemma ibernante nel suo anno di nascita e la guardiamo al microscopio, vediamo che all’interno c’è l’abbozzo del futuro tralcio, sul quale compaiono già gli abbozzi dei futuri grappolini. Il loro numero indica la fertilità della gemma.
Capite quindi perché l’andamento più o meno buono dell’anno precedente condiziona anche la produzione di quello successivo? La fertilità dipende da tanti fattori, come la varietà, il vigore della pianta o del singolo tralcio (cresce con la crescita del vigore ma i due estremi invece, troppo o troppo basso, riducono entrambi la fertilità), ecc.
Da questa osservazione al microscopio, possiamo anche vedere che nella gemma non c’è solo un abbozzo di futuro tralcio. Al centro ce n’è uno, il più grande, chiamato “asse principale”. Vicino ce ne sono altri due (o uno) più piccoli. Sono chiamati gemme secondarie o di controcchio. Sono come delle “riserve”: se l’asse principale muore per qualche ragione, si sviluppano le gemme di controcchio, che però in genere non sono fertili.
Non proprio tutte le gemme ibernanti lasciate con la potatura si svilupperanno. Alcune muoiono, altre ancora possono rimanere latenti, come riserva della pianta in caso di necessità. Vengono inglobate nel legno in crescita e possono svilupparsi anche dopo parecchi anni. Sono risvegliate da eventi particolari, difficili per la vita della pianta (colpi, gelate, potature drastiche, ecc.) che stimolano queste riserve segrete di sopravvivenza. Quando si svegliano, formano dei rami bassi, sterili, detti succhioni. In genere i vignaioli li eliminano con la potatura verde. A volte però tornano utili, perché questi tralci bassi si possono impiegare per riformare le parti strutturali di una pianta che sono state danneggiate da traumi o parassiti.
La carica delle gemme.
Un elemento chiave della potatura, che cambia il flusso del vigore della pianta, è la carica delle gemme da lasciare, cioè il numero di gemme per ceppo (per singola vite).
Questa scelta dipende da tanti fattori. Molto in generale, un numero troppo alto di gemme causerebbe un eccesso di uva prodotta, troppo basso indurrebbe una crescita troppo vigorosa delle parti verdi, sottraendo energia alla maturazione dei grappoli. Dipende però molto dalla propria situazione particolare: dalla varietà, dal portinnesto, dal proprio clima, suolo, densità delle viti, di come sono andate le annate precedenti, ecc.
Il sistema migliore per capire la carica ottimale è solo l’esperienza e la conoscenza. Oltre che conoscere le basi, è necessario vivere la propria vigna, fare piccole prove ed osservazioni accurate, portate avanti negli anni, che ci fanno comprendere se stiamo lavorando bene oppure no.
Questo equilibrio deve anche essere il più possibile continuo. Cambi troppo drastici, anche se di correzione, possono essere a volte più dannosi che utili. Infatti, alterano troppo bruscamente un equilibrio ormai impostato, che riguarda tutta la pianta, non solo la chioma (tralci e foglie). Per questo è importante valutare certi cambiamenti in modo integrato, considerando tutti i lavori dell’anno in vigna.
Potatura corta o lunga?
Un altro elemento chiave della potatura è se viene fatta lungo o corta. Questo dipende dal fatto che le gemme non hanno sempre la stessa fertilità lungo il tralcio. Lo si sapeva fin dai tempi di Columella. Dipende molto dal clima ma anche dalle varietà.
Perché dal clima?
Nei climi più freddi, le gemme che stanno sui primi internodi (dette prossimali) “vengono un po’ male”, non formano gli abbozzi dei grappoli (in termini scientifici, si dice che non differenziano bene). Saranno quindi poco o per nulla fertili. Questo succede perché sono le prime a svilupparsi, all’inizio della primavera. In questi climi, questo è un momento poco favorevole, sia per le condizioni ambientali (ancora difficili), sia per il fatto che la pianta non è ancora ben nutrita. Lo stesso succede nella tarda estate, per le gemme degli ultimi internodi. Le più fruttifere sono quelle che nascono nel momento migliore di vita della pianta e che si trovano nella parte intermedia del tralcio (dette anche distali, cioè distanti dall’inizio del tralcio).
Nei territori più caldi, come nel nostro caso, questo di solito non succede, perché il clima è buono fin da subito, per cui sono fertili anche le gemme dei primi internodi. In questo caso è sempre meglio potare corto. Se si pota lungo, si lascerebbero troppe gemme fertili e si avrebbe troppa produzione.
Alcune varietà però si comportano in maniera diversa, indipendentemente dal clima. Quindi, possono essere fertili sulle prime gemme anche in climi freddi. Viceversa, possono produrre meglio sulle gemme distali anche in climi caldi.
Dove è possibile, comunque, di solito si preferisce sempre la potatura corta, che in genere dà un migliore equilibrio fra foglie e grappoli, con una maturazione migliore. Con questa potatura, tagliando il tralcio, rimane un moncone corto detto sperone (in passato anche cornetto o custode).
La potatura lunga o media si fa invece più frequentemente nel nord, nei climi più freschi, oppure è necessaria per alcune varietà. Col taglio, rimane un pezzo di tralcio più lungo, con più internodi, dalle cui gemme nasceranno in primavera i nuovi tralci fruttiferi.
Ci sono anche sistemi di potatura mista, con alcuni tralci tagliati corti ed altri lunghi. Sono necessarie per certe forme di allevamento, per la necessità di avere sia i tralci fruttiferi che per rinnovare le parti legnose.
Continuo a scrivere “in genere” perché questi aspetti sono molto variabili e solo l’esperienza e la conoscenza della propria situazione portano alla scelta migliore.
Potatura d’allevamento.
La potatura di produzione, di cui abbiamo parlato finora, dipende molto anche dalla forma di allevamento della vite.
Nei primi anni di vita di una vigna, la potatura stessa si dice di allevamento. Non ha finalità produttive ma serve a far crescere bene la piccola vite e a portarla a prendere la forma di allevamento utile per quel territorio.
Sulle forme di allevamento ci tornerò con più dettagli, ora vediamole solo in modo molto generale per quanto si aggancia alla potatura e alle scelte principali.
Fra le tante forme di allevamento (e in Italia ne abbiamo veramente tante!), una differenza sostanziale è l’altezza del tronco della vite. Questo elemento cambia notevolmente gli equilibri della pianta. All’interno del tronco ci sono dei vasi che portano in giro per la pianta quanto viene assorbito dalle radici (acqua e sali minerali) e, viceversa, quanto prodotto dalle foglie (le sostanze organiche e l’energia). Più il tronco è lungo, più si perde energia solo per questi trasferimenti, sottraendola al resto. Ci sono però anche esigenze diverse. che dipendono da tanti fattori, che possono rendere più o meno utile avere il tronco più o meno alto. Per esempio, in ambienti dove la vigoria non è un problema ma ci sono rischi di umidità e gelate, può essere più utile avere il tronco alto, per allontanare i grappoli dal suolo.
La forma d’allevamento e la potatura condizionano anche la disposizione della chioma. Se ci fate caso, ci sono vigne con i rami in verticale, in altre sono più o meno inclinati, se non addirittura ricadenti. Anche questo orientamento non è casuale. L’attività di vegetazione, il vigore di un tralcio, è infatti favorito dalla posizione verticale. Questa viene in genere preferita dove ci sono condizioni ambientali limitanti per la vite. Più il ramo è piegato rispetto alla verticale, più perde in vigoria, per cui si trova spesso nei territori dove si vuole contrastare un vigore troppo elevato. È un fenomeno che dipende anch’esso dai complessi trasporti interni della pianta.
Ci sono poi sistemi di allevamento dove i tralci sono più o meno affastellati, disposti a fare cerchi, pergolati, ecc. In generale, i tralci troppo uniti e sovrapposti favoriscono il ristagno d’umidità, le malattie, limitano l’assorbimento della luce del sole da parte delle foglie, ecc. Tutte queste scelte dipendono molto dalla situazione particolare della vigna. Ad esempio, nei climi molto siccitosi l’affastellamento limita la perdita d’acqua, riducendo la traspirazione. Dove c’è invece poco sole, è invece meglio disporre rami e foglie in modo che prendano al massimo l’energia solare, senza troppe sovrapposizioni che favoriscono anche l’umidità e quindi malattie e marciumi, più frequenti nei climi umidi, … Le variabili sono molte.
Le nostre forme di allevamento e di potatura.
In un clima come il nostro, caldo ed arido d’estate, un po’ più piovoso in inverno e in primavera, suolo magro e ben drenato (alluvionale), le forme migliori sono quelle basse, sottoposte a potatura corta, a volte medio-lunga (a seconda delle varietà), con chioma verticale. Per questo abbiamo il Guyot e il cordone speronato.
Guyot: è un sistema tradizionale antichissimo italiano. Eppure, è stato erroneamente attribuito a questo agronomo francese, Jules Guyot, che lo ha descritto e ha contribuito a diffonderlo nel suo paese nel XIX secolo. È una forma poco produttiva e di alta qualità. Si trova in molte parti d’Italia, dalla Sicilia al Piemonte. È un sistema di potatura misto. Per noi è perfetto per quelle varietà che sono più fertili nelle gemme distali. È una forma poco espansa, adatta a terreni poco fertili e siccitosi, dove la vite ha in genere uno sviluppo contenuto. Quando si pota si tengono due capi: un tralcio potato lungo sarà il capo a frutto, l’altro si pota a sperone, che servirà per il rinnovo del legno dell’anno successivo.
Cordone speronato: anch’esso tradizionale, deriva dal Guyot. In questo caso però c’è solo la potatura corta. È adatto a terreni di bassa o media fertilità, anche asciutti, per quelle varietà che hanno buona fertilità sulle gemme prossimali (le prime). Si trova molto in Toscana e altre regioni del centro. Durante i primi anni di allevamento, il tralcio migliore viene messo in orizzontale e diventa un elemento strutturale della pianta. Le gemme della parte di sotto sono accecate (eliminate). In primavera, dalle gemme superiori si formeranno i tralci fruttiferi. L’anno seguente ogni tralcio sarà tagliato a sperone, formando il cordone. Ogni anno successivo si taglierà con potatura corta. Questo sistema ha avuto successo e si è diffuso per l’ottima gestione della qualità della vigna ma anche per una potatura semplice e veloce.
Nelle nostre vigne storiche abbiamo anche:
Alberello: presente tradizionalmente nei luoghi di antica cultura greca o fenicia, una delle forme più antiche. È adatto a terreni estremamente siccitosi, scarsamente fertili, oppure ventosi o molto freddi, dove conviene avere una vegetazione contenuta e che rimane prossima al terreno. È nel punto più basso della scala di produttività, con gradazioni zuccherine fra le più alte. Si trova in Valle d’Aosta (che è semiarida) e Sicilia, per ragioni climatiche opposte. La potatura può essere cortissima, come da noi (l’alberello greco vero e proprio, la vites capitatae di Columella), corta o anche lunga o mista, a seconda dei territori e delle varietà.
La pergola: la raffigurazione più antica è nelle tombe Egizie, dove è rappresentata a forma di tunnel, come noi l’abbiamo riprodotta a Guado al Melo. Ai tempi dei romani si idearono pergole orizzontali, chiamate jugatio compluviata, per coprire viali e terrazze, descritte sia da Columella che da Varrone. Se ne sono poi sviluppate tantissime varianti, alcune più adatte all’uva da tavola, altre a quella da vino. È una forma a vite alta, con i tralci ben distribuiti su una superficie più o meno inclinata, per captare al massimo i raggi solari, evitare i ristagni di umidità, ma non dare eccessivo vigore. Per il vino, è molto usata nelle zone di montagna, come il Trentino. La potatura può essere di diverso tipo, a seconda dei territori e delle varietà.
La vite alberata o maritata: una delle forme più antiche in assoluto, quella della nostra tradizione primigenia. Ne ho già parlato a lungo (qui, qui e qui). Nelle forme primitive non era potata per nulla. Più tardi e fino al Novecento, era sottoposta a potatura lunga e rada (ogni due anni o anche tre). Era il sistema che garantiva più longevità in assoluto alla vite, che diventava di frequente ultracentenaria (prima che arrivasse la fillossera a complicare la vita dei vignaioli).