(puntate precedenti qui, qui e qui)

Finora abbiamo parlato di ricerca pura, ma per la produzione di vino?

HansenL’applicazione pratica delle importanti scoperte fin qui descritte avvenne grazie soprattutto al microbiologo danese Emil Christian Hansen (1842-1909), alla fine dell’Ottocento. Egli conosceva gli studi di Pasteur e cercò un’applicazione pratica per il suo settore, la birra, che presentava problemi produttivi (legati alle fermentazioni) ancora più gravi che il vino. Lavorava per il grande birrificio danese Carlsberg.

Hansen riuscì a capire che le fermentazioni andavano spesso male proprio per la compresenza di diversi tipi di lieviti. Alcuni risultavano essere utili, altri invece erano dannosi, al punto da compromettere il processo. Lavorò allora sull’isolamento dei singoli ceppi, al fine di creare colonie pure. Ideò un sistema (nel 1883) che permetteva la propagazione da queste colonie pure, per l’uso produttivo. In particolare, egli isolò un lievito “utile”, che battezzò Saccharomyces carlsbergensis, ancora fondamentale per il settore della birra.

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Apparato di Hansen per la propagazione dei lieviti

Hansen era un filantropo: decise di non brevettare la sua scoperta ma la pubblicò con indicazioni operative dettagliate, offrendola al servizio di tutti. Il suo lavoro fece fare un salto in avanti notevole a tutte le produzioni di bevande fermentate. Gli studi di Hansen furono la base infatti anche per i molti selezionatori che nei decenni successivi lavorarono sui lieviti del vino. Fra i primi, pochi anni dopo il lavoro di Hansen, si ricorda il botanico ed agronomo svizzero Hermann Müller (1850-1927), anche creatore del famoso incrocio Müller-Thurgau (Riesling renano e Madeleine Royal).

Nel 1893 nacque a Scandicci (FI) un centro di ricerca che ebbe grande rilevanza per lo studio e la selezione dei lieviti, l’Istituto per la produzione di Fermenti Selezionati Zimotecnico, fondato da docenti e studiosi dell’Istituto Agrario locale. Questo centro fu supportato e collaborò con la Scuola Enologica di Conegliano e poi con tanti esperti del settore. I lieviti qui selezionati erano messi gratutitamente a disposizione di tutti gli enologi e produttori di vino che ne facevano richiesta.  Questo Istituto divenne privato nel 1933 ed opera ancora oggi.

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Un testo d’inizio ‘900 della nostra esposizione storica.

Il principio generale della selezione di un lievito è semplice: si prende l’insieme eterogeneo dei microorganismi presenti in una cantina dove le fermentazioni procedono da anni senza particolari problemi. Poi si isolano i diversi microrganismi, si creano colonie pure e ciascuno è studiato per capire come si comporta durante la fermentazione. In questo modo si selezionano quelli con un’azione migliore sul processo.

La fase pionieristica delle selezioni si concentrò sulla soluzione dei problemi fondamentali della fermentazione. Si cercarono quindi quei lieviti con ottime capacità fermentative, capaci di mettersi all’opera quanto prima, di resistere bene all’accumulo di alcool, di non produrre troppo acido acetico, ecc. Solo più tardi si sono aggiunte selezioni rivolte agli aspetti più diversi e sempre più sofisticati, come ad esempio la ricerca di una specificità rispetto a certe varietà di uva, ecc.

Piastra con colonie di lievito.
Piastra con colonie di lievito.

Non dobbiamo però focalizzare l ‘attenzione solo su questo punto. Tutte queste fasi di studio sui lieviti sono state anche fondamentali per aumentare sempre più le conoscenze sui processi fermentativi nel loro complesso. Infatti  la risposta ai gravi problemi produttivi del passato sulla fermentazione, superati nel corso del Novecento, non è stata data da un singolo accorgimento ma dalla sinergia di una serie di azioni ben calibrate.

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In cantina gli ottimi risultati di vinificazione dipendono da un insieme di elementi che devono essere gestiti in modo attento e coordinato tra loro.

Nel corso del Novecento si è riusciti finalmente ad arrivare ad alti standard d’igiene nelle cantine. Vi ricordate che questo aspetto era stato già intuito da Columella e sicuramente anche successivamente. Tuttavia nei tempi passati era difficilmente ottenibile. In epoca moderna è stata sempre più perfezionata grazie a tanti fattori (pensiamo all’introduzione nelle cantine degli scarichi, la rete idrica, l’elettricità, detergenti e disinfettanti, il miglioramento generale dell’istruzione,…). Sicuramente l’igiene fu anche favorita dal passaggio a vasi vinari in materiali sempre più pulibili e sanificabili, come l’acciaio.

Anche la gestione delle temperature del processo si sa che è fondamentale da tempo. Nel passato le temperature però si subivano, al più si poteva cercare di sfruttare i cambi stagionali per svolgere certe operazioni.  All’inizio del Novecento in realtà ci fu un certo regresso in questo senso, con la diffusione delle cantine fuori terra per questioni di maggiore economia (e spesso anche vasche esterne).  Dagli anni ’60, con una nuova comprensione degli effetti delle temperature sui vini, si è iniziato prima a dotare le cantine d’impianti di condizionamento molto dispendiosi, per poi tornare, soprattutto negli ultimi decenni, a costruire le cantine ipogee, come in passato. Si è iniziato a dotare anche le vasche di sistemi di controllo e possibilità di variazione delle temperatura, importante in fermentazione ma anche per per la pulizia dei vini, sfruttando fenomenici fisici di precipatazione legati al freddo.

Da Pasteur in poi si è sempre più affinata la comprensione della gestione dell’ossigeno: un’esposizione attentamente controllata è fondamentale per la buona riuscita del processo. L’uso sempre più diffuso di vasi vinari chiusi, con la possibilità di esporre il vino a ossigenazioni controllate quando necessario, ha diminuito sempre più certi problemi microbiologici ed ossidativi.

A tutto questo si è aggiunto nel corso del Novecento anche l’uso della solforosa (di cui parleremo a parte), una miglior comprensione della necessità di lavorare con uve di grande qualità e soprattutto sane, una sempre maggior consapevolezza a lavorare sulla pulizia del vino, ecc.

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Reidratazione di un lievito selezionato prima dell’aggiunta in una vasca (foto di Jason Phelps)

Si è anche approfondito sempre più lo studio sulle necessità nutritive dei lieviti, non solo in termini di zucchero, ma di composti azotati e vitamine per avere vini interessanti. Questi composti, in una produzione artigianale, derivano da uve ben equilibrate. Su questo punto purtroppo non si è al sicuro neppure oggi. Il ritorno, in alcuni casi, a concenzioni filosofiche naturalistiche un po’ distorte, porta alla conduzione di vigne eccessivamente stentate che producono uve povere di questi elementi, con la conseguente difficoltà fermentativa e la nascita di vini non molto espressivi (se non difettosi). Nelle produzioni più industriali questo punto si è risolto con l’aggiunta in fermentazione di elementi nutritivi specifici.

Si sono capiti sempre meglio i ruoli e soprattutto gli equilibri determinati da pH, acidità e tante altre sostanze (ora non è il caso di scendere ancora di più nei particolari in questa sede). Si è affinata sempre più anche la comprensione di come un determinato ceppo di lievito possa avere più o meno influenza sulle caratteristiche del vino.

GRASSI. CARBOIDRATI. La biochimica e il metabolismo dei lieviti sono sostanzialmente simili a quella umana. . In una forma semplificata ,la nutrizione umana è basata su carboidrati (fonte di carbonio), proteine (fonte di azoto), grassi, vitamine e sali minerali. La nutrizione dei lievito richiede anche fonti di carbonio e di azoto, vitamine e minerali. Non è quindi sorprendente che molti alimenti umani possano svolgere un ruolo di supporto eccellente nella crescita del lievito. Le fonti di carbonio preferite per l’assimilazione nei lieviti sono gli zuccheri semplici, e in misura minore gli zuccheri esistenti negli alcoli, o acidi organici. Relativamente pochi i lieviti possono utilizzare i carboidrati complessi come l amido. Allo stesso modo la maggior parte dei lieviti non ha praticamente alcuna attività proteolitica e non sono quindi in grado di crescere su proteine come fonte di azoto. Un eccezione a questo può essere la degradazione della caseina nel latte da parte di lieviti Rossi e la conseguente alterazione dei prodotti lattiero-caseari .Fonti di azoto preferite dai lieviti sono piccole molecole, in particolare amminoacidi acidi, ioni ammonio, nitrato o nitrito per alcune specie di lievito. Alcuni lieviti mostrano attività lipolitica, per esempio Yarrowia lipolytica, e sono in grado di utilizzare i grassi (Barth e Gaillardin, 1996), ma anche questi sono lenti rispetto alla crescita su glucosio. AZOTO. VITAMINE. SALI MINERALI. Zuccheri semplici. Alcoli. Acidi organici. Amminoacidi acidi. Ioni ammonio. Ioni nitrato o nitrito.
La nutrizione dei lievito richiede fonti di carbonio e di azoto, vitamine e minerali. Le fonti di carbonio preferite per l’assimilazione nei lieviti sono gli zuccheri semplici. La maggior parte dei lieviti non ha praticamente alcuna attività proteolitica e non sono quindi in grado di utilizzare proteine come fonte di azoto, se non rare eccezioni. Le fonti di azoto preferite sono piccole molecole, in particolare amminoacidi, ioni ammonio, nitrato o nitrito per alcune specie. Ci son anche casi eccezionali di lieviti che mostrano attività lipolitica, quindi sono in grado di utilizzare i grassi (Barth e Gaillardin, 1996).

Tutto questo percorso ci ha portati ben oltre le premesse inziali. Ci ha permesso non solo di superare i gravi problemi nella produzione del passato ma anche d’aumentare sempre di più la qualità dei vini.  Certo, c’è voluto tempo perché le conoscenze tecniche si diffondessero nel mondo agrario italiano, appesentatito da una mentalità molto restia al cambiamento. Ancora negli ’70-’80 c’erano degli alti e bassi incredibili nei livelli qualitativi. All’epoca, mentre alcuni produttori già esprimevano alta o discreta qualità, molti vini erano invece ancora ricchi di difetti dovuti a carenze di conoscenze. Purtroppo ci è voluto lo scandalo del metanolo di fine anni Ottanta per far raggiungere un certo standard produttivo a tutto il comparto.

Siamo arrivati alla fine allora? Non ancora.

Arrivati negli anni Novanta, nel decennio d’oro del vino, le tecniche erano ormai affinate ed i lieviti erano ormai scontati. Si è iniziato allora a ripensare ad una riscoperta più profonda dell’artigianalità del processo, legata soprattutto alla necessità di sottrarsi ad un’omologazione sempre più spinta nel gusto dei vini. Questa sensibilità, non nuova ma portata alla ribalta, ha spinto a riflettere molto sui lieviti selezionati e il pericolo d’uniformazione che possono creare, focalizzando l’attenzione su un ritorno ai lieviti selvaggi (o indigeni o autoctoni, ci sono diverse definizioni a riguardo). Una spiegazione più dettagliata su cosa sono la trovate in altri  miei predenti post, qui e qui.

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Alla ricerca del lievito selvaggio (dal sito https://www.sam-roots.com/wild-wild-yeast/)

Intorno a questo tema è nato un dibattito, spesso molto acceso, che ha raggiunto il suo apice in questi ultimi anni. Chi sostiene la necessità dell’inoculo pensa che sia il modo migliore per eliminare ogni possibile difetto produttivo, l’unico modo per ottenere vini fini ed eleganti. Chi sostiene i lieviti indigeni crede che l’inoculo tolga complessità al vino e lo omologhi.

Chi sostiene i lieviti selezionati dice che questi non sono quei mostri tecnologici dipinti dai detrattori. Sono lieviti presi dal loro ambiente, valutati per le loro capacità e per questo riprodotti. Alcuni lieviti stravolgono gli aromi del vino? È vero, basta non usarli! C’è chi critica l’infondatezza del concetto stesso di lievito autoctono, in quanto di massima chi conduce la fermentazione sembrano essere soprattutto lieviti derivati da contaminazioni in cantina. Non c’è dubbio che oggi tendiamo spesso ad attribuire significati confusi alla “naturalità” o meno di un alimento o di un processo.

I temi sono tanti in questo dibattito e non voglio certo elencarli tutti qui. Ne ho già parlato anche nei post di cui ho messo il link poco sopra. Molti aspetti sono interessanti e apriranno sicuramente nuove prospettive nella ricerca enologica. Altri discorsi invece sono sicuramente trascurabili, banalizzati da prese di posizione aprioristiche e prive di ogni fondamento sperimentale, spesso solo utili alle esigenze del marketing: sfumeranno nel tempo fino a scomparire, come tante altre mode.

È però ormai dimostrato che più c’è varietà nella popolazione che conduce la fermentazione, soprattutto nelle fasi iniziali, più aumenta la complessità sensoriale del vino. Inoltre non siamo più nel passato: le nostre conoscenze dei diversi fattori in gioco (elencati a grandi linee sopra) ci possono permettere di gestire (e non subire) una condizione di maggiore complessità. Ricordiamo anche che il progresso delle conoscenze consente a volte anche di capire che certe scelte iper-tecnologiche tolgono più al vino di quanto aggiungano in qualità.

Senza dubbio la gestione di una fermentazione spontanea richiede situazioni di partenza specifiche, non può essere fatta sempre (soprattutto se si parte da uva di scarsa qualità, non molto sana, ecc.). Inoltre richiede molta più cura ed accorgimenti per evitare che il vino passi dalla complessità al difetto più o meno conclamato. Qui si gioca la profonda capacità e conoscenza ( = professionalità) di un vignaiolo artigiano. Il vino prima di tutto è piacere per chi lo beve. Questo aspetto non è un optional sacrificabile per difendere i propri limiti produttivi.

In definitiva consideriamo che il lievito è fondamentale nella fermentazione e saperlo gestire su un piano di complessità è sicuramente un plus che rende i vini ancora più unici ed emozionanti. Non dobbiamo però anche dimenticare che è un elemento di una serie molto complessa di eventi che partono dal territorio, dalle tante buone pratiche e scelte fatte in vigna, dal momento delicatissimo della vendemmia e da tutto quello che viene dopo. Fermarsi solo a questo aspetto per giudicare bene o meno un vino è estremamente riduttivo.

Non facciamoci incantare da certi temi che diventano la moda del momento, che sono solo la punta di un iceberg, una minima parte di quello che serve per fare un grande vino (tutto l'iceberg). Alla base di un grande vino c'è sempre lo stesso dai tempi dei tempi: un grande territorio e un vignaiolo/vinificatore esperto e sensibile.
Non facciamoci incantare da certi temi che diventano la moda del momento, che sono solo la punta di un iceberg, una minima parte di quello che serve. Alla base di un grande vino c’è un insieme molto complesso ed articolato di fattori. Le basi fondamentali su cui si poggiano rimangono sempre comunque due: un grande territorio e un produttore (e/o produttrice) esperto e sensibile.

 

Ho trovato un ampio ed articolato sviluppo di questo argomento su :http://www.innovino.it