Come visto nelle puntate precedenti (qui e qui), all’inizio dell’Ottocento si era arrivati a comprendere a grandi linee cosa succede chimicamente nella fermentazione, ma non si sapeva ancora il perché.
Questa non è una domanda da poco. Infatti la produzione di vino fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento era ancora enormemente limitata da problematiche tecniche che rendevano troppo fragile il settore. Le fermentazioni non partivano oppure s’arrestavano inspiegabilmente. Inoltre, con grande frequenza, subentravano alterazioni irrimediabili del vino, soprattutto in fase di conservazione. Per risolvere questi problemi non era sufficiente aver capito cosa succedeva. Era essenziale capire il perchè ed approfondire ancor di più il processo.
All’inizio dell’Ottocento la Francia aveva già un settore vitivinicolo molto avanzato, che rappresentava un importante fattore economico nazionale. Quindi fu lo stesso governo a stimolare e supportare le ricerche sul vino. Ad esempio, nel 1803 l’Istituto di Francia offrì un premio in 1 Kg di oro, riproposto nel 1805, a chi fosse stato in grado di dare risposte alle domande sulla fermentazione alcolica, ma nessuno fu in grado di farlo. L’attenzione rimase però altissima.
All’inizio dell’Ottocento si continuava a cercare una spiegazione sul perché della fermentazione solo da un punto di vista prettamente chimico. La teoria presa in maggior considerazione, qualche anno più tardi, fu quella del famoso chimico tedesco Justus von Liebig. Egli ipotizzò che la reazione avvennisse per via del moto delle molecole. Questo causerebbe degli scontri che portano ad un disequilibrio nelle forze che tengono insieme la molecola di zucchero, ottenendo come risultato la sua decomposizione in sostanze più semplici.
Una spiegazione puramente chimica era la più accettabile e lineare col pensiero di quel tempo. All’epoca si conosceva già l’esistenza dei microrganismi, ma non erano presi molto in considerazione. Anche quando alcuni primi studi sembrarono dimostrare un ruolo dei microrganismi nelle fermentazioni, ci volle diverso tempo perchè fossero accettati.
Il pensiero dominante dell’epoca era che i microrganismi fossero un mondo a parte, da non prendere in considerazione, un universo in miniatura che non poteva avere influenza sul nostro. Inoltre da secoli predominava il cosiddetto vitalismo, già accennato rapidamente con van Helmont. Secondo questo pensiero, largamente diffuso, le leggi chimico-fisiche (che erano via via scoperte) riguardavano essenzialmente la materia inanimata, solo secondariamente gli esseri viventi. Si continuava a credere che i fenomeni della vita avessero proprietà particolari (dette “psico-chimiche”) e che fossero governati da leggi proprie. Nell’Ottocento c’erano ancora molti strascichi in questo senso, nonostante l’avanzare delle conoscenze. Ad esempio, a lungo si credette che le sostanze proprie degli esseri viventi (come grassi o zuccheri) potessero derivare esclusivamente da organismi viventi. Per questo una delle grandi rivoluzioni dell’Ottocento fu capire senza più ombra di dubbio l’importante nesso fra vita e chimica (dando il via alla nascita della biochimica).
L’esistenza di un mondo microscopico, già ipotizzata da alcuni, fu dimostrata per la prima volta dall’olandese Anton van Leeuwenhoek nel XVII secolo. Riuscì a perfezionare i primi microscopi, ottenendo un ingrandimento mai visto prima (fino a 270 volte!). Con questo strumento riuscì ad osservare per la prima volta dei microrganismi nel 1676. Ipotizzò che fossero esseri viventi perché si muovevano e li chiamò “animalcula”, cioè piccoli animali.
La scoperta del mondo piccolo non fu però accettata subito da tutti, per lo meno non con questa interpretazione. Ancora nel Settecento c’era chi credeva che gli animaletti di van Leeuwenhoek non fossero altro che particelle vitali fuoriuscite da materia morta. Infatti, in linea col vitalismo, si credeva che la vita, soprattutto quella di certi animali “inferiori” (insetti, vermi o pidocchi), derivasse da materia inanimata che prendeva vita grazie a delle particelle, “atomi” vitali indistruttibili ed immortali, alla base anche delle attività fisiologiche degli esseri viventi. Alla morte dell’animale queste particelle tornavano in libertà e si ricombinavano con la materia inorganica per generare altri esseri viventi.
Facciamo un ulteriore salto all’indietro, perché questi concetti nascono e si ricollegano ad un pensiero antichissimo, avallato da Aristotele e da tanti altri dopo di lui, trasversale fra le più diverse culture: la famosa teoria della generazione spontanea. Secondo questa teoria gli esseri viventi “inferiori” originano dalla materia inanimata che viene “attivata” in determinate condizioni. Testi dell’antica Cina riportano come le mosche nascano dal sudore. Per i babilonesi i vermi nascevano dal fango. Nel Medioevo e nei secoli successivi si credeva che i topi e altre bestie simili nascessero dallo sporco, dal sudore o dalla materia putrescente (vi ricordate di van Helmont?).
La teoria della generazione spontanea venne per la prima volta messa in discussione per mosche, larve o altre insetti, dai celebri esperimenti del medico e letterato italiano Francesco Redi (1668), basati sul metodo sperimentale.
Le sue dimostrazioni aprirono un ampio e lungo dibattito, con sostenitori e detrattori. Tuttavia, se non più applicabile per insetti, la teoria tornò alla ribalta con la scoperta degli “animalcula“. A questo contribuì il lavoro del naturalista inglese John Turberville Needham che, all’epoca, ebbe una grande eco. Nel 1745 pubblicò i risultati di una serie di esperimenti che sembravano dimostrare in modo scientifico la fondatezza della generazione spontanea per questi piccoli esseri (in “New microscopical Discoveries”).
Questa dimostrazione gli valse quasi la nomina a membro della Royal Society di Londra, se non fosse stato per quel guastafeste di Lazzaro Spallanzani.
Dopo Redi, ci volle infatti un altro illustre scienziato italiano, Lazzaro Spallanzani appunto, a contrastare questa visione. Egli studiò questo piccolo mondo, sostenendo l’ipotesi che gli infusori fossero esseri viventi e non particelle vitali. Nel 1765 pubblicò un lavoro che dimostrava la fallacia dell’esperimento di Needham (“Saggio di osservazioni microscopiche concernenti il sistema della generazione de’ signori Needham e Buffon”).
Dimostrò anche che era qualcosa di vivo a causare la fermentazione alcolica del vino, perché era possibile impedirla con la bollitura del mosto (1765).
Eppure l’esperimento di Spallanzani non convinse del tutto i sostenitori della generazione spontanea. C’era chi criticava la bollitura, che avrebbe potuto eliminare anche quegli “atomi vitali” che avrebbero dovuto rigenerare gli infusori. C’era chi invece criticava la chiusura dei contenitori, sostenendo che questo impediva l’accesso dell’aria. Inoltre le idee di Needham erano supportate dal celeberrimo naturalista francese Buffon, la cui autorità contribuì ad offuscare il lavoro di Spallanzani.
Intanto l’attenzione di alcuni studiosi si concentrò anche su alcune antiche pratiche empiriche nella produzione del vino. Vi ricordate di quelle “cose strane” messe nei tini di cui ci ha già parlato il conte Dandolo? Oltre a lui anche altri ne parlavano, ma uno in particolare ebbe un’eco rilevante: il fiorentino Adamo Fabbroni o Fabroni (si trovano entrambe le versioni) (1748-1816). Nel suo testo “Sull’arte di fare il vino” (1787) dedicò alcune parti alla descrizione di certe pratiche tradizionali, basate sull’aggiunta al mosto di alcune sostanze che sembravano facilitare la fermentazione.
Fabbroni fa un elenco delle diverse tradizioni in tal senso, ricordando l’aggiunta di pasta madre del pane o la sola parte glutinosa, foglie di vite o altre piante, la spuma o i depositi della birra e del vino in fermentazione. Ricorda come Plinio raccontava che si usasse spuma di cerevisia (birra) in antichità. Racconta che i Cinesi preparano un vino con l’aggiunta di cereali e pezzi di carni di agnello. I Mossi, abitanti dell’America Meridionale, fermentavano il granoturco con l’aggiunta della loro saliva. Allo stesso modo gli abitanti di Formosa facevano col riso. Il romano Ulpiano (circa 170-228 d.C.) raccontava che si preparava una bevanda alcolica solo col pane, chiamata zyhtum.
Secondo lui tutte queste sostanze sono accomunate dal contenere una sorta di materia “vegeto-animale” (così la chiama, perchè di origine a volte vegetale e a volte animale) che secondo Fabbroni è capace d’incrementare in qualche modo la fermentazione.
Egli stesso racconta di aver verificato che, se la fermentazione stenta ma non mancano le altre componenti, questo può essere dovuto proprio al difetto di materia “vegeto-animale”. In questi casi, dice, è utile aggiungere alla vasca della spuma di altri tini già in fermentazione oppure della pasta di pane, glutine oppure del pane stesso.
Fabbroni non investigò oltre in questo senso, perchè anche lui era più concentrato sulla parte puramente chimica. Per Fabbroni il responsabile della fermentazione è soprattutto un acido nitroso o acido dell’uva. Critica anche Macquer nella sua ipotesi che lo zucchero sia la materia fermentata. Per Fabbroni lo zucchero ha un ruolo ma è soprattutto il tartrato ad avere una funzione fondamentale nella fermentazione.
Tuttavia il suo trattato ebbe una certa diffusione, grazie anche al fatto che una prima stesura fu vincitrice di un concorso indetto dall’Accademia dei Georgofili nel 1875. Il premio era rivolto a selezionare testi utili per il miglioramento della manifattura e conservazione del vino, al fine d’incentivare l’esportazione.
Così le sue indicazioni sull’aggiunta della materia “vegeto-animale” vennero riprese da Jean-Antoine Chaptal nel suo trattato “L’Art de faire, de gouverner et de perfectionner les vins.” (1800), considerato uno dei più importanti della sua epoca. Più tardi arrivarono in questo modo anche a Pasteur, come egli stesso racconta nel suo “Trattato sul vino“. Pasteur intuì quello che accomuna tutte queste sostanze: l’apporto di microrganismi al mosto. Questo però avvenne molti anni dopo.
Intanto, all’inizio del XIX secolo, i microscopi ebbero un’importante evoluzione grazie al fisico modenese Giovanni Amici. Il suo lavoro permise di risolvere problemi di aberrazione nella visione, rispetto ai modelli precedenti, consentendo di osservare i microrganismi con grande precisione. Questo miglioramento dello strumento diede il via al lavoro indipendente di tre studiosi, considerati oggi pionieri della microbiologia, anche se all’epoca non vennero presi molto in considerazione.
Il primo fu il francese Charles Cagniard de Latour (1777-1859) che esaminò al microscopio la birra e il vino, pubblicando i risultati nel 1837 in “Mémoir sur la fermentation vineuse“.
Descrisse i lieviti come dei globuli e affermò che non erano sostanza inerte o chimica, come si pensava fino ad allora, ma esseri vitali. Ipotizzò però che appartenessero al mondo vegetale perché non si muovevano. Fece anche lui delle prove che dimostravano che fossero in grado di compiere la fermentazione solo se vivi.
Friedrich Traugott Kützing (1807-1893), farmacista e botanico tedesco, pubblicò nel 1837 (poco dopo Latour) descrizioni e disegni delle cellule di lievito.
Egli suggerì che diversi tipi di microrganismi causassero diversi tipi di fermentazione.
Theodor Schwann (1810-1882), biologo tedesco, osservò i lieviti e li descrisse come dei funghi ( “A preliminary communication concerning experiments on fermentation of wine and putrefaction”, 1837). Chiamò questo organismo Zuckerpilz (fungo dello zucchero), da cui deriva ancora oggi il nome scientifico Saccharomyces (significa la stessa cosa in greco antico). Dai suoi studi concluse che la fermentazione doveva essere una decomposizione dello zucchero e delle sostanze azotate che il fungo usa per crescere. Gli elementi non utilizzati sono invece convertiti in alcol.
Questi lavori passarano però in secondo piano a causa dell’intervento critico dei tre chimici più influenti del tempo, i tedeschi Justus von Liebig (1803-1873, quello dell’ipotesi del moto delle molecole), Friedrich Wöhler (1800-1882) e lo svedese Jöns Berzelius (1179-1848). Questo evento, secondo gli esperti del settore, ritardò lo sviluppo della microbiologia di circa vent’anni.
Addirittura von Liebig e il suo associato Friederich Wöhler arrivarono a scrivere una parodia ridicolizzante della teoria microbiologica, che fu pubblicata (in modo anonimo) sulla rivista scientifica “Annalen der Pharmacie” di cui erano curatori (vol. 29, pp. 100-104, 1839). L’articolo s’intitolava “Il mistero sbrogliato della fermentazione alcolica “ (“Das enträthselte Geheimniss der geistigen Gährung”).
Eccone alcune parti, scritte in prima persona, con tono molto ironico. Prendono in giro quelle che per loro sono solo sciocchezze:
“Sto sviluppando una nuova teoria della fermentazione. Ora sono in grado di spiegare questa forma di decomposizione finora del tutto incomprensibile nel modo più semplice possibile e quindi considerate la questione pienamente risolta… Questo lo debbo all’utilizzo di un eccellente microscopio…
Quando i lieviti della birra sono sospesi in acqua ed osservati al microscopio, si trasformano in numerosissime minuscole sferule… Quando queste sferule vengono poste in una soluzione zuccherina, diventa ovvio che siano delle uova di piccoli animali, perché si gonfiano, scoppiano e si trasformano in creature minute che iniziano a moltiplicarsi in modo inimmaginabilmente veloce….
Non sono stato in grado d’identificare denti o occhi. Questi animali possiedono uno stomaco, intestino, ano (un punto colorato di rosa) e organi urinari. Dal momento in cui si schiudono, iniziano a divorare lo zucchero dalla soluzione, che può chiaramente essere visto entrare nello stomaco. In un batter d’occhio, viene digerito e i prodotti digeriti possono essere riconosciuti con sicurezza dagli escrementi ….
In una parola, queste creature mangiano zucchero ed espellono l’alcol dal tratto intestinale e l’anidride carbonica dai loro organi urinari. La vescica, quando è piena, sembra una bottiglia di champagne, e quando è vuota, come una pallina. …
Se la quantità di acqua è insufficiente, cioè la concentrazione di zucchero troppo alta, la fermentazione non avviene… Questo perché i piccoli organismi non possono cambiare il loro posto nel liquido viscoso: muoiono per l’indigestione causata dalla mancanza di esercizio fisico. ”
Come già accennato, i chimici non riuscivano ad accettare la teoria microbiologica anche perchè gli sembrava inverosimile che esserini così piccoli potessero produrre effetti così evidenti. Infatti scrivono, sempre in modo ironico:
“…Per dare un’idea dell’enorme voracità delle creature, … 3 parti di lievito di birra possono trasformare 200 parti di zucchero in alcol e acido carbonico. Gli escrementi che producono in 18 ore pesano quasi 66 volte il loro stesso peso … Non appena gli animali esauriscono lo zucchero, cominciano a mangiarsi l’un l’altro …”
Nel 1839 entrò nella disputa anche Berzelius, sostenendo che le osservazioni al microscopio non avevano valore scientifico e che il lievito non era un organismo. La fermentazione avviene, secondo lui, per mezzo della catalisi (termine da lui da poco introdotto). Infatti Berzelius aveva introdotto questo termine dimostrando la capacità di alcune sostanze di accelerare una reazione senza esserne modificate. Diversi chimici seguirono questi studi, fra cui proprio Wöhler e von Liebig, i quali estrassero dalle mandole amare uno di questi catalizzatori. Affermarono che, in modo analogo, nella fermentazione ci dovesse essere un’azione catalitica, continuando a rigettare l’ipotesi microbiologica.
Tuttavia alcuni scienziati iniziarono invece ad accettare l’idea che il lievito potesse avere un qualche ruolo. Arriviamo quindi finalmente a Louis Pasteur che pose fine a diatribe ormai secolari.
Gli studi Pasteur, che hanno fondato la microbiologia, dimostrarono definitivamente che i batteri nascevano da altri batteri o da una specie di “semi”, dette spore, che potevano essere trasportate anche a grande distanza dal vento, da insetti o altro. Ripeté una versione ancora più perfezionata degli studi di Spallanzani che chiusero la questione della generazione spontanea (1864). Si stabilì così che ogni essere vivente deriva da un altro essere vivente (biogenesi).
I suoi primi studi sulla fermentazione della birra iniziarono nel 1857. Questi suoi primi lavori attirarono l’attenzione del Governo francese che gli commissionò di approfondire gli studi sul vino. Era più che mai d’interesse nazionale riuscire a trovare rimedi ai problemi di vinificazione. Pasteur pubblicò i suoi studi sul vino nel 1866.
Dimostrò anche che i microrganismi erano in grado di agire su succhi, latte o altro con cui venivano in contatto, grazie a delle loro proprietà che Pasteur non spiegò e chiamò “fermenti”. Dimostrò che i microrganismi non erano tutti uguali, che esisteva una correlazione fra un dato microrganismo e un certo tipo di fermentazione.
Pasteur dimostrò il ruolo del lievito nella fermentazione alcolica e come questa fosse un fenomeno fisiologico. Questo accese una polemica con lo scienziato Marcellin Berthelot che invece ipotizzava che il lievito rilasciasse nel liquido le molecole, dei “fermenti solubili”, che svolgevano di fatto la fermentazione.
Pasteur identificò due classi di microrganismi, l’uno in grado di vivere solo in presenza di ossigeno e l’altro no, definendoli, rispettivamente, aerobi ed anaerobi (termini coniati da lui). Capì anche che il lievito svolge la fermentazione alcolica in assenza di ossigeno. Se questo è presente, il lievito si sviluppa ugualmente, ma la fermentazione alcolica è inibita. Più tardi si chiarirà come questo sia dovuto alla capacità del lievito di avere un metabolismo anaerobio (la fermentazione) ed anche aerobio (cioè la classica respirazione che facciamo anche noi).
Pasteur studiò poi le principali alterazioni del vino dell’epoca, cioè la parziale acetificazione (lo spunto acetico, causato dai batteri acetici), il girato, il filante, l’amaro (o amarone). Queste ultime erano malattie molto comuni nel passato ma scomparse quasi del tutto ai nostri giorni. Pasteur esaminò moltissimi campioni prelevati da vasche alterate e ricondusse queste malattie alla presenza di diversi microorganismi, ciascuno caratteristico di una certa alterazione.
Non era semplice trovare un rimedio. Non poteva certo bollire il vino, altrimenti lo avrebbe rovinato nel gusto. Non poteva neppure usare i disinfettanti disponibili all’epoca! Arrivò allora ad ideare un metodo basato sul riscaldamento del vino a bassa temperatura e in assenza di ossigeno. Dimostrò che questo trattamento bastava per sterilizzarlo in modo sufficiente. Egli brevettò la scoperta, chiamandola pastorizzazione, e la presentò all’Accademia delle Scienza il primo maggio 1865.
Questo procedimento, ulteriormente affinato, è ancora oggi utilizzato per diversi alimenti, come ad esempio il latte, la birra o succhi di frutta. Per il vino fu usato fino agli anni ’30 del Novecento, senza però avere mai una grande diffusione, per via dell’idea (vera o presunta) che ne alterasse comunque il gusto.
Pasteur fece anche diversi studi sui processi d’invecchiamento del vino e capì il ruolo dell’ossigeno in questa trasformazione.
Riassumendo, l’Ottocento fu un periodo di grande importanza per la fermentazione alcolica, con anche grandi scontri fra scienziati geniali. Abbiamo visto le spiegazioni chimiche di von Liebig e altri, che però non volevano accettare l’intervento dei piccoli infusori. Poi ci fu Berzelius, che sosteneva la sua teoria catalitica. Infine Pasteur, paladino dei microrganismi che svolgono una funzione fisiologica. Rimase però in lui un rimasuglio del pensiero vitalistico: sostenne fino alla fine che i processi fermentativi, pur spiegabili con formule chimiche, potessero avvenire solo alla presenza di organismi viventi.
Eppure, alla fine di questa storia, si capì che in fondo avevano ragione tutti e tre. Ognuno era però rimasto ostinatamente ancorato ad un solo aspetto del problema.
Questo chiarimento avvenne soprattutto grazie al lavoro del chimico tedesco Eduard Buchner (1860-1917) che nel 1897, due anni dopo la morte di Pasteur, dimostrò che l’attività fermentativa poteva essere attuata anche in assenza dei lieviti, ma solo con estratti di essi. Egli dimostrò che i “fermenti” già intuiti da Pasteur fossero alcune proteine contenute nei lieviti.
Solo mettendo insieme i lavori di tutti (come spesso accade nella scienza) si poté ricostruire il quadro completo. Si definì così che la fermentazione è un processo di nutrizione di un organismo vivente ma che può essere riprodotto in sua assenza, in quanto si tratta di una reazione chimica catalizzata da enzimi (proteine) presenti nelle cellule.
Da qui si è aperto un mondo: da lì in poi, con tecniche sempre più fini, si è esplorato sempre più a fondo il mondo della biochimica e della microbiologia.
Ad oggi, siamo arrivati a conoscere molto bene i responsabili della fermentazione (qui e qui), fino alla sequenza completa del loro DNA.
Questa però è ricerca pura, ma … e il vino?
(continua…)