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Da dove arriva allora il Saccharomyces?
Le ricerche hanno dimostrato come l’habitat migliore del S. sia la cantina e non la vigna. Si insedia con contaminazioni delle quali è difficile individuare l’origine (può succedere che venga dall’ambiente esterno, da attrezzi, in molti casi da lieviti portati in cantina, ecc.). In una vecchia cantina, dove si fanno vinificazioni ormai da anni, ne diventa un abitante discreto ma ben insediato. Viceversa si sa che nelle cantine nuovissime le fermentazioni stentano sempre un po’.
Cosa succede allora nel corso di una fermentazione spontanea?
Quando ammostiamo l’uva, trasferiamo nel mosto tutti i nostri piccoli ospiti viaggianti. Il trattamento non piace però a tutti, molti soccombono. Rimangono quelli adatti a sopravvivere in queste nuove e difficili condizioni: alta concentrazione zuccherina e (quasi) assenza di ossigeno. Il Saccharomyces è in scarsa rappresentanza e per ora se ne sta abbastanza buono. La fermentazione parte con i non-saccharomyces che si alternano anche rapidamente nella volata. È una sorta di gara per la sopravvivenza: tutti vogliono quel “dannato” zucchero (e altri composti) ma vince e si alterna al comando chi riesce a prevalere in quel momento numericamente, o perché parte in vantaggio o perché è favorito da diverse condizioni chimico-fisiche che via via si succedono (temperatura, pH, acidità, etanolo crescente, ecc.). Intanto il Saccharomyces prende sempre più slancio e, siccome è un po’ più forte, vince gli altri sulla resistenza all’alcool (e ad altro), diventando sempre più la specie dominante. Si è appurato che, dove il Saccharomyces non ce la fa a prevalere sul finale (per diversi motivi), le fermentazioni procedono con difficoltà e si hanno spesso esiti sfavorevoli sulla qualità del vino.
Spero sia chiaro che in tutto ciò entrano in gioco un gran numero di variabili, che cambiano in modo consistente il risultato finale (le caratteristiche del vino). L’enologia non è certo una materia semplice: la conoscenza è fondamentale per non procedere troppo pericolosamente in balia del caso (non sempre benigno). In fondo, siamo o no professionisti-artigiani del nostro lavoro? Entrano in gioco, positivamente o negativamente, lo stato sanitario delle uve, la disponibilità di nutrienti azotati, la pulizia di attrezzature ed ambiente, le temperature, il contatto più o meno spinto con l’ossigeno, ecc., oltre che (naturalmente) l’aggiunta eventuale di solforosa e l’inoculo col Saccharomyces (atti che cambiano le carte in tavola). Tutti questi fattori influiscono selezionando le varie specie e i ceppi che si alternano nel mosto a condurre la fermentazione.
Sappiamo però chi è che conduce il gioco?
No, è veramente difficile seguire passo a passo l’alternarsi nella vasca. Il produttore sa gestire attentamente la fermentazione con opportuni e calibrati interventi quando questa stenta ad andare avanti, se inizia a sentire certe puzzette sgradevoli, ecc. Non può però sapere con certezza chi conduce il gioco che, come già detto, fra l’altro può anche variare ogni anno. Si è dimostrato anche (in cantine dove sono condotte solo fermentazioni spontanee) che i microrganismi coinvolti cambiano anche passando dalle prime fermentazioni a quelle successive. Nelle prime fermentazioni dell’annata al principio partono i non-saccharomyces, mentre il S. interviene più tardi. Andando avanti con la vendemmia però, quando è ben forte in cantina, il Saccharomyces può diventare predominante subito nelle fasi iniziali.
E il lievito aggiunto? È il diavolo?
Per qualcuno è lo slogan del momento: il lievito indigeno (o no) sembra poter rapidamente designare i vini come migliori (o meno). Tuttavia è come concentrarsi solo sulla punta di un iceberg e non pensare all’enorme massa che sta sotto l’acqua. Per fare un grande vino artigianale di territorio la fermentazione è sicuramente fondamentale ma ci vuole tantissimo prima (in vigna soprattutto) e tanto dopo. Ad esempio, se ho un’uva non equilibrata, perché viene da vigneti che crescono in modo un po’ stentato, posso fare anche fermentazioni spontanee ma otterrò comunque vini poco espressivi. Questo perché nelle uve mancano i “mattoncini” fondamentali che i lieviti dovrebbero usare per fare un grande vino, ma non li trovano!
Aggiungere lievito può essere utile in certe situazioni difficili, senza inficiare in modo significativo le caratteristiche territoriali del vino. La ricerca ha dimostrato che l’inoculo non necessariamente impedisce l’attività iniziale dei non-saccharomyces che arrivano dalla vigna, soprattutto se l’aggiunta viene, ad esempio, un po’ ritardata.
Sicuramente si sa che è molto meglio la diversità delle specie e dei ceppi che l’uniformità. Sicuramente per produrre vino di territorio è meglio evitare tutti quei ceppi selezioni che introducono nel vino particolari caratteristiche, alterando quelle territoriali. Il meglio è aiutarsi, quando serve, con l’inoculo dei ceppi selezionati dalla propria cantina che, qualunque sia la loro provenienza, comunque sono diventati parti integranti del nostro “terroir”. Sicuramente si sa che ogni vino, anche nella stessa cantina, ha la sua storia e le sue necessità, non sempre uniformabili, in tutti i sensi!
Questo intervento è molto generico e divulgativo. Quello che mi preme è far capire l’enorme complessità che entra in gioco in questo processo e che rende tanto affascinante quanto complicato il nostro lavoro. Capirete così anche perché, di norma, il vignaiolo durante la vendemmia dorma con difficoltà, pensando incessantemente a quanto succede nelle vasche. È un piccolo mondo ma vi succedono tante cose!
Se volete scoprire l’incredibile storia di come si è scoperto il ruolo dei microrganismi nella fermentazione potete leggere anche qui, qui, qui e qui.