Qui eravamo rimasti all’ampelografia…

Uve di Bartolomeo Bimbi (1700). Il Bimbi creò quella che è una vera e propria "ampelografia visiva" delle uve (e altri frutti) toscani del suo tempo, dietro incarico di Cosimo III de Medici.
“Uve” di Bartolomeo Bimbi (1700). Il Bimbi creò quella che è una vera e propria “ampelografia visiva” delle uve del suo tempo. Pittore della corte medicea a Firenze, fu incaricato da Cosimo III di riprodurre frutti, ortaggi, fiori ed animali,  “perchè ne rimanesse sempre viva la memoria”. Le sue opere sono una fedele testimonianza di queste varietà e specie in Toscana alla fine del ‘600.

La parola ampelografia deriva dal greco e significa la scienza che descrive (grafia) la vite (ampelos), cioè studia, identifica e classifica le diverse varietà della vite.

Le prime indicazioni di nomi di varietà si trovano in autori romani, soprattutto Plinio e Columella. Nel Medioevo alcuni vitigni, quelli più pregiati e che davano origine ai pochi vini di lusso, compaiono in alcuni statuti comunali. Dal Trecento e poi nel Rinascimento compaiono riferimenti a varietà in opere poetiche e letterarie (come non ricordare il “Bacco in Toscana” di Francesco Redi, elenco vertiginoso delle varietà locali, oppure il Poliziano, Boccaccio, ecc..).

La parola ampelografia compare, per la prima volta associata alla descrizione di varietà di uva, nel trattato intitolato (appunto) “Ampelographia” del medico olandese Philipp Jacob Sachs. Tuttavia dobbiamo aspettare la fine del secolo dei Lumi perché parta il processo che porterà alla nascita di una vera e propria disciplina scientifica.

Sulla base della spinta positivista del Settecento e in particolare l’ideazione del metodo di catalogazione scientifica di Linneo, l’Ottocento vide la nascita dell’ampelografia come scienza, ma la strada fu molto lunga e non proprio facile.

Nel corso dell’Ottocento diversi studiosi tentarono vari approcci per gettare le basi di uno studio sistematico delle varietà delle uve. Un notevole impulso derivò, nella seconda metà del secolo, anche dalla diffusione delle malattie “americane” (oidio, peronospora e poi la famigerata fillossera) e la necessità di trovare soluzioni.

Tuttavia il percorso non fu facile: il problema “vitigni” era veramente un affare ingarbugliato. Ci si ritrovava, dopo millenni di incroci e selezioni spesso involontarie, a dover classificare migliaia di varietà, qualcosa che finora era oscuro, senza nome o a volte con troppi nomi, con un vasto intreccio di parentele, somiglianze a volte troppo difficili da distinguere e differenze viceversa non così significative… Virgilio aveva scritto nel I sec. a.C. (con un po’ di enfasi):Le varietà della vite sono tanto numerose come i granelli di sabbia del deserto libico.

Antonio Mendola
Barone Antonio Mendola

Il problema prima di tutto era metodologico. Era necessario identificare quei caratteri determinanti per una catalogazione. Purtroppo però questi non hanno sempre lo stesso valore, alcuni sono spesso difficili a definirsi, molti possono sembrare troppo comuni, altri sono variabili nella popolazione della stessa varietà. Ad esempio, la lunghezza degli internodi, che sembra un parametro chiaro, può essere diversa fra gli individui di una stessa varietà oppure se gli stessi sono coltivati in ambienti diversi.

Per ogni carattere poi bisognava identificare una scala oggettiva, un metodo di rilevazione chiaro ed uniforme, che non dipendesse dall’interpretazione opinabile del singolo osservatore. Per la definizione di caratteri fondamentali e scale di misura si avviarono anche progetti ministeriali, nella seconda metà dell’Ottocento, con la nascita di Commissioni locali.

La difficoltà della materia portò anche a vivaci discussioni fra i diversi ricercatori, a dissidi nelle commissioni di studio, come i contrasti fra i membri della Commissione di Alessandria e il Presidente, l’enologo Luis Oudart, che si possono leggere in “Ampelografia della Provincia di Alessandria” (1875) di DeMaria e Leardi, digitalizzato dall’Università della California.

Un altro grosso problema era dato dalla confusione creato dalla nomenclatura: molte varietà cambiavano anche più di un nome passando da zona a zona. Valeva però anche il contrario: lo stesso nome poteva essere usato, in zone diverse, per indicare varietà diverse.

Conte Giuseppe di Rovasenda
Conte Giuseppe di Rovasenda

 

Infine, gli studiosi sentivano la mancanza fondamentale di una collezione ampelografica vasta e studiata, che permettesse una classificazione sistematica. Le uniche in Italia dell’Ottocento, degne come numero, erano quelle del Barone di Mendola (3000 vitigni) e del Conte di Rovasenda (3700 vitigni) da cui purtroppo non uscirono pubblicazioni, se non parziali, delle osservazioni raccolte.

Alle difficoltà oggettive si aggiunsero anche spinte oppositrici. C’erano quelli che non credevano nell’utilità pratica della nuova disciplina, vedendola come un inutile spreco di tempo. C’erano anche quelli, soprattutto agli albori, che scontrandosi con tutte le difficoltà di una materia così complicata, rinunciavano, ritenendo impossibile questa opera immane. Molon, grande ampelografo, riportò le sue frustrazioni  in  “Lamentazioni ampelografiche” del 1889: “… l’ampelografia in Europa può dirsi ancora bambina, perché un lavoro di sintesi non si è ancora potuto fare. Urge che anche noi ci poniamo all’opera con larghezza di mezzi e tenacità di propositi, perché malgrado le fatiche di pazienti ricercatori, al giorno d’oggi l’ampelografia è un insieme complesso e confuso di nomi, di descrizioni, che non dà soddisfazione allo scienziato, né profitto al viticoltore.” Riferendosi alle Commissioni Ampelografiche italiane scrisse: … se agli sforzi fatti nei primi anni dalle Commissioni Ampelografiche, non fossero susseguite una indifferenza ed una noncuranza non meno biasimevoli che nocive, si sarebbe di certo poco lontani da questa méta tanto desiderata.

Collezione Rovasenda
Collezione Rovasenda

Tuttavia gli ampelografi sanno che la loro materia non serve solo a creare elenchi e classificazioni sterili ma è un mezzo fondamentale per migliorare la viticoltura in generale. Solo così è possibile capire quali siano le varietà e gli individui migliori per quel determinato territorio e quali quelle mediocri da abbandonare. Chi ci crede porta avanti il suo lavoro con passione. Questo è il contesto difficile in cui nasce la celebre frase di Jules Guyot: “Il genio sta nel vitigno ! ” (che Dalmasso giudica frase troppo assoluta ma sicuramente vera a metà).

Corsi e ricorsi storici: Columella scriveva in epoca romana:

Perché mai, dunque la vigna è così poco stimata? Non per colpa sua… ma per colpa degli uomini: prima di tutto perché nessuno mette cura nell’esaminare i vitigni”.

….(CONTINUA qui e qui)

Girolamo Molon
Girolamo Molon
Dall'Ameplografia del Molon: Marzemino
Dall’Ampelografia del Molon: Marzemino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le immagini sono prese dai seguenti siti (se qualcuno ritenesse l’uso inappropriato, mi scriva a info@guadoalmelo.it che provvederò a cancellarle):

http://www.corrieredisaluzzo.it/cgi-bin/archivio/news/Rovasenda_il_signore_delle_viti.asp

http://www.oicce.it/sito/ot/ot22/ot22vigna.html

http://www.favara.biz/memorie_storiche/personaggi/personaggi_vari/mendola_antonio.htm

http://biodiversita.provincia.vicenza.it/present/pr_vitis.htm

Immagine del Bimbi: commons.wikimedia.org